top of page

Le Guardiane della Galassia 5. «Lupa in fabula»

Rassegna modesta di femminismi diffratti e ibridazioni letterarie


L’ultimo atto nell’esplorazione letteraria delle Guardine della Galassia (Rambelli, Tepper, Butler, Vallorani, Winterson, Farris, Jemisin ed Emiliani), tesse, o disfa, dipende dal punto di osservazione, la trama della fabula fantascientifica. Ha attraversato gli archetipi del femminile, le visioni e i ricordi rifratti dalla realtà, le reti organiche che impregnano i corpi, il linguaggio e le tecniche narrative ed è arrivata sul bordo finale della Galassia. Lì, si apre «un intero megaverso di fantascienza ancora da esplorare».


* * *


Il quinto prisma da attraversare, nell’esplorazione dei romanzi delle Guardiane della Galassia, ha la forma di una sfinge che luccica di verde smeraldo come la città di Oz e ci pone un unico ed essenziale quesito: se è la bambina che sbrana un dolce e innocente lupo e ne porta le ossa alla nonna per fare il brodo che ristorerà entrambe, a cosa serve il cacciatore? Lo si invita ad assaggiare il consommé, oppure no perché non è mai passato di lì? E se per errore si fosse sparato in un piede?

Per trovare la risposta, che non è ovvia come potrebbe sembrare, o le molte risposte possibili, la sfinge ci invita a valicare il portale smeraldino per rintracciare negli otto romanzi che guidano la nostra esplorazione, le leggende e le speculazioni, i miti e le fantasie ordite per deliziare e terrorizzare, distrarre e stupire chi legge. Quali storie i testi ci raccontano, se il lupo è stato divorato tutto o solo in parte, se la favola canonica è sovvertita, reinterpretata o travisata, se la zuppa con le ossa lupine è gustosa – ovvero se il cambiamento è vantaggioso – lo capiremo con la sua guida. Si intende che la sfinge verdeggiante, trovandosi all’estremo limite della Galassia, ci fornirà un punto di vista del tutto esclusivo e peculiare sulle narrazioni che ripercorriamo per l’ultima volta.


Rasa al suolo Cartagine è buona norma spargere il sale

Si attiene a questa lungimirante prescrizione Octavia Butler in Ultima Genesi, del 1987: prima sterminando quasi tutta l’umanità in un olocausto nucleare, poi inviando gli extraterrestri Oankali per un’ulteriore porzione di carneficina. Simili a disgustose teste di Medusa mobili, gli alieni sono intenzionati a ibridarsi geneticamente con i pochi sopravvissuti e i discendenti a venire.

È la loro natura e non possono né vogliono negarla, avendo come imperativo etico la mescolanza con le altre razze planetarie che incontrano viaggiando, anche se non è chiaro quanto queste ultime siano d’accordo. Di certo, ha perso ogni possibilità di negoziazione la popolazione della Terra - meglio ribadirlo - che si è da sola portata sull’orlo dell’estinzione. Potrebbe quindi inizialmente sembrare che Butler prenda come punto di partenza l’idea di cancellare la favola facendo morire bambina, lupo, nonna e cacciatore.

Poi però, decide di correggere il tiro al punto tale che la sua protagonista, Lilith, finirà per fare sesso con la creatura ripugnante. Se applichiamo la lente metaforica, la bambina divora il lupo ma la conseguenza per lei sarà una metamorfosi lupina cioè un esito del tutto fuori dal suo controllo. Rispetto a un topos classico della fantascienza, quello del primo contatto con una specie aliena, e al dubbio tipico: ci mangeranno o ci aiuteranno? Butler sceglie una modalità duale: gli alieni risultano sia salvatori che distruttori.

L’asservimento forzato, la promiscuità con gli Oankali - negrieri simbolici - è l’unica via di sopravvivenza e l’alternativa che resta, praticata infatti da alcuni compagni di Lilith, meno flessibili di lei, è il suicidio. Ovvero non c’è modo di ritemprarsi col brodo. Per giunta, dato ciò che il finale del romanzo imbandisce per il futuro, sarà inevitabile avere il cacciatore a capotavola perché l’umanità ibridata dovrà ricominciare dall’inizio dei tempi e non ci sono segni che per le bambine possa andare meglio dell’ultima volta che la preistoria è stata la portata principale.

Anche l’altra autrice afroamericana tra le Guardiane della Galassia, Nora K. Jemisin, nel suo romanzo La quinta stagione, del 2015 (primo tomo della trilogia La terra spezzata) sceglie di annientare tutte le civiltà e, per sicurezza, di reiterare l’operazione facendo sconquassare, da fortissimi terremoti a intervalli più o meno regolari, l’intera superficie planetaria. Purtroppo, sembra che neanche questo metodo, in apparenza così esaustivo e radicale, riesca a estirpare la specie umana in modo permanente. Ogni volta, sopravvivono e ricominciano da zero, sia pure tra estreme difficoltà, esemplari sparsi di sapiens che riproducono le consuete violente dinamiche di sessismo, razzismo e sopraffazione reciproca nonostante storia, geografia, geopolitica, ecologia e sociologia siano state completamente riscritte. Eppure, l’umanità di Jemisin è fatta di mescolanze e i caratteri genetici dominanti ribaltano i paradigmi estetici della bianchezza.

Riguardo al canone della favola, la protagonista Essun, che si ritrova all’inizio con un figlio ucciso di botte dal padre, farebbe pensare alla bambina divorata dal lupo, ma in questo caso (sempre in metafora) il lupo non ha portato a termine il suo pasto. Essun, sia pure malconcia, si mette in cammino in cerca della figlia che le resta e il suo sguardo illumina un mondo fantastico, terribile e meraviglioso. La paziente ma determinata indagine di Essun fa comunque pregustare un brodo che, pur restando impossibile dire – fino alla fine della trilogia - dalle ossa di chi verrà insaporito, dà l’idea di una pietanza sontuosa mai servita in tavola in questa Galassia. Jemisin costruisce un canone tutto suo anche se, dal punto di vista estremo del quinto prisma, si nota l’uso di una tecnica molto classica per generare tensione narrativa: concedere un potere enorme alla propria eroina/eroe e una altrettanto grande riluttanza a utilizzarlo al punto che, a volte, si rischia che l’incredulità sospesa precipiti a terra infrangendosi.


Veni vidi vici victa sum

A differenza di Cesare, famoso per non avere perso mai una battaglia o almeno questa è la narrazione che accompagna la sua fama, le donne perdono sempre o almeno questo riportano (quasi tutte) le cronache. Una di queste è quella di Avrai i miei occhi, romanzo del 2019 di Nicoletta Vallorani, che ha per fulcro la storia delle Cavie Regine. Sono ciò che resta di giovanissime donne e ragazzine rapite e sottoposte a cicli di torture e brutalità incondizionata senza poter morire, perché il corpo che soffre non è il loro ma quello di altre cavie a cui prestano il sistema nervoso ed emotivo. Così come la stazione emittente si sintonizza su quelle riceventi, le Cavie Regine - tramite un pulviscolo tech nell’etere - sono connesse alle cavie con la c minuscola. Queste ultime sono cloni, cose, corpi senza sostanza (si direbbe, ma restano tanti dubbi) stuprati, mutilati e rigenerati a volontà per il mercato dei video snuff. Corpi femminili che però muoiono a frotte, uccisi - anzi spenti - dalle Cavie Regine stesse per cercare di interrompere il loop infernale di morte orribile-rinascita-rimorte orribile che avvinghia corpi emittenti e corpi riceventi.

La morale di questa favola vuole essere palese: se massacri il corpo di una donna, massacri anche tutte le altre. Il lupo stravince e stramangia, in Avrai i miei occhi, senza che mai un ossicino gli vado di traverso.

La bambina metaforica, la protagonista Olivia, pur prendendo parte attiva nel cercare di rovinare il prossimo banchetto, ha bisogno di allearsi con un cacciatore per portare a termine la sua missione. Tuttavia il canone di Barbablù riproduce se stesso senza errori o mutazioni quando la coltura in cui è immerso è la Milano descritta da Vallorani. Dal bordo finale della Galassia, dove la luce si flette e permette di leggere il futuro, si vede molto bene che il lupo che ha saltato un pasto diverrà solo più affamato. Nonna e bambina, invece, resteranno senza cena e senza nemmeno un piatto sporco da cui leccare i residui del brodo.

Un’altra cronaca sotto la stessa insegna della sconfitta inevitabile è quella di Cenere, romanzo di Elisa Emiliani sempre del 2019. Questa volta è la campagna emiliana a essere teatro della distopia; a rappresentare il male assoluto è chiamato un onnipresente, onniveggente e onnipotente mercato che si è impadronito dei social media e ha cancellato la privacy, piegando cittadini e istituzioni alle sue leggi in una dittatura di stampo fascista. Emiliani, però, non vuole rinunciare del tutto al sogno degli inizi dell’era digitale, quando libertà e anonimato erano due facce della stessa medaglia. Rovesciando la parabola di Matrix - dove la rete è l’illusione che ci aliena dalla realtà - cerca proprio nella rete una via di fuga che garantisca l’anonimato per mettere in atto una resistenza culturale contro-corporativista.

Nella favola di Cenere gioca un ruolo importante la nostalgia. Il nascondiglio del sapere è una vecchia biblioteca: è quindi nel passato che si trova la linfa rivitalizzante per la resistenza del futuro? Ma il rimpianto non si spinge fino a coinvolgere alcun cacciatore, la protagonista – come sempre aggredita e ripetutamente dal lupo – lo ucciderà da sola, salvo poi, e proprio a causa di questa azione che innesca la reazione di un sistema interamente lupesco, morire anche lei immolandosi per la causa. La nonna, a proposito, è morta all’inizio del romanzo senza patire così l’assenza della zuppa in tavola.

Per qualunque bambina inseguita dal lupo, il suggerimento della sfinge dal suo punto di osservazione così liminale è quello di evitare il corridoio narrativo tra Cenere e Avrai i miei occhi. È più pericoloso del tratto di mare tra Scilla e Cariddi sferzato com’è da flutti burrascosi e venti di tempesta. Il rischio nel corridoio suddetto è, a ben vedere, che financo le leggi di natura cospirino e il lupo si riveli un nuotatore provetto, mentre le fanciulline colano a picco.


Nulla di nuovo sotto il sole

Alla fine di Profilo lineare b di Roberta Rambelli, del 1980, Achille e la sua combattiva fidanzata Hashepsowe si ritrovano a passeggiare sulla piana di Troia come una qualsiasi coppia borghese in una vacanza un po’ snob degli anni Settanta del secolo scorso. A parte qualche dettaglio macroscopico, tipo che gli dei sono alieni ipertecnologici che vivono millenni e che la mummia di Alessandro Magno è di plastica, cosa è cambiato dai tempi di Omero in questa fabula fantascientifica? Le ultraumane divinità posseggono ancora intatti i nostri peggiori vizi – e infatti litigano tra di loro come hanno sempre fatto - però si servono di robot dodecaedrici perché il superamento della forma antropomorfa è il segno di una vera avanguardia tecno-psicologica. Il fatto che Achille sia scampato alla morte grazie alla madre Teti che ha messo al suo posto - all’ultimo momento - un simulacro in plastica, non cambia la sostanza di questa rivisitazione di Rambelli, che è un abbondante omaggio non solo al canone esemplare del mito di Troia ma anche a quello (primigenio? ancestrale?) della favola canonica dove è l’eroe-cacciatore (Achille) a vincere il lupo-capobranco (Zeus) e a salvare la bambina (madre in questo caso) Teti.

Nel romanzo, alcuni indecifrabili commenti sull’ipotassi e la paratassi della storia e molte polemiche sul medium televisivo che distrugge la vera cultura accompagnano vicende ultraclassiche (non per questo meno godibili, in ogni modo) come la discesa dell’eroe negli inferi, per la quale Rambelli scomoda persino Dalì e i suoi orologi in liquefazione. Quando Achille è nel Tartaro «il tempo che aveva potuto valicare tante volte recidendone l’evolversi naturale adesso sgocciolava con inerte riluttanza sulla sua consapevolezza». Per la sensibilità bordo-galattica del quinto prisma non è importante, infine, che l’omosessualità di Achille venga ostinatamente tralasciata tutte le volte – e sono molte – che Patroclo (anche lui sostituito con la plastica) entra in scena perché, in realtà, questo sottolineerebbe solo con l’evidenziatore fucsia il canone classico dell’eroe-cacciatore che il meglio del caldo sentimento di amicizia, dell’erotismo e della sensualità lo riserva a un suo pari e non alla fidanzatina.

Non tutte le fan-fiction, naturalmente, sono così timide e sia pur tenendosi nel solco di vicende già narrate, si può reinventare la favola con un semplice e geniale pop-up narrativo. Nel film La rosa purpurea del Cairo[1] il personaggio di Tom Baxter esce materialmente dallo schermo e propone all’assidua spettatrice di fuggire insieme. In modo simile, nel romanzo Frankissstein del 2018 di Jeannette Winterson, il barone di Frankenstein dell’opera omonima di Mary Shelly viene salvato dai ghiacci del polo Nord e arriva nel manicomio di Bedlam per incontrare colei che l’ha creato e chiederle di non farlo esistere. Non avendo mai vissuto, non può morire, dice. È anche lui stesso il mostro che Mary Shelly ha creato. I significati della fabula si stratificano. I personaggi immaginari vivono per sempre? Oppure non hanno mai vissuto? Sono mostri per questo motivo? Che dire, allora, dei cervelli sottovuoto, delle intelligenze nei chip di silicio, delle parti di corpo semoventi e dei corpi interi delle sex-bot? Strato dopo strato, Winterson è sempre più eversiva: le ginoidi del mercato globale simboleggiano le donne reali? Sono queste ultime a essere modellate dalla mente di un creatore, non meno mostruose di altri mostri, dunque. Non paga, l’autrice ci informa che Bedlam veniva chiamato Bethlem mettendo in gioco, spudoratamente, un’altra Mary che ha messo al mondo un figlio che non può morire perché non è mai vissuto. La fabula nuova seminata nella fenditura della storia classica è che amore è un mostro, e genera mostri. Il mostro di Frankenstein uccide per amore, il lupo mangia per amore e la bambina pure, se capita che a divorarlo sia prima lei. Il cacciatore spara per amore e il brodo fatto con amore sarà sicuramente buono.


Natura vincit omnia

I cambi radicali di paradigma implicano di necessità anche straniamenti e inquietudini. Ce lo dimostra Clelia Farris in La giustizia di Iside del 2011, con la nuova e (a tratti) repellente ecologia umano-animal-vegetale del suo Egitto mai esistito. Domina, in questo Egitto, la dittatura una e trina di Materia-Forma-Funzione in virtù della quale, per esempio, la fusione sessuale con crostacei e invertebrati marini avviene tramite le enormi zampe falliche di un granchio o per mezzo di un riccio di mare usato come vagina spinosa. Per Farris la materia è perturbante in sé e una eventuale dimensione trascendente – come Iside nel titolo – è solo un’aberrazione della materia stessa. La morale di questa favola è che l’assenza di una cesura ontologica tra umano e inumano è proprio ciò che rende possibile un altro modo di vivere il rapporto tra le tecnologia e la nostra umanità. Non estranee e aliene l’una all’altra, bensì gemelle siamesi con tutto il carico di degenerazioni e perversioni incluse. In un mondo dove non esistono soluzioni di continuità, tuttavia, è impossibile pensare di riuscire a pareggiare i piatti della bilancia una volta rotto l’equilibrio. Nella fiction di Farris l’anima degli assassini viene scambiata con quella delle loro vittime le quali, però, tornate in vita, non sono contente perché nel frattempo la materia-mondo si è riassestata senza di loro. La giustizia è inafferrabile per chiunque, nonna, bambina, lupo o cacciatore e la fabula classica perde la sua ragion d’essere. Se, alla fine, avanza del brodo egiziano è di sicuro brodo di pesce, non proprio per tutti i gusti. Ben visibile dal limite estremo della Galassia di questa fabula ci resta il tornio del vasaio divino, il dio egiziano Khnum, citato sette volte nel romanzo. La rotazione del suo strumento crea il mondo e le persone, modella e rimodella lineamenti, pensieri e convinzioni. Tutto cambia inevitabilmente ed è l’unica lettura di senso per la stranezza del mondo.

Altrettanto inevitabilmente, a forza di giocare con le armi, il cacciatore prima o poi si spara in un piede o peggio. Questo, effettivamente, accade a Rigo, il personaggio di Pianeta di caccia di Sheri Tepper, del 1991, che, non appena sbarcato sul pianeta Grass in missione diplomatica interplanetaria, si innamora della speciale arte venatoria praticata da quelle parti. Molte cose concorrono a questa infatuazione: come in una vera e propria favola, tutte e tutti sono stregati dalle cavalcature e dai cani che li accompagnano; quando è in programma una battuta di caccia il tempo è sempre splendido come per magia ma, soprattutto, ogni volta che una volpe viene uccisa una scarica di intenso piacere sessuale invade l’inguine dei cacciatori, maschi o femmine che siano. Tepper costruisce un mondo alieno dove la natura intatta del pianeta e gli animali esercitano una malìa ambivalente sugli esseri umani con un chiaro distinguo se questi umani sono maschi oppure femmine. Rigo e gli altri patiti della caccia finiranno la loro vita spremuti dagli animali che cavalcano, issati in groppa come fantocci inanimati in una macabra parodia di loro stessi. Le mogli, invece, colto il pericolo di una dipendenza incondizionata dalle conseguenze sessuali della caccia, si sottrarranno alle cavalcate ma non per questo rinunceranno al piacere. Marjorie, la moglie di Rigo, troverà in una volpe senziente una nuova e totalizzante ragione di vita.

Nella favola simbolica di Pianeta di caccia, alla fine, il cacciatore si è fatto fuori da solo, la nonna ha evitato il peggio e la bambina ha salvato sé stessa sperimentando un’alleanza interspecie con una versione saggia del lupo. Rimane da dire che la volpe-lupo, molto evoluta, riflette insieme a Marjorie sull’opportunità o meno di mangiare carne di animali senzienti in un afflato di veganesimo che lascia immaginare un brodo non saporitissimo ma tuttavia nutriente. Un lieto fine di questo tipo appare forse un po’ ingenuo visto dall’orlo ultimo della Galassia. Da questo stesso margine, però, si scorgono altre Galassie e un intero megaverso di fantascienza ancora da esplorare. Per trovare le molte risposte alla domanda che la sfinge verde ci aveva posto all’inizio di questo ultimo prisma non ci resta che continuare.



Note

[1] La rosa purpurea del Cairo è un film di Woody Allen del 1985.



Immagine: S.B.



* * *


Angelica De Palo, studi classici, laurea in astronomia e grande passione per letteratura e scrittura, è convinta che la cultura umanistica non debba essere mai disgiunta da quella scientifica e viceversa. Con lo pseudonimo di Vanessa West ha pubblicato Venere Vendicami (2015), Lesbismo e meccanica quantistica (2018) e alcuni racconti di fantascienza tra cui La natura corregge i propri errori nel volume Solanas mon amour (il Dito e la Luna, 2019). Attualmente è docente di matematica nelle scuole superiori e continua a scrivere.




Comments


bottom of page