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Le Guardiane della Galassia 1. «Virgo cluster»

Rassegna modesta di femminismi diffratti e ibridazioni letterarie



Una esplorazione critica nella Sci-fi femminista. Cinque portali da attraversare. Cinque appuntamenti (bimestrali) nel Vortex di «Machina». L’ammasso della Vergine, dove si addensano gli archetipi del femminile, per iniziare.


Immagine: Max Capa, da La fabbrica. Socialismo e barbarie, 1976


* * *


Mettiamo che Alice cadendo nella stramba tana del Bianconiglio non trovi comuni porte, sbarrate per giunta, ma prismi pentadimensionali, pentacolari, con superfici scintillanti di materia sprigionata da pianeti alieni. E varcando questi geometrici portoni, invece di incantevoli giardini con animali parlanti e regine di carte da gioco propense a scelte capitali, si infili negli universi creati da alcune scrittrici del Ventesimo secolo. C’è il rischio che non torni mai più nella nostra prosaica e cosiddetta realtà. Dovremmo, allora, seguirla prestando orecchio ai sussurri nelle tenebre fertili di cunicoli fantascientifici, ascoltando i richiami di autrici che ci sono giunte per amore o distrazione, per noia o per gioco, ricercando femminismi e letterature, ondivagando tra la produzione italiana e anglosassone degli ultimi trent’anni o poco più.

Roberta Rambelli, Sheri Tepper, Octavia Butler, Nicoletta Vallorani, Jeannette Winterson, Clelia Farris, Nora K. Jemisin, Elisa Emiliani sono le Guardiane della Galassia, un gruppo eterogeneo e improbabile come quello cui rubano il nome [i]. Ecco le bizzarre indicazioni stradali che Alice riuscirà a leggere sulle facce dei prismi prima di oltrepassarle:


1) Virgo cluster

2) Gita all’Astrofaro

3) Dea ex-machina

4) Una nessuna e centomila

5) Lupa in fabula


Per ognuna delle Guardiane sarà un romanzo a guidare l’esplorazione, ma non si escludono digressioni in altre opere e magari ospiti a sorpresa. L’ordine dei nomi è quello delle date di nascita ma i portali prismatici se ne infischiano intrecciando tutte insieme in una rete entangled che non ha confini.


Attraverso il primo prisma

Virgo cluster: dove si tratta del superammasso di sentimenti-inclinazioni-destini che (pare) sempre attragga con inevitabilità gravitazionale le scritture femminili. Buco nero o ponte cosmico?


L’ammasso della Vergine è una creatura astronomica gigante, del vicinato intergalattico[ii]: contiene inimmaginabili miriadi di stelle, si profila nella zona di cielo della sesta costellazione zodiacale ed è talmente ingorda da trascinare verso il suo aberrante centro gravitazionale, il nostro locale arcipelago di modeste galassie (Via Lattea, Andromeda, Nubi di Magellano, etc.). Lo stesso tipo di attrazione ineluttabile, negli universi letterari delle donne che scrivono, viene esercitata sulle figure femminili da un denso grumo di emozioni/fatalità stereotipiche. Eroine, antagoniste, comprimarie o comparse che siano.


Hashepsowe

Emblematico è lo sforzo erculeo, ma non vincente, che Roberta Rambelli (1928-1996) – nome cruciale della fantascienza italiana tra gli anni Sessanta e Settanta – compie per strappare da questa malìa Hashepsowe, una delle protagoniste del romanzo Profilo lineare b (Libra editrice, 1980). Hashepsowe proviene dall’Egitto del 1500 a.C. dove «ogni tanto una regina si proclama re» [iii] e incarna il faraone a Waset – in greco antico Tebe, città dalle cento porte – quando Achille (quello omerico) la incontra. Lui sta cercando alleati per una guerra contro Zeus che si svolge nel Ventesimo secolo e che è il cuore della trama del romanzo. Chiaro che si sguazza nei viaggi nel tempo in questa storia.

L’autorità più alta di Waset ha qualità morali, etiche, intellettuali, franchezza maschile (!), fascino superbo che – però – rifiuta di usare come linguaggio per comunicare. Anzi, Rambelli rovescia il paradigma specificando con cura che parlando con Hashepsowe ci si dimentica della sua bellezza. Certo, prima di dimenticarla bisogna vederla e dato che (anche) 36 secoli fa le donne riuscivano meglio a farsi prendere sul serio vestite da uomo, Hashepsowe si presenta ad Achille paludata come un faraone. Lui intuisce lo scambio di genere e in preda ad un capovolgimento della percezione archetipica del mondo ha un attacco di nausea. Non paga, l’autrice si arrampica sugli specchi spiegando che Hashepsowe non si traveste perché «dominata da complessi di castrazione abbastanza frequenti nelle donne intelligenti e inibite da un razzismo antico», ma per rivendicare competenze militari e politiche.

Il rifiuto di prestare a questa sua personaggia[iv] sensazioni ed emozioni tipicamente femminili, la determinazione a farle schivare il comportamento tipico delle donne che esistono solo in virtù del potere sessuale esercitato sugli uomini, finisce per rendere Hashepsowe pura essenza oltremisura ieratica, campeggiante sullo sfondo solo per sottrazione, nonostante il suo stagliarsi nelle vicende al pari dei maschi e addirittura al medesimo livello di un eroe come Achille.

In assenza dell’affaticamento necessario per sganciare Hashepsowe dall’incantamento fatale del Virgo cluster, a Rambelli riesce molto più facile la rappresentazione di Olimpiade, madre di Alessandro Magno, altra presenza di Profilo lineare b. Olimpiade è una summa dei peggiori cliché: assorbita solo dal ruolo di moglie e madre, superficiale, pettegola, asfissiante, meschinamente gelosa della nuora, riuscirà a rendersi dannosa anche per gli affari del figlio (la solita guerra contro Zeus) facendosi internare in un istituto psichiatrico. D’altra parte, non vai in giro nel mondo moderno a dire che sei la madre di Alessandro Magno anche se è vero, a meno che tu non sia proprio imbecille. Tra queste due personagge, estreme ognuna a modo suo, si colloca un terzo ritratto, quello della ninfa Teti, madre immortale di Achille. È la figura più coinvolgente, che vive tormentata sul confine della consapevolezza di avere subito millenni di mansplaining (anzi di godsplaining) da parte di Zeus. Infatti, si è lasciata convincere che non poteva rendere immortale il figlio (cosa falsa) e ha coltivato un odio profondo e totale per il padre degli dei perché è stata costretta ad assistere alla morte di Achille anche se poi, tramite un «trasferitore temporale» è riuscita a salvarlo.



Il dolore e la pianificazione di una sofisticata vendetta in un ralenti di trenta secoli – va tenuto in conto il tempo eterno degli immortali – collocano Teti, rispetto ad Hashepsowe, molto più vicino al centro di femminilità permanente, anche se non al livello di Olimpiade.



Marjorie

Coetanea di Roberta Rambelli è un’altra Guardiana della Galassia, l’americana Sheri Tepper (1929-2016) nota per la sua fantascienza femminista e quindi più disinvolta nello scovare vie di fuga dal Virgo cluster per la protagonista del romanzo Grass (Doubleday 1989, trad.it. Pianeta di caccia, 1991). Marjorie, moglie dell’ambasciatore terrestre sul misterioso e bellissimo pianeta Grass[v], dice di sé: «O Signore, che brava ragazza sono stata, ho sempre partecipato alla messa, mi sono sempre confessata, ho sempre fatto penitenza, mi sono dedicata alle opere filantropiche, ho amato e accudito i miei figli per quanto a volte fosse difficile, ho cercato di fare del mio meglio per amare mio marito, ho pensato al suicidio e me ne sono pentita». E infatti – per tre quarti della storia – rimane devota a un marito offensivo, arrogante ed egoista, al punto di tollerare la presenza dell’amante di lui, Eugenie, che l’ha accompagnato sul mondo alieno per la missione diplomatica.

Marjorie orbita molto vicino al centro del Virgo cluster, strettamente vincolata a modelli femminili degli anni Cinquanta, d’altra parte nemmeno su Grass si scherza quanto ad arretratezza culturale. L’organizzazione sociale del pianeta – una sorta di retrofuturismo ante litteram – è ricalcata su un ancien régime in cui casate nobili vivono in tenute di campagna, separate dall’astroporto e dal brulicare di commerci e attività degli altri coloni considerati alla stregua di rozzi e incolti villici. Incontriamo Rowena, moglie di uno dei maggiorenti del pianeta, che riflette con dolore sulla propria impotenza nei confronti del marito-padrone che sta costringendo anche la figlia più piccola a sottomettersi al rito della Caccia, sacro per l’aristocrazia di Grass. Nulla salverà la ragazza dal rimbecillimento che l’aspetta perché le cavalcature – evocativamente chiamate Hippae, in realtà niente hanno a che spartire coi cavalli - «hanno modificato in maniera perversa la trasmissione delle sensazioni sessuali ai centri cerebrali del piacere, talché la soddisfazione sessuale deriva dall’obbedire agli ordini ricevuti». Insomma, mentre l’erba di Grass è così meravigliosa da sostituire persino l’acqua («...una prateria il cui colore andava dall’indaco cupo, attraverso tutte le sfumature di turchese e zaffiro...culminando nell’acquamarina...anche nell’erba si poteva quasi annegare.»), la fauna di Grass è inquietante, grottesca - basti pensare che gli Hippae in segno di disprezzo reciproco si tirano l’un l’altro pipistrelli morti -, terrificante e insieme magnifica perché connessa in un ciclo metamorfico perpetuo.

Quando, nell’ultima parte della vicenda, Marjorie arriverà a comprendere il legame tra tutti gli assurdi animali extraterrestri, lei che è stata una campionessa olimpionica di Dressage e Cross Country[vi], lei che sente i cavalli attraverso il contatto fisico e ne intuisce le emozioni elementari, lei che si fa così sopraffare da Grass fino a sentirsi «uno straccio nell’erba, uno straccio con gli occhi», proprio lei dopo un’unione telepatica con una delle volpi, fonderà eros e pelle con l’animale: «Gli artigli sensualmente sfoderati. Guizzar di muscoli di una zampa. La spalla enorme, il cuore tonante. Un lampo lungo i nervi come un filo dorato». Corpo a corpo alla lettera con questo esemplare (nemmeno le volpi su Grass c’entrano nulla con le nostre volpi) partirà per esplorare il pianeta, imboccando una splendida retta tangente rispetto all’orbita chiusa marito-figli, spingendosi lontano dal greve nucleo del Virgo cluster nell’avventura esaltante della scoperta e della libera autodeterminazione.



In Marjorie, donna bianca avvinghiata alla volpe aliena dalla spalla enorme e dal cuore tonante, si rintraccia l’eco della Signora delle fiere, la Potnia theron cretese[vii] la cui prima sillaba pot deriva dalla stessa radice indoeuropea del verbo latino possum: Io posso.



Lilith Iyapo

Io devo, invece, è il mantra, l’occorrenza, il fato di Lilith Iyapo, donna nera, protagonista di Dawn (Warner Books, 1987, tr.it. Ultima genesi, 1987) della pluripremiata scrittrice afroamericana Octavia E. Butler (1947-2006). Butler è ora una Guardiana della Galassia di prim’ordine avendo intitolati a sé un asteroide, una montagna su Caronte (la luna di Plutone) e il sito di atterraggio del rover Perseverance su Marte.

Il posizionamento di Lilith rispetto al Virgo cluster è subito – a prima vista - disintegrato, perché la protagonista viene a trovarsi oltre l’orizzonte di tutti gli eventi, in uno spaziotempo dove ogni cosa ha perduto di senso in modo irreversibile. Sono trascorsi duecentocinquant’anni da un olocausto atomico (l’incidente di Chernbyl è del 1986) che ha spazzato via la vita sulla Terra: Lilith si risveglia nell’astronave degli Oankali che hanno salvato lei e altri umani in attesa di poterli trasferire sul pianeta risanato dai fuochi nucleari.

A un prezzo altissimo, s’intende, che è quello di mescolare il patrimonio genetico terrestre con quello extra-terrestre. La fusione fisica con l’animale-alieno per Lilith è tutto, tranne che scelta libera e gioiosa affermazione del proprio potere su se stessa. È invasione, conquista, colonizzazione, schiavitù spacciata per salvezza. La presenza del Virgo cluster, solo in apparenza obliterata, incombe ora mostruosa: Lilith dovrà partorire ibridi umanalieni, dovrà svolgere la funzione che non a caso gli Oankali chiamano parentale, ovvero accompagnare gli umani risvegliati all’accettazione del soccorso di esseri ripugnanti cui dovranno abituarsi volenti o nolenti. E come sadica chiosa le toccherà l’atrocità ulteriore di essere donna moderna che ricomincia la sua vita nell’età della pietra.



Assoggettata dal buco nero al centro del Virgo cluster non potrà scappare, come fece la sua omonima biblica da Adamo, e nemmeno, come l’altra Lilith demone-femmina mesopotamica, potrà portare sciagura e morte perché entrambe (morte e sciagura) si sono già espresse al massimo dei loro talenti.



Ash

Tenta con decisione la direzione opposta a quella verso cui tira la massa del Virgo cluster Elisa Emiliani (1986) esponente della generazione Y[viii]. Figure principali del suo romanzo Cenere (Zona 42, 2019) sono le sedicenni Ash, Anna e la Reba che in un futuro non distante distillano liquoracci, cuociono cristalli e lottano per uno spazio almeno virtuale di autonomia in una società dove la privacy non esiste più. La corporazione ha il controllo totale sulla vita e su internet, chi non si allinea al pensiero unico dominante sparisce/muore. Ash, in special modo, nei confronti del Virgo cluster ha idee molto chiare: «Non le era mai piaciuta la Gramigna, che dell’esser donna aveva fatto un modo per sopravvivere, come se non fosse capace di fare altro che darla», e quando ai suoi occhi «Febe si trasformò nell’eroina di un vecchio film di guerra, aggrappata ad un uomo in cerca di conforto. Scartò l’immagine».

Nello scenario rurale di Cenere, che tra rastrellamenti e retate della polizia ai funerali assomiglia a quello della resistenza partigiana, esistono innesti biotech (alle tempie e sulle braccia) per la connessione a una rete figlia del mondo di Matrix, protesi chirurgiche – quanto sofisticate dipende dal censo – in grado di far camminare chi è senza gambe, polmoni sintetici e ragazze che, come è normale che sia, hanno skill tecnologici spinti. Ash è schietta, sincera, ruvida e sensibile, legata da autentica amicizia alle compagne e, in più, innamorata di Anna. Ci strappa un sorriso quando, da sdraiata, dice all’altra in piedi davanti a lei: « - L’apertura delle tue gambe in controluce sembra il profilo di una cattedrale gotica… - Cosa intendi esattamente con gotica? - Slanciata e inaccessibile».

Cenere è una distopia di sapore orwelliano, cupa anche se non apocalittica come quella di Butler, nella quale si ripetono per Ash cose di tutti i giorni (non per forza distopici) come essere stuprata da un poliziotto, ma sarà lei a fissare per questo rituale di sopraffazione un termine ultimo, quello in cui lo castrerà con una bella lametta da rasoio: «Strinse la lametta e tagliò, lentamente, a fondo». Subito dopo, ancora a cavalcioni del basso ventre di lui, affonderà un coltello nello stomaco e nel cuore uccidendolo. D’altra parte «era fatta così, se qualcosa la terrorizzava ci andava contro di faccia. Nel suo cervello surriscaldato si alternavano una rabbia omicida e la sottomissione degli umiliati». Rabbia vs sottomissione uno a zero. Dopo la sanguinosa vendetta Ash sceglierà il suo destino immolandosi per la resistenza.



La nostra Alice delle meraviglie, e noi dietro, continua la sua perlustrazione fischiettando il motivetto baldanzoso e marziale di Lascia Amor e segui Marte[ix].



Olivia

Distopia lugubre è anche il romanzo Avrai i miei occhi (Zona 42, 2019) di Nicoletta Vallorani (1959), scrittrice di fantascienza, americanista e traduttrice, prima donna a vincere il premio Urania nel 1992. Avrai i miei occhi è ambientato in una Milano invernale del futuro. La città è abitata da fantasmi non solo metaforici, segmentata tramite muri che separano ricchi da poveri in varie gradazioni di povertà, impregnata dal respiro del male sotto forma di pulviscolo, cinta da una periferia che vomita cadaveri di donne, solo donne e sempre la stessa donna, cloni insomma, fatte a pezzi dalla mentecatta e meticolosa violenza sessuale maschile.

Con le sue onde gravitazionali, difficilissime da rilevare ma portatrici di sconquasso su tutto lo spaziotempo, il Virgo cluster rimbomba nei destini di tutte. Non solo increspando le carni morte ma anche comprimendo le donne-cavia a sistema emotivo e sensibile, prestato ai corpi cloni per far sì che siano inzuppati della sofferenza di donne reali. Senza questa, la violenza non restituisce il giusto gusto alle prostate schizzinose dei carnefici.

Ancora, il Virgo cluster rintrona in Olivia, colei che nel romanzo narra usando il tu, che non ha scelta se non quella di lasciarsi attraversare dal dolore perché empatica, e magari si stordisce in una fumeria d’oppio ma continua ad amare Nigredo – il suo tu – pur rinunciandoci. D’altronde, Olivia è stata violentata dal patrigno: «Non ho mai reagito. Non mi sono ribellata. Ero una cosa, un oggetto fatto di solo corpo, nelle sue mani». E ancora: «La volta in cui mi ha lasciato nuda nel centro di una stanza spoglia...con un freddo paralizzante, e flash che scattavano a intervalli irregolari...La vergogna. Lo sporco quando non riuscivo a controllare i bisogni del corpo. La paura». Con tutto ciò non l’ha ucciso perché non valeva la pena sprecare la sua energia con lui. La sua violenza non l’ha toccata davvero, ci dice Olivia, ma si stenta a crederle. È un harakiri che viene con l’età?



Olivia - molto più adulta di Ash - si fa carico di tutto il dolore e niente più segna la differenza tra lei e l’ennesimo clone gettato per strada come spazzatura.



Mary Shelley

Che il teorema donne=immondizia sia impeccabile ce lo dimostra un’altra Guardiana della Galassia, Jeannette Winterson (1959) con il suo Frankissstein: A Love Story (Jonathan Cape, 2019). Winterson è inglese e da dove se non dalla perfida Albione poteva arrivare l’idea feroce, ma perfetta, di far sposare gli uomini con sofisticati automi ginoidi dalle spiccate e accondiscendenti virtù casalinghe, dotati di tre buchi vibranti e teste di ricambio? L’idea è molto ecologica, efficace, efficiente e remunerativa per l’ideatore. Le inestirpabili brutalità durante il sesso riducono molto male le teste delle sexbot e dunque, spaccata che se ne ha una, quella successiva può avere i capelli più corti o altri lineamenti.

In Frankissstein l’omaggio è dichiarato. Incontriamo Mary Shelley che ha appena avuto la visione fondativa del suo romanzo ovvero il creatore che insegue il mostro sfuggito dal suo laboratorio, ma l’idea è una meteora su un fondale rosso sangue di incessante dolore per gli aborti e i figli morti di una Mary annullata dall’amore per il marito-poeta. L’unica donna del romanzo, ripescata dal diciannovesimo secolo, è quindi la sola a vorticare intorno al nucleo del Virgo cluster? Si salvano tutte le altre, che ci rimangono ignote, perché ci sono le sexbot dall’intelligenza artificiale limitata al loro posto? Si salva Ry Shelley, altro protagonista di Frankissstein perché donna non è più (si è fatto tagliare il seno e Winterson gli taglia Ma dal nome)? Si salva anche la fidanzata del geniale inventore delle sexbot, Ron Lord (Byron?), perché è una marionetta di carne e ossa e non una donna?



Alice contempla e ripensa per un attimo alle giovani ridotte a pupazzi, drogate dagli stimoli sessuali degli Hippae in Pianeta di caccia. Winterson ha provocato truccando le carte, ma a ben vedere cancellare le donne vere e sostituirle con artefatti non basta a eliminare il Virgo cluster, viceversa lo ammanta di un trionfo totale, pur con tutto il sarcasmo del mondo.



Damaya/Syenite/Essun

Non resta che ribaltare il tavolo, allora, e farlo con estrema determinazione, buttando tutto per aria senza curarsi di cosa si rompe. La settima Guardiana della Galassia, Nora K. Jemisin (1972) ha spaccato nientemeno che la crosta terrestre: nel suo The Fifth Season (Orbit, 2015, trad.it. La quinta stagione) il pianeta non è più noto come Madre Terra, amorevole e nutriente, ma come Padre Terra, maligno e distruttore. Jemisin è afroamericana ed è la prima scrittrice in assoluto ad aver vinto per tre anni di seguito il premio Hugo, ogni volta per uno dei tre romanzi della trilogia Broken Earth che comincia con The Fifth Season.

Su Padre Terra, pianeta che fa di tutto per rendere difficile la vita tra eruzioni e terremoti che spazzano via le civiltà, non esiste più la tecnologia, in compenso è nata l’orogenia: un potere, ma è più una magia, che permette agli Orogeni o Rogga (dispregiativo) di controllare/scatenare terremoti. Gli altri, quelli senza orogenia, sono detti Immoti e temono, odiano, trucidano i Rogga quando non possono contenerli, domarli, usarli per tenere a bada (o provarci) Padre Terra. L’istituzione che controlla gli Orogeni addestrandoli è il Fulcro. Che ne è del Virgo cluster sulla terra spezzata? Non è difficile trovarne le tracce nelle tre figure principali. Essun insegue il marito che ha picchiato a morte il figlio dopo aver scoperto che era Rogga ed è fuggito portandosi via la figlia. Damaya è la bambina Rogga che i genitori hanno consegnato al Fulcro perché fosse ammaestrata, ovvero sottomessa con la tortura psicologica e fisica allo scopo di controllarne il potere. Syenite è la ragazza Orogena affidata dal Fulcro, per completarne l’apprendistato, al maestro Alabaster al quale sarà forzata ad unirsi con l’obiettivo di generare una prole destinata, ovvio, alla schiavitù.

Colpisce il fatto che, pur essendo state fracassate tutte le civiltà, sulla ex-Madre Terra, la galassia dei destini e delle emozioni femminili ne La quinta stagione si mantenga su un’orbita stretta intorno al Virgo cluster e al suo ammasso denso di passioni e relative tragedie. Infatti, scopriamo alla fine che Damaya/Syenite/Essun sono la stessa persona. La giovane Syenite opera, a dire il vero, un tentativo estremo di resistenza al sistema e in una battaglia drammatica soffoca il figlio piuttosto che farlo finire schiavo nel Fulcro perché come Damaya, la bambina, sa cosa significa. Tuttavia esperienza e sofferenza non l’aiutano una volta diventata la donna Essun: costei riuscirà a scegliersi il marito ma non a evitare che lui uccida il nuovo figlio per paura della sua diversità.



L’esplorazione del Virgo cluster rivela le opzioni letterarie delle Guardiane della Galassia. Si propone un modello di donna diversa ma diventa una caricatura, si sfoderano apocalissi ma si ripropongono gli stessi problemi. Se le ragazze seguono Marte ci lasciano le penne, per quelle timide invece, il non nuocere comporta ogni tipo di sacrificio. Non manca chi cerca una via di fuga plastificando le donne. Una sola protagonista, infine, riesce a scappare in groppa ad uno splendido animale autocosciente.



Medea

Resta l’ultima Guardiana, Clelia Farris (1967) elusiva e sfuggente scrittrice italiana che a piè pari balza fuori dall’orizzonte dei sentimenti-eventi del Virgo cluster e assume un posizionamento altro e proficuo, degno del rasoio di Occam più affilato. Il suo romanzo La giustizia di Iside (Kipple Officina Libraria, 2012) ci porta in un tempo fantascientifico dell’Egitto antico dove la Rivoluzione ha soppiantato la Dinastia e la tecnologia è vegetale, la luce viene dalle piante, piante fungono da microfoni, segnano il tempo e distillano bevande. Siamo a Dendera, la città della dea Hathor, e tutti gli uomini portano la gonna. Sette colleghi indagano sugli omicidi in nome di Iside che esercita la «vera giustizia»: una vita per una vita. Farris dissemina sensazioni, idee e azioni del Virgo cluster come briciole visibili solo «alla luce fioca delle giunchiglie» e le ritorce a modo suo. A proposito di seduzione: «Sorprendente come una donna, nel conquistare un uomo, pensi a un’altra donna». A proposito di figli: «Chi lo vuole un maschio? Sono stupidi, irriconoscenti e scioperati». A proposito di madri annientate dal pianto incessante dei figli: «...mi sono svegliata, lui piagnucolava...Sono andata di là, ho preso un cuscino, l’ho premuto sulla faccia...ho premuto, ho premuto con forza. E poi ho sentito il silenzio».

Altre briciole conducono al centro del labirinto dove Elin, la più anziana dei Sette che per tutto il romanzo si divincola tra le maglie del pensiero, della politica e dei sofismi greci, ha messo in scena Medea. La strage dei figli, ben lungi da essere la vendetta logora e pedestre contro Giasone diventa «darsi una seconda possibilità» perché lei «ha gettato via ogni umanità, ogni dignità per annullarsi nell’uomo che ama» ed eliminando i figli, «prova tangibile degli anni in cui è stata accecata...riporta il tempo al punto zero, in modo tale da poter ricominciare una nuova vita.» Medea si pone, dunque, al centro delle proprie azioni con il potere ripreso sul proprio destino. E non è ancora finita, si intravede un ultimo granello al centro del labirinto dove Farris con un colpo di genio, una sillaba, uccide il minotauro, simbolicamente, s’intende. La tragedia si riavvolge all’indietro: «i vogatori remano al contrario, ritornano nella Colchide, Medea rientra nella casa del padre e incontra Giasone la prima volta.»

Lui: «Mi aiuti a prendere il vello d’oro?»

Medea: «No».


Il cuore nero del Virgo cluster implode e svanisce. Alice, contenta, si appresta a varcare la soglia del secondo prisma.



Note [i] I guardiani della Galassia sono un gruppo di supereroi e supereroine Marvel che comprende anche un cinico procione parlante. [ii] L’ammasso della Vergine è composto da più di 1300 galassie a spirale o ellittiche e a sua volta è il cuore del più grande Superammasso della Vergine. La nostra Via Lattea è soggetta a un vero e proprio flusso gravitazione virgocentrico. [iii] Nitokerty, Sebekneferu, Hashepsowe sono tre le donne con il vezzo di fare il faraone di cui la Storia ci ha lasciato qualche traccia. [iv] Per la parola personaggia cfr. https://www.societadelleletterate.it/2010/11/progetto-personagge-ii/ [v] Grass in inglese significa erba, ma intitolare Erba un romanzo non sarebbe stato molto evocativo. [vi] Il Dressage e il Cross country sono discipline equestri olimpioniche. [vii] Πότνια Θηρῶν, potnia theron, è la signora delle fiere, divinità cretese del periodo matriarcale prima del 1400 a.C., rappresenta il potere femminile sulla natura, lo intendo anche come potere su di sé. [viii] Generazione anche detta dei millenials. [ix] Aria dall’Orlando di Händel.

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