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Le Guardiane della Galassia 2. «Gita all’Astrofaro»

Rassegna modesta di femminismi e ibridazioni letterarie




Nuova esplorazione negli universi fantascientifici di Rambelli, Tepper, Butler, Vallorani, Winterson, Farris, Jemisin ed Emiliani. Dopo aver attraversato il Virgo cluster, si accede adesso al secondo portale presieduto dalle Guardiane della Galassia: un viaggio, o una gita, Al faro, che è un astrofaro e riflette artefatti, promesse mancate, visioni e ricordi, e illumina l’inaccessibile della «nostra prosaica realtà». Un percorso tra mondi distopici e soggetti erranti, tra autrici e testi della letteratura femminista di fantascienza degli ultimi quarant’anni.


* * *


Attraverso il secondo prisma: Gita all'Astrofaro

È noto che in assenza del prefisso – astro – quando la gita al Faro si compirà Mrs. Ramsay sarà morta da dieci anni terrestri. Oltre questo portale, tuttavia, si incontrano astro-fari in guisa di arte-fatti immaginati, disegnati, scritti e soprattutto raggiunti dalle protagoniste per le quali sono stati creati.

Varcata la soglia immateriale del secondo prisma c’è il buio, poi si intravedono otto torri modellate dalle ombre in cima alle quali lanterne dissipano le tenebre alle astro-naviganti. Smorzano quel bagliore, lettere dell’alfabeto che fluttuano disordinate come lucciole nel bosco, che si sparpagliano e ricompongono fino a circondare i costrutti luminosi. Dalle parole che ne risultano sorge il barlume fasullo di una frase di senso compiuto: «Le donne non sanno dipingere; le donne non sanno scrivere». [1] Ma la luce fantasmatica degli Astrofari (la biblioteca, l’Immoto, un altro pianeta, la statua greca, un altro Egitto, gli extraterrestri, il fallo, i corpi-cloni) si rivela, a ben guardare composta da quattro trame di colore che si riflettono e ri-frangono l’una nell’altra dando forma e significato ad altrettante architravi della letteratura fantascientifica:

l’artefatto,

l'inaccessibile,

le promesse mancate,

le visioni e i ricordi.

Seguiamone i filamenti luminosi nei romanzi delle Guardiane della Galassie.


La biblioteca

«Non c’era la minima possibilità che domani potessero andare al Faro, scattò con tono irascibile Mr. Ramsay» [2].

Nessuna possibilità per nessun domani è ciò che resta in Cenere (Zona 42, 2019) di Elisa Emiliani. La protagonista sedicenne, Ash, si sacrifica per la libertà scegliendo il proprio epitaffio: «A tutti quelli che mi amano...voglio che sappiate che la mia vita è stata una tempesta di luce.»

La vita è, dunque, la promessa mancata in un mondo distopico governato da (non meglio specificate) corporazioni, tramite Centri di Controllo per la Sicurezza dei Cittadini, ovvero carceri per dissidenti, e codici a barre marchiati sulla mano di chi non vuole allinearsi. Gli innesti cerebrali per l'accesso alla Rete vengono scansionati con il pretesto di debellare la minaccia del terrorismo, ed ecco che l'inaccessibile, il Santo Graal del romanzo, diventa la privacy, una zona di libertà personale per sé e la propria cerchia intima: il padre, il cane, le amiche. Gli innamoramenti per idee e persone incarnano visioni e ricordi dalle vivide sfumature emotive, ancorati al qui ed ora della giovane età di tutte le protagoniste.

La resistenza messa in atto da Ash e dalle sue amiche si nutre del recupero di libri vietati, richiamando il lontano Fahrenheit 451 di Ray Bradbury [3], e della progettazione del Gioco, una spazio virtuale fatto di «lastre di codice che s'intersecano scivolose», libero dal controllo corporativo e costruito con strumenti low-tech per evitare il tracciamento. Tra gli scritti illegali ci sono le epistole politiche della bibliotecaria Febe Velleri, attivista contro-corp [4] suicidatasi per non cadere nelle mani della polizia, che Ash ritrova per caso, digitalizzate e criptate, in una vecchia chiavetta USB. Nelle epistole ci sono informazioni che riguardano la biblioteca di Febe che diventa subito quella più fornita al mondo di testi proibiti e l'artefatto, il totem che le ragazze cercano con la nostalgia di un tempo da loro mai vissuto: il tempo dei libri di carta. La collezione di testi proibiti si trova in un bunker sotto il lager delle corporazioni e per una scelta (de)liberata di rivolgimento sopra-sotto diventa una torre virtuale nel Gioco. Ci consola che prima di morire Ash riesca a trovare, a raggiungere, l'agognata biblioteca.


L’Immoto

«Avevano raggiunto il varco fra i due cespugli di tritoma [5], e riapparve il Faro, ma lei non si sarebbe permessa di guardarlo» [6].

L’Immoto è lartefatto principe di The Fifth Season (Orbit, 2015, trad.it. La Quinta Stagione) di Nora K. Jemisin. Un unico grande continente che si estende dagli Artidi agli Antartidi con una sola grande città principale, Yumenes, stabile da circa 27 secoli. Ci sarebbero altri paesi o comunità (com nel romanzo) che si inanellano in una cintura equatoriale, ma è raro che diventino città perché la terra, che qui è Padre Terra, cerca continuamente di inghiottirle. Questo continente si muove molto: «come un vecchio che giace irrequieto nel letto, si solleva e sospira, si contrae... Gli abitanti l'hanno chiamato l'Immoto, è una terra di pacata, amara ironia.» In cielo «cristalli delle dimensioni di edifici vagano tra le nuvole», a noi sembrano artefatti magrittiani perché «la loro immagine si sfoca di tanto in tanto» e quindi, forse, sono sogni surreali. Invece si riveleranno armi di distruzione di massa.

In un mondo così ostile la società è densa di pregiudizi e gerarchie ed è divisa in caste, cosa che rende la libertà l’inaccessibile di questo romanzo. In particolare gli Orogeni, coloro che percepiscono/controllano/scatenano terremoti, si vedono negata ogni umanità e sono costretti a usare le loro capacità sotto il controllo del Fulcro e dei suoi micidiali guardiani. Una promessa mancata de La Quinta Stagione si può individuare nella vita di Innon, esempio più unico che raro di orogeno non addestrato che vive in una com di pirati, libero anche di intrecciare relazioni poliamorose. Non potrà durare però. Come è ovvio, il Fulcro spazzerà via Innon e il suo insediamento felice. Restano le visioni di centomila civiltà sparse per l’Immoto: «...qualcosa che assomiglia ad una mano scheletrica di metallo che si fa strada con unghie fuori dagli alberi», ma non i ricordi: «...un milione di monumenti a dei ed eroi che nessuno ricorda, decine di ponti verso il nulla.»

Jemisin è provocatoria sulle culture precedenti: «Le com equatoriali radono al suolo o affondano le loro rovine se possono, è la cosa più intelligente che si possa fare. Se la gente che le ha costruite non è riuscita a sopravvivergli, perché dovremmo provarci noi?»


Un altro pianeta

«...il grande piatto blu dell'acqua le era di fronte, l’antico Faro, distante, austero, al centro; e sulla destra, a perdita d’occhio, sfumate e digradanti in morbide pieghe basse, le verdi dune coperte di erbe selvagge, digradavano in pieghe morbide, profonde come se corressero via verso un paesaggio lunare…» [7]

Esistono terre dove, quando arriva l’estate vi è l’impressione che ci sia sempre stata. Però lo stesso succede con l’inverno: è come se tutte le stagioni fossero eterne. Una di queste terre è il pianeta Grass del romanzo Grass (Doubleday, 1989, trad.it. Pianeta di caccia) di Sheri Tepper, pianeta che produce incantamento, artefatto stupendo oltre che ideale. Su Grass tutto è erba, gli alberi, l’intera foresta, i mari, gli oceani e gli arcobaleni: «Milioni di miglia quadrate di erba; innumerevoli ondate immani di erbe sferzate dal vento, mille mari di erba soleggiata, cento oceani ondeggianti, e ogni onda uno scintillio scarlatto o ambrato, smeraldino o turchese; e striature e chiazze multicolori tremanti sulle praterie come arcobaleni». Mentre sulla Terra e sugli altri pianeti colonizzati, una peste ancora senza cura – descritta come uno spasmo di odio biologico del corpo contro sé stesso – sta distruggendo l'umanità, Grass è un mondo su cui l'infezione non attecchisce. E nel quale le promesse mancate non esistono. L’artefatto pianeta è prodigo: regala alla protagonista una libertà che lei nemmeno sapeva di volere ma che – alla fine – abbraccerà lasciandosi andare all’ignoto fertile di una relazione interspecie. In questo ambiente idilliaco linaccessibile è costituito dall’enigmatica razza degli Arbai di cui restano alloggi arborei disabitati: «le case, costruite con erbe e liane intrecciate, pendevano dai rami come frutti o nidi di rigogoli, collegate le une alle altre da ponti sospesi e scale di funi» e ologrammi lasciati, forse, a memento: «evanescenti come ombre, vagamente simili ai rettili, gli abitanti avevano gli occhi splendenti di allegria e si muovevano con grazia estrema: si affacciavano alle finestre, chiacchieravano dalle stanze...»

La città rovina degli Arbai ricorda una Pompei fantascientifica e conserva un mistero che si può percepire ma non comprendere, soprattuto rappresenta un'utopia di coesistenza con la natura che gli attuali coloni hanno perduto. Visioni e ricordi vengono dalla Terra e sono conditi d’ironia come la Santità, una specie di Vaticano 3.0, con il suo ministero della Sicurezza e della Dottrina accettabile e il suo tempio al Polo Nord, con angeli dorati così grandi e magnificenti che i turisti in orbita li possono ammirare dagli oblò panoramici.


La statua greca

«Questo andare al Faro era una vera e propria passione, lo vedeva, e allora...» [8]

Di una grande passione per gli antichi miti greci e l’ideale di bellezza maschile è ricolmo Profilo lineare b (Libra editrice, 1980) di Roberta Rambelli, romanzo in cui ricordi e visioni sono quelli che l’Iliade ha regalato a chiunque l’abbia letta e amata negli anni della giovinezza. L’Olimpo è contaminato da una tecnologia vintage, la sua cima avvolta nelle nubi nasconde «edifici di metalli e marmi candidi, di cristalli capaci di oscurarsi per attenuare la luce del sole troppo intensa» e gli dei, alieni di un altro pianeta, sono terribili come il canone impone. La bellezza di Apollo, per dirne una, è «ingannevole come la distesa calma e trasparente d’un mare tropicale le cui ombre morbide possono vomitare all’improvviso la morte dentata di un branco di squali...». Il potere divino è racchiuso in «pannelli a luce fredda» che scandiscono «riflessi vitrei sui lunghi banchi dei calcolatori analogici» e Zeus comanda come un dittatore fascista contro cui poco possono le tendenze centrifughe di Atena e i sotterfugi di Apollo.

L’inaccessibile si configura, allora, come un sistema politico alternativo: una sorta di anarchia regolata da un’etica superiore di condivisione comunitaria, quella dei Titani. Già sconfitti da Zeus sulla Terra, per evitare che spartissero con gli esseri umani il segreto dell’immortalità, i Titani sono ancora belligeranti sul pianeta di origine che hanno in comune con gli Olimpi. Le promesse mancate di Profilo lineare b sono ben visibili in una generale falsa democraticità di cui è emblematica l’informazione di massa, figlia del dominio televisivo. Secondo Rambelli (profetica?) la gente accetta solo le sollecitazioni più epidermiche e sensazionali di qualsiasi avvenimento di portata scientifica e culturale perché, in realtà, è interessata esclusivamente alla propria pancia e allo sminuzzamento degli eroi per potersi riconoscere in qualche loro frammento. Aiutata in questo dalla TV (dalle rete diremmo ora) che la mantiene nella propria mediocrità. Questo il succo di un commento sarcastico di Patroclo che s’immagina di finire insieme ad Achille nei notiziari degli anni Settanta.

E proprio Achille è l’artefatto perfetto di questo romanzo. Sembra discendere dal mondo delle idee: «...sembrava che in ogni suo muscolo, persino in ogni goccia del suo sangue, una matrice irripetibile avesse impresso una maestà che era insieme istintiva, come quella di un grande cervo o di un cavallo brado, e coltivata e cosciente come quella di un re-sacerdote disceso da una stirpe antica come i deserti e le montagne». Ma c’è qualcosa in più in lui, una specie di anima leggera e ironica, che si riverbera sul passo, sul modo di tenersi ritto e sulla curva sorridente delle labbra: è la serenità ineffabile delle statue classiche che prende vita. Un altro artefatto che merita una menzione è la reggia sottomarina di Nereo che «sboccia come una concrezione geometrica di madrepore e coralli». Luogo perfetto per Teti, la madre di Achille, per studiare la mentalità non umana dei delfini, per godere nel sentirli zirlare e passare il tempo millenario che le tocca come immortale.


Un altro Egitto

«Il Faro era allora una torre argentea, brumosa, con un occhio giallo che s’apriva improvvisamente, senza rumore, la sera» [9].

Ben più profonda di quella di Teti è la fusione con gli animali marini che incontriamo nel romanzo La giustizia di Iside (Kipple Officina Libraria, 2012) di Clelia Farris. Siamo in un Egitto ucronico, la storia del mondo ha seguito un corso diverso da quello reale. Questo Egitto è un artefatto straniante, dove può capitare di avere membrane cartilaginee tra le dita e cromosomi di pesce a causa di manipolazioni genetiche. Dove, se ci si droga col Mazut (sostanza psicotropa ottenuta dalla cottura degli animali del Mare-di-sotto), ci si può trovare in un’orgia con ricci di mare grandi come meloni e grossi granchi neri dalle zampe falliche. A parte questi estremismi carnosi, l’Egitto di Farris è tutto vegetal-animale, gli infermieri annotano il cambio delle bende su foglie di ficus, le notizie vengono tessute da aracne stimolate da pezzetti di cibo [10], i cappelli si forgiano in strisce di papiro e non manca il plais, la plastica tratta dal mais. Esiste anche la rete perché gli sms si mandano tramite molluschi geneticamente modificati di conchiglie: gli ostrakon. In questo entangled di organismi c’è anche il caimano, un’imbarcazione senza chiglia con parti tratte dall’animale omonimo, ma vuoi mettere «sentire il vento nei capelli correndo a centoventi all’ora col Varano 70 special»? Il varano è come il caimano, ma corre più veloce lungo il Nilo.

Le visioni e i ricordi sono intrecciati ai nervi olfattivi: «abbandonando le teche del ricordo, gli odori vengono loro incontro a saltelli zoppi...ballano a tratti un demente girotondo...il profumo del borotalco e il lezzo delle acciughe in barile, la ceralacca bruciata dei sigilli del nonno e il tono vanigliato dei bambolotti di plais...».

Il sistema giuridico, in questo Egitto mai esistito, insegue l’idea di rendere giustizia alle vittime d’omicidio trascinando i rei davanti a Iside stessa, per scambiare l’anima dell’assassino con quella della vittima e ottenere che quest’ultima resusciti. Una vita per una vita, scambio sommamente equo fin dal codice di Hammurabi. Peccato che le persone risorte non siano così contente di tornare in vita. È la morte, dunque, la promessa mancata? Questo renderebbe la giustizia l’inaccessibile del romanzo, se non fosse che inaccessibile ancora di più è Iside stessa. La si rincorre per tutto il romanzo e non la si afferra mai, ma forse è meglio, perché alcuni spoiler su di lei Farris li ha lasciati scritti altrove e sono davvero terrificanti.


Gli extraterrestri

«Perché il Faro era diventato quasi invisibile, s’era sciolto in una foschia azzurrina, e lo sforzo di guardarlo, lo sforzo di pensarlo...le aveva teso al massimo il corpo e la mente» [11].

Un altro rimescolamento di corpi come quello che avviene nell’Egitto ucronico si trova in Dawn (Warner Books, 1987, trad.it. Ultima Genesi) di Octavia Butler: è rappresentato nella razza extraterrestre degli Oankali che sono l’artefatto onnipresente del romanzo. Arrivati per aiutare i pochi che restano di un’umanità che si è autodistrutta, gli alieni sono di forma allungata, non hanno orecchi, né occhi, né bocca o naso, ma stanno su due gambe e mostrano mani dotate di molte dita. «Non umani ma umani in qualcosa», è ciò che dice a se stessa la protagonista Lilith per forzarsi ad accettarne la presenza perché gli Oankali sono anche interamente ricoperti di un vello ripugnante di tentacoli. Tentacoli [12], cioè organi sensori estroflessi e mobili che terrorizzano Lilith per via del richiamo a un orrore classico dell’antico occidente: la testa di Medusa adorna di serpi guizzanti. Questi esseri non solo manipolano la loro stessa sostanza organica o quella della piante perché non siano più carnivore, ma anche quella di tutto il loro habitat. L’astronave nella quale Lilith si risveglia è un essere senziente assoggettato a comandi chimici che provocano effetti disgustosi, almeno fino a che non ci si fa l’abitudine. La promessa mancata è quella della salvezza visto che gli alieni intendono ibridarsi con gli esseri umani restanti che sono, quindi, ridotti a divenire parte del programma di ingegneria genetica di una specie che non è possibile nemmeno guardare senza sentirsi male. Certo, queste teste di Medusa ambulanti non manipolano plastica o metallo e sulla loro tavola non esiste carne morta, tuttavia la fissazione che hanno per lo scambio di materiale genetico fa sembrare la vita nell’Universo un’infestazione della materia e tanto più virulenta quanto più è alto il livello di autocoscienza. Tutto il passato è l’inaccessibile del romanzo. Il presente è peggio di un incubo da cui non esiste risveglio e il futuro è destinato a una razza meticciata, non più umana. L’Astrofaro di Butler rappresenta efficacemente l’orizzonte esistenziale di chiunque sia finito nella tratta degli schiavi. Non restano nemmeno i ricordi a rappresentare una via di fuga perché gli Oankali hanno spazzato vita tutti i resti della cultura che li ha preceduti.

(Non sarà un caso che tra le Guardiane della galassia siano Butler e Jemisin a voler fare piazza pulita di tutta la Storia, no?)


Il fallo

«...ed ecco laggiù, senza dubbio, arrivavano regolarmente sulle onde prima due raggi veloci, e poi uno lungo e continuo. Il Faro era stato acceso» [13].

La salvezza dell’umanità sia pure in chiave mi(s)tica di sconfitta della morte costituisce l’inaccessibile nel romanzo Frankissstein: A Love Story (Jonathan Cape, 2019) di Jeannette Winterson. Il sogno di Victor Stein, uno dei protagonisti chiaramente emulo del barone Frankenstein, è quello di un futuro non vincolato dalla forma fisica, in cui sarà possibile scaricare i cervelli e la coscienza dentro sofisticati computer, quindi rinascere o non morire mai a seconda delle preferenze semantiche. E quindi, Victor di giorno si diletta con l’intelligenza artificiale e le protesi robotiche, di notte studia arti mozzati semoventi e ragni pelosi saltatori dalle zampe larghe sul cui modello creare agili microrobot. Queste sono le visioni del romanzo, quelle di una fabbrica degli orrori che contiene – stoccate – le teste tagliate di coloro che aspirano all’immortalità. Poiché il cervello si conserva al suo meglio dentro la testa in cui si è formato, almeno fino a che non sarà possibile eseguire un accurato download dei ricordi che custodisce. Lo spiega Victor a Ry Shelly, donna che si è fatta uomo intervenendo sulla propria evoluzione e diventando un esotico e reale araldo del futuro. Ry è innamorato di Victor al punto di sognare una vita con lui, ma non è ricambiato nello stesso modo, ed ecco che la promessa mancata del romanzo diventa l’amore. Svanirà anche l’amore di Mary Shelley per il «suo» poeta, già messo a dura prova dall’infinità di aborti e morti infantili, quando lui rivolgerà ad altre le attenzioni che prima erano solo per lei. L’amore che manca, a ben vedere, è anche quello che riduce la creatura di Frankenstein ad un abominio.

L’artefatto di Frankissstein ce lo indica un altro personaggio, Ron Lord, colui che è dedito a disconnettere il sesso da qualsiasi relazione interpersonale e che è diventato miliardario grazie alle bambole del sesso che ha immesso sul mercato globale. Ma non sono questi automi l’artefatto bensì - per un gioco classico di scambio tra figure e sfondo - il fallo, definito dai suoi contenitori ideali: i tre buchi vibranti delle sex-bot. Lo stesso Victor Stein, con le sue teste mozzate, mette in scena la pretesa di immortalità del fallo-cervello, per tacere del fallo-mostro originale del barone quasi omonimo.


I corpi-cloni

«...guardò fuori in cerca del Faro, del raggio lungo e fisso, l’ultimo dei tre, che poi era il suo raggio...» [14]

I mucchi di corpi-cloni, cadaveri a pezzi, abbandonati alla periferia dei campi industriali di una Milano futura sono gli artefatti del romanzo Avrai i miei occhi (Zona 42, 2019) di Nicoletta Vallorani. Potremmo definirli ginoidi, ovvero esseri artificiali dalle sembianze femminili, perché se pure cloni tutti uguali di un’unica donna, Anastasia (non per caso il nome, che deriva dal greco, significa resurrezione), quindi fatti di carne e non di plastica, sono «materialità senz’anima che non soffre e non reagisce...». Ideali, quindi, per girare snuff-movie: la violenza si può esercitare ad libitum tanto è rivolta contro un oggetto. E se nel nuovo mondo di Winterson è un software ad animare le sex-bot e a dar loro la verosimiglianza necessaria per soddisfare il cliente, nell’Italia di Vallorani occorre un (s)oggetto femmina che presti il proprio sistema emotivo e sensibile per rendere gratificante l’esperienza dei carnefici. Perché alla periferia dell’antico impero – dove ci troviamo – siamo meno pragmatici ma più sofisticati nelle perversioni. Artefatti sono anche le «mourners», «corpi finti fabbricati per mantenere inutili rituali di lutto» come piangere i cadaveri, dei quali sembrano un’eco. Le mourners, però, rappresentano efficacemente anche l’inaccessibile: la vita delle cose, di cui nulla sappiamo, ma sui cui l’autrice si interroga fino alle fine. Il romanzo è intriso di visioni e ricordi di una Milano che ormai è un «territorio comanche...» o un lazzaretto, una chiesa scoperchiata, una galleria senza treni, un palazzo disfatto. Punteggiata di martiri che si danno fuoco e di abitanti usciti da un freak-show, la città è attraversata dai due protagonisti come da «una coppia di clown in una tragedia».

Chiaro che la promessa mancata è quella del futuro, finito in mano a un Profeta e ai suoi Sacerdoti il cui unico dio è il profitto economico. Un prolungamento drammatico del nostro presente non così fantascientifico.


Uscendo dal secondo prisma, le parole che coronavano le otto lanterne e componevano la frase: «Le donne non sanno dipingere; le donne non sanno scrivere» si sono sbriciolate – ormai scomposte in consonanti e vocali senza senso – e non brillano più.

Ora gli Astrofari illuminano a perdita d’occhio lo spazio e il tempo da scrivere e disegnare, per ognuna che voglia farlo.


Note [1] «Women can’t paint, women can’t write», un piccolo mantra in To The Lighthouse di Virginia Woolf (1927, trad. it Al Faro). [2] «There wasn’t the slightest possible chance that they could do to the Lighthouse tomorrow, Mr. Ramsay snapped out irascibly». (To The Lighthouse, traduzione mia come sotto). [3] Romanzo di fantascienza del 1953, trasposto al cinema da François Truffaut nel 1966 e alla Tv nel 2018 da Ramin Bahrani. [4] Contro-corp significa dissidente. [5] Il tritoma è una pianta con una fioritura estiva simile a tante spighe colore del fuoco. [6] «They had reached the gap between the two clumps of red-hot pokers, and there was the Lighthouse again, but she would not let herself look at it» (To the Lighthouse, cit.). [7] «For the great platful of blue water was before her; the hoary Lighthouse, distant, austere, in the midst; and on the right, as far as the eye could see, fading and falling, in soft low pleats, the green sand dunes with the wild flowing grasses on them, which always seemed to be running away into some moon country, uninhabited of men» (Ibidem). [8] «This going to the Lighthouse was a passion of his, she saw, and then…» (Ibidem). [9] «The Lighthouse was then a silvery, misty-looking tower with a yellow eye, that opened suddenly, and softly in the evening» (To the Lighthouse, cit.). [10] «Non vedo poi tanta differenza tra biochimica e linguaggio» lo dice Haraway intervistata da Thyrza Nichols Goodeve nel 1999. [11] «For the Lighthouse had become almost invisible, had melted away into a blue haze, and the effort of looking at it and the effort of thinking...had streched her body and mind to the utmost» (To the Lighthouse, cit.). [12] Tentacoli, dal latino tentaculum strumento per tastare e sentire. [13] «…and there, sure enough, coming regularly across the waves first two quick strokes and then one long steady stroke, was the light of the Lighthouse. It had been lit» (To the Lighthouse, cit.). [14] «…she looked out to meet that stroke of the Lighthouse, the long steady stroke, the last of the three, ehich was her stroke…» (Ibidem).


Angelica De Palo, studi classici, laurea in astronomia e grande passione per letteratura e scrittura, è convinta che la cultura umanistica non debba essere mai disgiunta da quella scientifica e viceversa. Con lo pseudonimo di Vanessa West ha pubblicato Venere Vendicami (2015), Lesbismo e meccanica quantistica (2018) e alcuni racconti di fantascienza tra cui La natura corregge i propri errori nel volume Solanas mon amour (il Dito e la Luna, 2019).

Attualmente è docente di matematica nelle scuole superiori e continua a scrivere.

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