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Le Guardiane della Galassia 3. «Dea ex-machina»

Rassegna modesta di femminismi e ibridazioni letterarie




Prosegue l’esplorazione critica di Angelica De Palo (siamo alla terza incursione) nella Galassia dello Sci-fi femminista. Rambelli, Tepper, Butler, Vallorani, Winterson, Farris, Jemisin ed Emiliani, Le Guardiane, conducono questa volta alla scoperta della dea ex-machina della narrazione fantaletteraria. È una esplorazione alla ricerca del corpo, delle sue mutazioni e contaminazioni, oltre il dualismo che separa il corpo dalla mente: sono corpi dimenticati, cancellati, corpi desiderati e desideranti, smembrati e riassemblati, corpi resi ibridi dall’incontro con il non umano alieno, animale, tecnico.

Echeggiano prepotenti in questo testo, come nell’intera rassegna che De Palo cura per Vortex ma qui in modo senz’altro più risoluto, gli insegnamenti di Liana Borghi che questa rassegna ha ispirato e incoraggiato e che avrebbe dovuto concludere con la sagacia e l’acume che ha caratterizzato le sue riflessioni. De Palo ha contratto con Borghi un debito insanabile: «è stata lei che mi ha incoraggiato ad affrontare il testo con lo sguardo dell’astronoma appassionata di letteratura e mitologia, a continuare sulla strada della scrittura di fantascienza e della critica». Ed è anche per questo che oggi le dedichiamo le esplorazioni nella galassia della fantascienza femminista di questa «rassegna modesta», eppure ricca di stimoli e suggestioni, a memoria del suo impegno politico e intellettuale. Ciao Liana, grazie anche per questo. [A. C.]


* * *



Il terzo prisma è uno spazio poliedrico in cui si investigano le reti organiche e le mappe delle energie/masse che imp(r)egnano i corpi femminili (talvolta maschili) forgiati dalle Guardiane della Galassia. Siano essi interfacce liminali, gabbie, carcasse carnose, aggraziati cyborg, mostri bio-tech e mitologici. Oppure buchi neri della trama e forse spettri neurali emergenti da un mare cieco di macchine idiote.

Oltre la faccia traslucida di questo terzo prisma ci attende una chimera con testa di donna e seno su torso leonino, coda serpentiforme, zampe possenti e ali d’unicorno. Un po’ cicerone, un po’ virgilio, ci guida in questa nuova esplorazione a perenne memento che il corpo è anche materia fantastica, mappa immaginaria, abbaglio transeunte, utopia.


Nella campagna emiliana

E allora, se di abbaglio si tratta, non c’è da stupirsi se la più giovane tra le Guardiane, Elisa Emiliani (1986) autrice di Cenere (Zona 42, 2019), rende il corpo della sua protagonista oggetto di stupro e contestualmente abbandona del tutto la materia-corpo per concentrarsi sulle menti. Potrebbe dipendere dal fatto che i corpi in gioco sono quelli invincibili e scontati dell’adolescenza, quelli che possono correre a perdifiato in bicicletta, bere fino a stordirsi, dormire poche ore per notte e altalenare tra emozioni estreme come nulla fosse. Indizi sparsi ci rivelano, però, che la corporeità non è scontata ma proprio dimenticata. Il primo segnale è la sorpresa del peso sia pure infimo che ha una chiavetta USB tenuta in mano e che innesca la reminiscenza della materialità degli oggetti. Reminiscenza che non fa in tempo a velarsi di nostalgia e che, tuttavia, indica la disabitudine al contatto con la realtà tangibile. Il corpo insomma, in Cenere, sembra aver abdicato al ruolo di strumento principe per interagire e intra-agire col mondo.

Un secondo segnale arriva dalla noncuranza – un manifesto in realtà – con cui viene pronunciata da un’altra personaggia la seguente frase: «...se avessi l’opportunità di far impiantare la mia coscienza in un corpo cyborg lo farei.»

L’affermazione esprime molto meno di quel che dichiara quando la si cala nell’intero romanzo dove i minimissimi cenni a potenziamenti e/o modifiche corporali (innesti per la rete su tempie e braccia e polmoni sintetici) sono solo una coloritura tech per l’ambiente prepotentemente rurale in cui si svolge la vicenda. La frase appena citata, quindi, non contiene la potenziale risignificazione che il termine cyborg porta con sé. L’ultimo indizio, anzi la pistola fumante che non ci lascia dubbi sulla dimenticanza voluta dei corpi, è il Gioco, ovvero il sogno che inseguono tutte le personagge: uno spazio virtuale, immateriale e disincarnato che rappresenta la resistenza e la via di fuga dal mondo orwelliano di Cenere. Della corporeità ci restano immagini uditive delicate: «...c’era una qualità morbida che risuonava nella sua voce al mattino...» e potenti: «...il nuovo suono oliato degli impianti della Reba l’avrebbe riconosciuto in mezzo allo sbarco in Normandia...» dove l’iperbole sonora ci sbalza, addirittura, fino alla seconda guerra mondiale.


Sotto le mura di Troia

Se Emiliani il corpo lo dimentica, Roberta Rambelli (1928-1996) autrice di Profilo lineare b (Libra editrice, 1980), lo cancella con precisione chirurgica al punto che per i corpi delle sue tre protagoniste si può parlare di veri e propri buchi neri della trama. La prima è Teti, divinità immortale e perfetta per forza di cose, che quindi non fa testo. La seconda è Olimpiade, qualificata solo come suocera bisbetica, e per esser tale il corpo non serve. Ma il capolavoro di rescissione corporale Rambelli lo attua con il faraone Hashepsowe, donna di grande potere e portatrice di una forte istanza di pari dignità e opportunità rispetto agli uomini. Proprio in virtù di questo suo personale femminismo, Hashepsowe oblitera tutte le espressioni corporee femminili perché non esiste (pare) modo di agirle che non sia quello delle ocarotte la cui essenza è ridotta a oggetto sessuale. Come se per una donna il potere di seduzione fosse sia ingovernabile che codificato in una norma ferrea. Il capolavoro, poi, diventa doppio quando per giustificare il disinteresse di Achille verso le donne viene invocata non la sua omosessualità (che per Rambelli non esiste), ma la generale ocarottaggine del genere femminile. A noi fa sorridere questo punto di vista venato di sana e inconsapevole misoginia, condita da una dose da caserma di sessuofobia. Certo, la Teti di Rambelli è meravigliosa ma è una dea, anzi peggio: è una dea-madre. E in effetti non basta essere dee perché Afrodite, per esempio, viene considerata poco più che una cagna in calore. Si salva per un pelo Atena perché lei è fatta non di carne ma di cervello, elmo e corazza. In Profilo lineare b i corpi femminili spiccano per la loro totale assenza rimarcata dalla onnipresenza della fisicità di Achille. Il guerriero acheo è descritto più volte in maniera ispirata e suggestiva, come un distillato di quegli ideali di classicità che hanno reso il corpo maschile il significante universale e collocato il corpo femminile a livello animale o giù per di lì. Da qualche parte nella Galassia è la regina delle Amazzoni, Pentesilea, che si salva dalla morte sotto le mura di Troia. È alla bellezza delle sue forme e alla forza dei suoi muscoli che vengono dedicate parole ammirate, ed è lei a guidare la rivolta che detronizzerà Zeus e il suo regime dispotico. Una fan fiction di cui Rambelli sarebbe certamente felice.


Su un pianeta fatto d’erba

La gravità cartesiana che separa il corpo dalla mente ha trascinato con sé sia Emiliani che Rambelli, ma ha fallito il suo compito con Sheri Tepper (1929-2016), autrice di Grass (Doubleday, 1989), che è riuscita a mantenersi sul bordo del maelstrom senza caderci dentro. Nel romanzo la gran parte della materia-corpo è negli animali o extraterrestri, i temibili Hippae, i misteriosi veltri, le rane gravide, o terrestri come i cavalli della protagonista Marjorie.

Dei corpi maschili Tepper si occupa pochissimo, i corpi femminili invece sono problematizzati. A più di vent’anni dalla liberazione sessuale, l’autrice ci racconta che le donne vengono soggiogate e ridotte all’idiozia (mente e corpo sono una cosa sola) dal piacere sessuale indotto dagli Hippae, esseri grandi come mezza dozzina di tigri e nativi del pianeta Grass, che i coloni usano per andare a caccia. Gli Hippae sono cavalcati da maschi e femmine a dire il vero, ma il problema si presenta nelle giovani donne perché quelle adulte, consapevoli di quanto accade, schivano la caccia se possono. Gli uomini, d’altra parte, ben contenti di cacciare e godere, diventano fantocci brutali totalmente dominati dagli animali che li spremeranno fino alla morte.

A Marjorie il corpo è negato dalla disattenzione del marito. Lei, però, ha una qualità speciale che le permette innanzitutto di connettersi ai suoi animali: capisce e sente gli umori dei cavalli toccandoli e accarezzandoli. Sempre la stessa qualità la farà empatizzare con l’amante del marito quando costui peggiorerà il suo già cattivo carattere a causa degli Hippae. E ancora, Marjorie sarà in grado di comunicare con la bizzarra fauna del pianeta fino ad arrivare a scambiare con essa opinioni di profonda valenza etica sul consumo di carne di essere senzienti. La comunicazione sfocerà in una unione fisica e sensuale con una volpe aliena, autocosciente anche se tutt’altro che umana: tra poteri telepatici, artigli, pelo e zanne, l’animale mostra una qualche assonanza iconografica col demonio cui si univano le streghe. Dopo l’accoppiamento con l’alieno, rientrata in pieno possesso del suo corpo e della sua mente, Marjorie lascerà marito e figli per esplorare il bellissimo pianeta a cavalcioni della volpe.


Dentro un’astronave aliena

Il dilemma etico relativo al consumo di carne è evocato anche in Dawn (Warner Books, 1987) di Octavia Butler (1947-2006), storia dove il corpo è tutto: non solo spazio fisico in cui si svolgono le vicende (cioè l’interno di una specie di balena cosmica), ma anche campo semantico dell’intero romanzo in cui non esiste alcuna cesura tra materia vivente e non vivente. Centinaia d’anni dopo un’apocalisse atomica, Lilith viene svegliata da extraterrestri – chiamano se stessi Oankali – che intendono meticciare il loro patrimonio genetico con quello umano per migliorare sia loro che noi, almeno quei pochi rimasti di noi. Questo è lo scopo che li spinge a viaggiare: incontrare altre specie alla ricerca di uno scambio fruttuoso da entrambe le parti.

Così come già accaduto all’astronave – un essere vivente persuaso alla funzione di veliero cosmico – Lilith non avrà altra scelta che lasciare che il suo corpo divenga un laboratorio per generare il primo ibrido di una razza umana-aliena che ripopolerà il pianeta. Le riflessioni su quello che accade agli animali di allevamento, d’obbligo quando si finisce al loro posto, qui si sprecano: inseminazione artificiale forzata, droghe della fertilità, donazione coatta di ovuli, innesto di uova estranee. Ma se questi sono macro-argomenti su cui in linea teorica è facile trovare concordanze più o meno ipocrite di sdegno/critica, Butler ci suggerisce anche considerazioni più sottili riguardo i rapporti che abbiamo con gli animali. Gli Oankali sono sempre completamente nudi e Lilith si adegua giocoforza a girare senza vestiti, ma si ritroverà palpata e toccata da centinaia di sottili organi flessibili e allungati (recettori sensitivi) di cui gli alieni sono ricoperti, sentendosi trattata, maneggiata, alla stregua di un animaletto da compagnia. Prima di riuscire a spogliarsi, naturalmente, dovrà vincere la profonda ripugnanza per esseri che le ricordano teste di Medusa ambulanti e le causano un orrore mitologico primigenio. Alla fine, la riduzione a puro corpo in Dawn è totale quando anche il sesso diventerà una scarica di endorfine necessaria e Lilith mescolerà la sua materia-corpo con la loro materia-corpo-tentacoli alla ricerca del piacere.


Dove tutti gli uomini portano la gonna

Se Butler usa il mito di Medusa nell’accezione classica, ovvero una testa mozzata terrificante con serpenti vivi al posto dei capelli, e lo fa diventare emblematico della reazione peggiore che materia-corpo altra da noi potrebbe causarci, Clelia Farris (1967) nel suo La giustizia di Iside (Kipple Officina Libraria, 2012), disinnesca la narrazione e rivoluziona il senso della stessa immagine. La sua Medusa ha la pelle scura, labbra rosse e carnose, guance e occhi strizzati in un gran sorriso benevolo. Inoltre, «al posto della caotica parrucca di rettili esibisce un serpentello, piccolo e simpatico, che fuoriesce da un turbante in mezzo alla fronte.»

Anche su Farris, come su Tepper, la gravità cartesiana non ha presa, corpo e mente sono cavallo e cavaliere fusi insieme. Ciò posto, Farris non ha scrupoli né remore con nessuna parte del corpo che, nel suo antico Egitto ucronico, è – per cominciare- materia smembrata[i]. Solo di Osiride vengono citate la clavicola, la lingua, la trachea, gli occhi, e riecco il mito con cui scherzare. Poi ci sono corpi ibridati con cromosomi di pesce e chissà che altro che fa crescere membrane cartilaginee tra le dita. Altri corpi, quelli dei molluschi, delle piante, di varani o caimani, vengono usati per comunicare, illuminare, sedersi, spostarsi. Ricordiamo anche che con ragni o ricci di mare, entrambi enormi, è possibile copulare a seconda dei genitali posseduti. I corpi femminili, soprattutto, sono desideranti, praticano sesso, sono fonte di sudori, odori, rumori e sono sempre a loro agio.

Questo accade (accadde) a Dendera, la città della dea, citata ventuno volte ne La giustizia di Iside, dove tutti gli uomini portano la gonna, come è tuttora testimoniato dalle immagini dell’abbigliamento in voga che sono giunte fino a noi.


A Memphis, in Tennessee

Coi corpi delle Guardiane della Galassia possiamo disegnare una mappa che rivela sorprendenti connessioni come quella che dall’antico Egitto arriva a Memphis, in Tennessee, città in cui si svolge la Fiera internazionale della Robotica, primo evento del romanzo Frankissstein (Jonathan Cape, 2019) di Jeannette Winterson (1959). La chimera, nostra guida da un romanzo all’altro, ci rivela che Memphis è chiamata così perché attraversata dal Mississippi, proprio come Menfi, che fu capitale dell’Antico Regno[ii] era tagliata dalla foce del Nilo. I due fiumi sono imparentati dallo stesso numero di Strahler[iii], un codice che identifica la complessità della rete di affluenti e che citiamo qui come regalo della scienza alla fantascienza.

Coi corpi gioca anche Winterson, solo che lo fa con il tipico humor nero britannico, risolvendo il dualismo mente-corpo col tranciare via la prima dal secondo. I corpi femminili vengono simbolizzati da bambole semi-idiote (ma con grandi virtù casalinghe), quelli maschili, d’altra parte, vorrebbero diventare solo mente come sogna il protagonista emulo del barone Frankenstein. Nel mondo di mezzo, prima cioè che l’utopia dei cervelli disincarnati si realizzi, i corpi dei maschi hanno relazioni carnali con i polimeri scivolosi dei tre buchi vibranti delle loro sex-bot e alcune femministe protestano inascoltate contro le intelligenze artificiali progettate (a loro dire) da uomini con disturbi dello spettro autistico. Uno dei pochissimi corpi femminili di carne del romanzo si taglia il seno e si trasforma in un maschio gay, la competizione con le donne di plastica che stanno invadendo il mercato globale è, a questo punto, esclusa? La metamorfosi è incompleta però, perché l’uomo-trans si ritrova in una posizione femminile di sudditanza emotiva e psicologica col maschio alfa del romanzo. Quanto alle bambole tri-forate, non bisogna pensarle tutte uniformi, i modelli vanno dalla versione Compagna Cristiana, vestita castigata e con dimensioni del seno contenute, alla versione Femminista degli anni Settanta, senza reggiseno, con i capelli scompigliati e un dildo per i giochi anali. Degli altri corpi di carne di Frankissstein ci resta la fuggevole apparizione di Ada Lovelace, consolante per un istante, e la discreta ma dolente presenza di Mary Shelley a bordo campo di tutta la vicenda. Da una fetta di spaziotempo distante duecento anni ispira ancora altre donne a scrivere fantascienza.


Lungo i Navigli

Se Winterson riesce a divertirci con la Compagna Cristiana e la Femminista degli anni Settanta, nessuna giocosa ironia, invece, è rintracciabile in Avrai i miei occhi (Zona 42, 2019) di Nicoletta Vallorani (1959). Mentre le ginoidi tecnologiche sono un business a Memphis, città che ha - scarsi – 200[iv] anni di vita, a Milano, dove gli anni di vita sono più di 2000, i cloni tecno-organici usati negli snuff-video conservano ancora una parvenza di sacralità. Tant’è che a prendersi cura dei loro resti ci sono altri corpi sintetici, le mourners, costruiti per mantenere rituali di lutto. Si rintraccia l’eco dei corpi immuni dei monatti che caricavano sui carretti i corpi malati da confinare nel lazzaretto, quando la peste nel 1629 flagellava Milano.

I cloni di Vallorani, a sottolineare la loro vicinanza ai corpi di carne, sono innervati ed emotivizzati - termine di conio fantascientifico - da cavie umane che prestano loro il sistema nervoso e sensoriale, a differenza del pragmatico software che mantiene le sex-bot americane appena sotto l’autocoscienza, in modo che non arrivino a interrogarsi sul loro destino. In Avrai i miei occhi i cloni erano destinati sin dalla loro origine – il Processo rinascita, concepito per rigenerare tessuti a scopo medicale – alla fusione con i corpi di carne e anche quando le intenzioni iniziali vengono stravolte e sono rigenerati solo per essere straziati, la simbiosi con le cavie umane è così intima che questi ag-graziati / dis-graziati cyborg si lasciano morire piuttosto che reiterare le sofferenze. Il confine tra cose e persone è sfumato e si perde, un po’ come Milano che, divisa dai muri che vorrebbero essere disgiunzioni, in realtà è attraversata dalla protagonista Olivia e contiene ologrammi di muri, separazioni – quindi - solo apparenti. Tutto fa parte di una ragnatela dove ogni punto è collegato agli altri anche quando questo accade alla rete distopica di pulviscolo luminoso che fa da substrato alla sensibilità che le donne-cavie condividono con i corpi cloni. Nessuna differenza, allora, con quando c’erano i Navigli, vene scoperte che congiungevano all’aperto tutte le parti e, al tempo stesso, veicoli ideali per il diffondersi della peste.

Che il corpo è una chimera è dichiarato in questo romanzo, ma forse è più una velleità che un dato di realtà in una vicenda che ha per suo nucleo l’indistinguibilità di un corpo femminile da qualsiasi altro. I cloni non sono altro che questo, no? Va da sé che la violenza inflitta a uno di questi è inflitta a tutti.


Dentro la pietra

Come in Butler, anche in The Fifth Season (Orbit, 2015 di Nora Jemisin (1972) il corpo rappresenta tutto lo spazio semantico: è impossibile prescindere dalla massa fortemente ostile di Padre Terra e dalla sua essenza scabra, rocciosa e magmatica. Almeno questo nel primo romanzo, appunto The Fifth Season, della trilogia The Broken Earth. La violenza di Padre Terra, che squassa con eruzioni e terremoti continui la superficie del pianeta, riverbera negli schiavismi e razzismi che striano le tribù dei gruppi umani sopravvissuti. E per un paradosso che è difficile da sciogliere (e che la letteratura e le serie tv[v] spesso si divertono a imbrigliare ancora di più per creare tensione) i corpi con la maggior forza fisica sono quelli più oppressi e assoggettati col dolore come in questa vicenda.

Il corpo femminile della protagonista di The Fifth Season, nonostante il potere a lei concesso, è una gabbia dentro cui si è chiusa da sola. Non è certo l’unica a essere un’orogena, cioè ad avere il potere di fermare i terremoti, ma sceglie di vivere nascondendolo fino a che non le si ritorce contro. Anche i ruoli di genere in The Fifth season sono una riproduzione, né più ne meno, di quelli che vessano i corpi femminili fuori dalla fantascienza e se questo ci parla di come sempre si soccomba alle influenze sociali, la cosa finisce soprattutto per deprimerci.

In un mondo pietroso come Padre Terra forse non è un caso che una parentesi di serenità è accordata alla protagonista su un’isola, Meov, circondata dall’elemento liquido, dove potrà scegliere per la prima volta con chi unirsi sessualmente. Peccato che nel triangolo amoroso in cui finirà con l’uomo scelto e quello che le è stato imposto, saranno i due corpi maschili ad essere in relazione fortemente erotica l’uno con l’altro e lei si ritroverà più spettatrice che protagonista. Per fortuna abbiamo gli altri due romanzi della Trilogia dove, chissà, è possibile che qualcosa cambi.

Il corpo della chimera che ci ha fatto da guida dispiega le assurde ali d’unicorno per sollevarsi e lasciarci sulla via del quarto prisma. I pezzi che la compongono si separano rivelando, prima di sparire, pulsanti nervature cibernetiche tra ossa e carne.


Note [i] Il riferimento è al mito di Osiride che venne smembrato dal fratello Seth in 14 pezzi. [ii] L’Antico Regno è un periodo dell’Antico Egitto che va circa dal 2700 a.C. al 2192 a.C. [iii] Il numero di Strahler di Nilo e Mississippi è 10, quello del Rio delle Amazzoni 12, quello del Tevere 8, tanto per avere un’idea. [iv] Memphis fu fondata nel 1819. [v] In Motherland (nomen omen) tutte le donne che sono streghe, invece di liberarsi da un razzismo strisciante e violento nonostante si viva nella terra delle madri e non in quella dei padri, si mettono al servizio degli esseri umani normali (per così dire) confluendo nell’esercito a combattere battaglie che non sono le loro. Io non me ne faccio una ragione e chi sceneggia lo fa apposta, è ovvio.


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Angelica De Palo, studi classici, laurea in astronomia e grande passione per letteratura e scrittura, è convinta che la cultura umanistica non debba essere mai disgiunta da quella scientifica e viceversa. Con lo pseudonimo di Vanessa West ha pubblicato Venere Vendicami (2015), Lesbismo e meccanica quantistica (2018) e alcuni racconti di fantascienza tra cui La natura corregge i propri errori nel volume Solanas mon amour (il Dito e la Luna, 2019).

Attualmente è docente di matematica nelle scuole superiori e continua a scrivere.

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