Questo testo di qualche anno fa, riprende le analisi del femminismo marxista degli anni Settanta e le rilegge nel presente, come mappa teorico-politica per un femminismo radicale nel capitalismo della crisi.
Il testo è pubblicato in contemporanea in spagnolo su Zona de Estrategia.
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È cresciuta, negli ultimi tempi, l’attenzione femminista per una lettura materialista della realtà, che sviluppa uno sguardo attento ai rapporti sociali definiti dal sistema capitalista. Dopo anni di generica noncuranza, se non sistematica rimozione, i rapporti sociali di produzione e riproduzione hanno trovato un rinnovato interesse nel dibattito femminista più recente, riportando l’attenzione della critica e delle lotte sul piano delle relazioni di potere e delle forme di subordinazione e sfruttamento che storicamente definisco i rapporti di genere. Superato il piano del simbolico che aveva contraddistinto la critica femminista a partire dagli anni Ottanta del Novecento, la riflessione è tornata nel suo alveo materialista, complice anche la sempre più evidente centralità della riproduzione nei processi di valorizzazione del capitale nonché la crisi permanente del capitalismo contemporaneo che ha riportato all’attualità il lavoro di Marx e la critica marxista. Nomi come quello di Rosa Luxemburg e Alexandra Kollontaj o il lavoro teorico-politico intorno alla campagna internazionale Wages for Housework hanno fatto irruzione nella produzione di discorso dei moventi femministi e transfemministi contemporanei, cosa che pone oggi la necessità di tradurre nel presente discorsi, pratiche e ipotesi teoriche elaborate in altri contesti storici e sociali. Allo stesso tempo, la crescente attenzione per la critica femminista di matrice marxista, richiama anche la necessità di fare ordine tra differenti proposte politiche che non possono e non devono essere tra loro assimilate.
Guardando in questa (doppia) direzione, il presente saggio intende presentare una specifica declinazione della critica femminista di stampo marxista già definita femminismo marxista della rottura (Curcio 2019). Una pratica teorica che, nel fermento politico aperto dalle profonde trasformazioni sociali degli anni Settanta del Novecento, lega la critica dell’economia politica all’urgenza della lotta e inaugura uno stile, o un metodo, femminista materialista di elaborazione teorico-politica della realtà che parte da Marx per affermare, oltre Marx e il marxismo, il valore produttivo della riproduzione. Ripercorrere la storia di quella esperienza, le diverse piegature storiche di quel metodo nella sempre aperta transizione capitalista, e discutere le categorie e le pratiche via via elaborate, può essere un utile esercizio per affinare gli strumenti teorico-politici per una critica femminista del modo di produzione/riproduzione oggi.
In quanto segue sarà innanzitutto definita l’ipotesi di lavoro (o il metodo) del femminismo marxista della rottura, considerando i differenti piani che interroga: la rottura teorico politica con il marxismo, la rottura militante con i gruppi della sinistra radicale e del femminismo, la rottura esistenziale con un modo specifico di intendere il ruolo delle donne nella società. Nei due paragrafi conclusivi sarà invece il metodo della rottura ad essere considerato nella sua attualità, ovvero come dispositivo per un femminismo marxista radicale nel tardo capitalismo.
Un femminismo marxista della rottura
Il femminismo marxista della rottura è l’ipotesi di un modo specifico di guardare la realtà capitalista che coniuga la critica femminista radicale e il pensiero marxiano. Una prassi di intervento teorico-politico che propone un uso militante di Marx e svela l’arcano della produzione di valore nascosto nelle case (Fortunati 1981), occultato dal lavoro d’amore di madri e mogli dedite alla riproduzione della forza-lavoro (Dalla Costa 1972; Federici 1975; Dalla Costa 1978). È una idea femminista dei rapporti sociali e della classe, che rende manifeste le ragioni storiche e materiali, della naturalizzazione delle donne al lavoro riproduttivo in casa, e riconosce le forme dello sfruttamento oltre il rapporto salariale. Una rottura appunto, con il modo in cui era stata fin lì intesa la condizione sociale delle donne, il loro ruolo nel contesto pubblico e nella sfera privata, nella vita di tutti i giorni, nella politica e nella lotta di classe.
Decisivo è l’incontro teorico e militante tra il femminismo materialista nella tradizione operaista (in particolare il collettivo Lotta Femminista di Padova) e la critica di Selma James al modo di produzione capitalista maturata a cavallo delle lotte anticoloniali. In particolare, James, in un documento dell’inizio degli anni Cinquanta: A Woman’s Place (Il posto della donna), aveva raccolto le esperienze di giovani operaie immigrate durante la guerra, con cui aveva lavorato politicamente a Los Angeles e prodotto una critica senza sconti all’emancipazione delle donne attraverso il salario: «Il secondo lavoro fuori casa è un secondo padrone sovrapposto al primo; il primo lavoro della donna è la riproduzione della forza-lavoro di altri individui, e il secondo è di riprodurre e vendere la sua» (James, 1953, trad. it. 1977: 25 ). Il documento sarà pubblicato tra i materiali di Potere femminile e sovversione sociale di Mariarosa Dalla Costa (1972), quello che può essere considerato il «manifesto» del femminismo marxista della rottura, e aprirà un ampio dibattito internazionale che porterà alla nascita, quello stesso anno, del Collettivo internazionale femminista (Cif) promotore della campagna Wages for Housework (Salario al lavoro domestico)[1].
Tuttavia, quel modo specifico di guardare la realtà che qui chiamiamo femminismo marxista della rottura, non si esaurisce nell’esperienza del Salario al lavoro domestico. È piuttosto uno sguardo femminista critico sul reale, con Marx sullo sfondo e l’urgenza della lotta politica, che ha offerto e continua a offrire efficaci strumenti per leggere le forme differenti e successive della subordinazione e dello sfruttamento sul terreno della (ri)produzione. In questo senso, il femminismo marxista della rottura, non è una scuola o una corrente femminista ma un modo o uno stile di militanza, femminista e materialista. Un metodo di conoscenza del reale legato alla lotta politica sul terreno della riproduzione, che continua a interrogare criticamente il presente.
La rottura teorica
In quella particolare fase della transazione capitalistica che sono gli anni Settanta del Novecento, tra profonde trasformazioni economiche e uno spazio straordinariamente fecondo di conflittualità sociale, il lavoro di Marx e la critica dell’economia politica, occupano un posto di primo piano nel dibattito politico antagonista. Leggere Marx, oltre le strettoie a cui lo ha ricondotto il cosiddetto marxismo occidentale, è la postura di molti gruppi militanti sul piano nazionale e internazionale, senz’altro quella dell’operaismo politico italiano e della Johnson-Forest Tendency negli Stati Uniti, come del movimento nero e delle lotte anticoloniali. È nel solco aperto da questa critica al marxismo che si inserisce, seppure con una postura autonoma, l’elaborazione teorico-politica del femminismo marxista della rottura. Marx «ha fornito un’analisi indispensabile per comprendere il funzionamento della società capitalistica» scrivono da New York Silvia Federici e Nicole Cox (1976, trad. it. 2020: 21) per la campagna Wages for Housework, ben consapevoli, tuttavia, che l’analisi marxiana, e soprattutto le interpretazioni del marxismo successive, lasciano in ombra una vasta area di sfruttamento e produzione di valore per il capitale: il lavoro domestico, la sessualità, la procreazione (Dalla Costa 1972; Fortunati 1981).
Benché Marx (a differenze di molti dei suoi epigoni) avesse colto e denunciato l’oppressione della donna nella famiglia borghese del tempo e le brutali condizioni di sfruttamento di donne e bambini nelle fabbriche della seconda metà del XIX secolo, non aveva, invece, speso una sola parola per analizzare la forma specifica di tale subordinazione e sfruttamento; né era stato in grado di cogliere l’autonoma produzione di valore della riproduzione[2]. Piuttosto, nello schema marxiano, la riproduzione, che è (ri)produzione della (merce) forza-lavoro, non produce valore, non in modo autonomo, poiché la produzione di valore (nei termini del «valore di scambio») è legata al lavoro per la produzione delle merci. La riproduzione (che fornisce semmai «valore d’uso», quello della forza-lavoro per la produzione di merci) è piuttosto intesa come parte del processo di produzione delle merci; il lavoratore nel produrre le merci, guadagna un salario e con quel salario soddisfa le sue necessità riproduttive: il cibo, i vestiti, l’abitazione e poi gli affetti, le relazioni. In questo senso, per Marx la riproduzione non è lavoro – perché non produce valore e dunque non prevede il rapporto salariale – e resta pertanto estranea alle forme dello sfruttamento.
Tuttavia, per ragioni storiche e materiali, le donne sanno bene che le necessità riproduttive del lavoratore possono essere soddisfatte solo se per produrre le merci necessarie alla sua riproduzione interviene altro lavoro; lavoro di riproduzione, appunto, che rende possibile al lavoratore di vendere ogni giorno come merce la sua forza-lavoro. Si tratta di lavoro non pagato, la cui gratuità, sin dalla nascita del capitalismo, è fondata sulla naturalizzazione delle donne alla riproduzione e sulla storica degradazione e subordinazione di tutte le attività riproduttive (Federici, Fortunati 1984; Federici 2004). Per il femminismo marxista della rottura, dunque, la produzione di valore non è circoscrivibile al lavoro per la produzione di merci, il «plusvalore», al contrario, risiede proprio nel lavoro non pagato per la (ri)produzione (in tutte le sue possibili declinazioni) della «merce speciale» forza-lavoro. Lungi dall’essere improduttiva, la riproduzione, è invece (e oggi con estrema evidenza) spazio per eccellenza della produzione di valore, pilastro della riproduzione stessa del capitale. E qui si consuma la rottura teorica con Marx e con il marxismo in particolare.
La rottura politica e militante
Aver portato in primo piano il valore produttivo della riproduzione e denunciato la naturalizzazione delle donne al lavoro domestico ha permesso anche di definire nuove forme della militanza e nuovi ambiti della lotta di classe. La casa (che diventa casa fabbrica) è adesso il luogo centrale dell’estrazione di plusvalore e spazio delle lotte; la famiglia nucleare, spina dorsale del modello di produzione fordista, è riconosciuta quale forma dell’organizzazione e del comando sul lavoro domestico non pagato e le casalinghe (a tutti gli effetti «operaie della casa»[3]) sono il nuovo soggetto di una classe che eccede il perimetro della fabbrica e del lavoro salariato. È una nuova idea della classe che ricomprende adesso le casalinghe e tutti i lavoratori non salariati, servi, schiavi e popolazioni colonizzate. Una rottura, in questo senso, militante che, in aperto scontro con le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria non solo femminista, ripensa radicalmente il soggetto delle lotte.
In Italia la rottura si consuma in modo aspro dentro Potere Operaio, alla cui tradizione è in vario modo riconducibile la stessa esperienza del Salario al lavoro domestico. Lotta Femminista sintetizza le ragioni di quella rottura in una lettera al «Manifesto» che ridiscute i concetti cari all’operaismo: salario, classe, composizione (Picchio, Pincelli 2019: 91-93). La nuova idea di classe del femminismo marxista della rottura prescinde dal rapporto salariale e guarda alla razza e al genere quali strutture interne alla nascita e sviluppo del capitalismo. La rilettura femminista dell’Accumulazione originaria, proposta da Federici e Fortunati (1984; 2004) ha in particolare evidenziato come la naturalizzazione delle donne al lavoro di riproduzione e la dequalificazione del lavoro di riproduzione che l’accompagna, siano elementi imprescindibili per la nascita e lo sviluppo del capitale. Selma James, in un altro dei testi fondativi dell’esperienza: Sex, Race and Class, evidenzia come nelle lotte «sesso, razza e classe si siano dimostrati inseparabili» e ricorda che «se sesso e razza vengono scissi dal concetto di classe, ciò che resta è la politica mutilata, provinciale e settaria della sinistra bianca e maschile dei paesi metropolitani» (1973, trad. it. 2019: 164). Ecco il nuovo soggetto di classe del femminismo marxista della rottura che, sullo sfondo dell’antagonismo irriducibile tra capitale e lavoro, eccede la classe operaia della tradizione di sinistra e rifiuta la prospettiva emancipazionista del femminismo socialista.
Nella tradizione socialista, la lotta femminista è quella delle lavoratrici e vive tutta dentro il rapporto salariale; non c’è spazio per l’idea della produzione di valore e dello sfruttamento oltre il salario; la riproduzione resta ambito distinto dalla produzione. Anche Mary Inman, che con In Woman’s Defense (1940) aveva sfidato il Communist Party americano, insistendo sul valore produttivo della riproduzione, manteneva separate la sfera produttiva maschile e la sfera riproduttiva femminile[4]. Né fanno eccezione Clara Zetkin e Rosa Luxbemburg o Alexandra Kollontaj che pur si interrogano, nelle differenze, sul ruolo delle donne nella società capitalista e si impegnano per il cambiamento[5]: la società comunista si raggiunge con la lotta di classe dentro il sistema del lavoro di produzione capitalista. Differente è invece la prospettiva elaborata dal femminismo marxista della rottura.
Mariarosa dalla Costa, riattraversando l’esperienza del Salario al lavoro domestico, in un’intervista del 2005, si domanda laconica: «perché mai avrebbe dovuto costruire una meta ciò che gli uomini dicevano di voler rifiutare?». Come già nei Settanta, «nessuno di noi crede che la liberazione avvenga attraverso il lavoro» (Dalla Costa 1972: 83). Analogamente, come avrebbe potuto aver senso una lotta di classe bianca, concentrata in luoghi di lavoro non accessibili a tutti, mentre sul piano internazionale le lotte anticoloniali lasciavano emergere nuovi soggetti conflittuali e la campagna Wages for Housework a Londra, New York, in Canada, raccoglieva donne caraibiche, afroamericane, latine? La «rottura» militante vive dunque immediatamente dentro l’urgenza politica della lotta femminista nella transizione di fine secolo.
La campagna internazionale Salario al lavoro domestico rappresenta in questo senso un esempio specifico di una nuova forma della militanza femminista che oltre i confini nazionali, ripensa la classe ed eccede la razza, coinvolgendo donne con vissuti eterogenei: dalle militanti rivoluzionarie alle casalinghe cattoliche, dalle donne in carico ai servizi sociali a quelle che lottano per i sussidi. In tutti i paesi dove è attiva la campagna Wages for Housework si diffondono rapidamente strutture organizzative agili e multiformi impegnate sul terreno della riproduzione. A Londra, dietro la leadership di Selma James e Susie Fleming la campagna incrocia la lotta delle donne, prevalentemente caraibiche, che si oppongono alla cancellazione delle Family Allowance; negli Stati Uniti, con epicentro nel Wages for Housework Committee di Brooklyn (Federici, Austin 2017), sono attive numerose campagne e dal lavoro politico di Margaret Prescod e Wilmet Brown nasce il gruppo Black Women for Wages for Housework; e poi in Germania, in Svizzera, nel Canada anglofono dove un ruolo importante è svolto dalle donne latine coordinate da Judy Ramirez a Toronto (Toupin 2014), e naturalmente in Italia dove i gruppi per il salario, particolarmente radicati in Veneto e in Emilia, raggiungono una vastissima diffusione territoriale (Picchio, Pincelli 2019)[6].
La rottura esistenziale
Applicando in modo originale e irriverente la critica marxiana dell’economia politica per leggere la subordinazione delle donne nella società del tempo e praticando un’inedita composizione di classe, il femminismo marxista della rottura all’inizio degli anni Settanta, intende soprattutto sottrarre le donne al modello riproduttivo della famiglia nucleare posta a fondamento dell’organizzazione capitalistica del lavoro nel fordismo. «Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato», scrive Silvia Federici in esergo a uno dei testi fondativi dell’esperienza (1975), per sottolineare la violenza occulta della naturalizzazione delle donne al lavoro domestico.
In quella fase specifica della transizione capitalistica, rivendicare salario per il lavoro domestico, lungi dal costringere le donne in un ruolo sociale degradante e subordinato, come sostengono le femministe socialiste di ieri e di oggi, intendeva piuttosto rompere la prescrizione per la donna di essere moglie e madre, di fare per tutta la vita la casalinga isolata nel privato della sua casa. Era la rottura del principio che ha storicamente naturalizzato le donne al lavoro domestico, un lavoro non riconosciuto come tale, non salariato, la cui gratuità – ci hanno mostrato – è all’origine della produzione del plusvalore. Una rottura anche sul piano esistenziale perché alle donne di quella generazione[7] faceva orrore la condizione di vita delle proprie madri fatta di fatica, solitudine e privazioni (Toupin 2014, Curcio 2021).
La rottura femminista con «la cultura della calzetta» investe anche il campo dell’arte. Nel solco teorico-militante aperto dalla campagna internazionale Wages for Housework è attivo, dal 1974 in Italia, il «Gruppo Femminista Immagine di Varese» (Gandini, Secol 2021; Galimberti 2019) che fa della casa e dei suoi artefatti una produzione artistico-politica per la lotta femminista: le pentole, il grembiule da cucina, le pagliette abrasive sono reinterpretate politicamente e perfino la polvere sui mobili diventa il supporto su cui tracciare simboli di lotta. È la rappresentazione – e la denuncia – della casa fabbrica, della casalinga come operaia della casa e del lavoro d’amore che inchioda le donne al ruolo di moglie e madri. Al contempo, è una critica a un concetto di arte fondato sul sistema delle gallerie, dei curatori e dei critici d’arte che sono prevalentemente uomini. La produzione di immagini, al contrario è strumento di lotta; una lotta sensuale, ironica, sapiente che eccede anche l’ascetismo rosso della sinistra, femminismo compreso.
La rottura come metodo
Alla fine del decennio, complice anche la rottura femminista marxista, le donne sono uscite in massa dalle case, hanno messo in discussione i tradizionali ruoli interni alla famiglia[8] e dato la spallata finale al modo di produzione fordista, dopo le lotte sociali dei decenni precedenti. La ristrutturazione produttiva punta adesso a delocalizzare la riproduzione nella società. L’ipotesi della casa fabbrica che aveva permesso di svelare lo sfruttamento del lavoro d’amore, lascia spazio alla nuova ipotesi della fabbrica diffusa, mentre «il soggetto che controlla il lavoro legato alla riproduzione si diversifica e diventa astratto» (Del Re 1979: 46-47).
Con un numero sempre maggiore di donne impegnate nel lavoro esterno, l’indicazione politica del Salario al lavoro domestico, che ha fin lì ricomposto le molte facce della lotta alla subordinazione e allo sfruttamento delle donne, ha esaurito la sua funzione politica. Anche la campagna Wages for Housework conclude nel 1977 la sua esperienza (Toupin 2014; Federici, Austin 2017; Valle 2021). Resta valido, tuttavia, il metodo: una critica femminista ai rapporti sociali capitalistici che guarda alla produzione di valore della riproduzione con l’urgenza della lotta. Alla fine del decennio, «l’analisi diventava per noi un elemento imprescindibile per la realizzazione di bisogni materiali» afferma Alisa Del Re (2020) in una recente intervista in occasione della ripubblicazione di Oltre il lavoro domestico. Il lavoro delle donne tra produzione e riproduzione (Chisté, Del Re, Forti 1979), testo chiave di quella che potremmo riconoscere come una seconda fase del femminismo marxista della rottura in Italia.
Alla fine dei Settanta, nella crisi conclamata del fordismo, le donne si trovano a dover conciliare il lavoro riproduttivo più tradizionale (che non hanno mai del tutto abbandonato) con altro lavoro riproduttivo esterno, negli ospedali, nei servizi di assistenza e nella formazione. È cambiata la struttura formale della riproduzione (che adesso interessa la casa e il suo fuori) e il comando del salario ha assunto nuove forme, nel senso che copre adesso due lavori, uno dentro la casa l’altro fuori; ciò che avremmo imparato a conoscere come «la doppia giornata lavorativa». Guardando alle condizioni materiali di vita delle donne e traducendo in domande politiche, l’analisi sul valore produttivo della riproduzione, il collettivo Donne, scuola, università, ospedali di Padova, dalla cui riflessione è nato Oltre il lavoro domestico, punta alla riduzione del tempo di lavoro, «un tempo di lavoro comandato infinito, con segmenti diversi che si saldano tra produzione e riproduzione» (Del Re 1979: 37). La lotta è, dunque, per l’incremento della spesa pubblica e per i servizi di riproduzione.
Poi, quel «percorso politico femminista si è dissolto dentro la repressione dei movimenti» alla fine del decennio, ricorda Del Re nell’intervista già richiamata. Ha continuato, invece, a vivere il metodo teorico-politico di un femminismo marxista che, nel rompere con il marxismo, ha mantenuto uno sguardo materialista critico sulla riproduzione. E benché tra gli anni Ottanta e Novanta, il femminismo abbia abbandonato il piano materiale dell’analisi per il simbolico, al giro di boa del millennio, la critica femminista materialista alla precarietà ha ripreso quello sguardo marxista critico sulla realtà, per leggere la sempre più netta sovrapposizione tra produzione e riproduzione, tra tempi di vita e di lavoro[9]. E ha guardato alla crescente precarizzazione come riverbero, nel conteso sociale più ampio, della flessibilità, segmentazione e impegno linguistico e affettivo già richiesto al lavoro domestico e di cura[10]. Anche in tempi più recenti, quel metodo continua a offrire spunti utilissimi per leggere la crescente valorizzazione capitalistica della riproduzione[11], le sue trasformazioni specifiche (Cavallero, Gago 2020) e, su di un piano solo in parte differente, l’impennata del lavoro gratuito (Curcio 2017).
Riproduzione, rottura e la posta in palio nel tardo capitalismo
Oggi, nel pieno della crisi permanente del tardo capitalismo, una crisi economica, sociale, politica e sanitaria, che interessa in modo specifico la riproduzione (dagli attacchi al welfare nel corso dell’ultimo decennio alla radicale ristrutturazione accelerata dalla pandemia), il metodo teorico-politico del femminismo marxista della rottura, quello sguardo militante sulla produzione di valore della riproduzione, resta di grande importanza per la critica femminista e non solo.
Nella crescente sovrapposizione tra produzione e riproduzione, tra vita e lavoro, tra pubblico e privato, è possibile (mettendola schematicamente) registrare, in tutti gli ambiti del lavoro di riproduzione, dalla sanità alla formazione, ai servizi socioassistenziali, una spiccata digitalizzazione delle mansioni, una marcata scomposizione e delocalizzazione delle attività (con un evidente ritorno in case che non sono abilitate a farlo) ed elevatissime condizioni di precarietà. Nello steso tempo, il plauso per i governi al femminile nella gestione della pandemia o, analogamente, la tendenza sempre più diffusa a organizzare il lavoro e sempre più anche il comando sul lavoro, in termini linguistici e relazionali, privilegiando l’orizzontalità al verticismo, la relazione di cura all’imposizione autoritaria (Ioannilli 2021), lasciano emergere, almeno in tendenza, una nuova articolazione del rapporto tra donne, riproduzione e capitale, segnata da una specifica attenzione capitalistica alla cura. Cosa tutto ciò può voler dire per la critica femminista?
Più complessivamente. Quali processi di rottura sono oggi possibili sul terreno della riproduzione, mentre la riproduzione assurge, con tutta evidenza, ad ambito privilegiato della valorizzazione capitalista? Dove si cela l’arcano della produzione di valore, una volta che la (ri)produzione si è capillarmente riversata nel contesto sociale e digitale, quando il lavoro tutto è in modo conclamato flessibile e intermittente, quando il lavoro di riproduzione diventa essenziale (Borgia, Palermo 2021) e al contempo (o forse proprio per questo) precario e a basso reddito? Quale l’impatto negli ambiti riproduttivi di (nuove) tecnologie sempre più pervasive? Che ruolo hanno oggi, se lo hanno, il salario, la famiglia, la casa? Ed ancora. Che cos’è la riproduzione della forza-lavoro quando, la produzione di valore pervade l’esperienza soggettiva/umana? Quando la riproduzione è riproduzione della «capacità umana vivente» a farsi lavoro («lavorizzarsi») per il capitale[12]? Quale ruolo, svolgono oggi le «industrie riproduttive», cioè la scuola, la sanità, i servizi alla persona (dalle pulizie alla consulenza psicologica) e il vasto ambito del sociale? E più complessivamente, qual è la posta in palio della riproduzione nel tardo capitalismo?
Ecco alcune delle questioni teorico-politiche che il femminismo marxista della rottura continua opportunamente a sollecitare, restituendoci la sua attualità.
Note
[1] Sulla campagna Wages For Housework e sul Collettivo femminista internazionale (Cif) si veda Toupin 2014; Curcio 2019.
[2] Per uno sguardo complessivo sul rapporto tra Marx e la critica femminista si veda Federici 2020a.
[3] Le operaie della casa è anche il nome della rivista pubblicata con frequenza irregolare tra il 1975 e il 1977 a cura del Comitato per il Salario al Lavoro Domestico di Padova e del Collettivo femminista internazionale.
[4] Si veda Federici e Austin 2017.
[5] Si veda C. Zetkin La questione femminile e la lotta al revisionismo Il voto alle donne e la lotta di classe (1912) di Rosa Luxemburg, (si veda anche Luxembrug 2019), Largo all’eros alato (1923) e Vassilissa (1923) di Alexandra Kollotaj
[6] Per una mappatura dei gruppi per il salario in Italia e dei materiali prodotti si veda: l’Archivio di Lotta Femminista per il Salario al lavoro domestico Donazione Mariarosa Dalla Costa c/o Biblioteca Civica di Padova. L’inventario dei materiali ospitati nell’archivio è consultabile a questo link.
[7] Occorre notare che solo nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia, le donne in Italia acquisiscono la piena personalità giuridica. Cessano di essere «proprietà» del marito e acquistano rispetto al coniuge pari diritti e doveri.
[8] Per un’analisi della posizione sociale delle donne nella società fordista si veda Federici 2020b: L’invenzione della casalinga a tempo pieno.
[9] Si veda, tra altri il Collettivo femminista Sconvegno di Milano (2003), il Colectivo Precarias a la deriva di Madrid (2003), il collettivo Amatrix a Roma (2007) e su di un piano solo in porte differente, poiché sollecita medesime categorie analitiche, la lunga lotta degli Intermittents du spectacle in Francia a partire dal 2003 e i percorsi militanti che hanno costruito le mobilitazioni della Mayday e dell’EuroMayDay tra il 2001 e la fine degli anni Zero.
[10] Sul tema si veda tra altri Morini 2010 e Weeks 2011.
[11] Non sorprende che ad esempio il movimento Occupy, nei primi anni Dieci di questo secolo, abbia ampiamente attinto da quelle analisi. Si veda tra altri Curcio, Roggero 2012.
[12] L’espressione «capacità-umana-vivente» rimanda al lavoro di Romano Alquati (2021). Per una disamina breve di questo testo si veda Curcio 2020.
Riferimenti bibliografici
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R. Luxemburg, Lettere di lotta e disperato amore. La corrispondenza con Leo Jogiches Feltrinelli, Milano 2019.
C. Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, ombre corte, Verona 2010.
A. Picchio – G. Pincelli, Una lotta femminista globale. L'esperienza dei gruppi per il Salario al Lavoro Domestico di Ferrara e Modena, Franco Angeli, Milano 2019.
L. Toupin 2014, Le salaire au travail menager. Chronique d’une lutte féministe internationale (1972-1977), les éditions du remue-ménage, Montréal.
C. Valle, La vera teoria è in quello che fai. Intervista a Selma James, in «Machina», DeriveApprodi Roma, 6 aprile 2021, consultato il 20 settembre 2021.
K. Weeks, The Problem with Work: Feminism, Marxism, Antiwork Politics, and Postwork Imaginaries, Duke University Press, Durham (NC) 2021.
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Anna Curcio ricercatrice, saggista e traduttrice militante, ha insegnato e svolto attività di ricerca in Italia, Regno unito e Stati uniti. Attualmente insegna discipline giuridico-economiche nelle scuole superiori. Studia le trasformazioni del lavoro produttivo e riproduttivo nel rapporto con la razza e il genere.
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