top of page

A scuola di cittadinanza



Pubblichiamo un articolo di Michele Mariani che, in vista del referendum dell'8 e 9 giugno, mette in luce le problematiche relative all'ottenimento della cittadinanza per le persone con background migratorio e ragiona sulle politiche scolastiche attuate dal governo Meloni in merito, una battaglia culturale e ideologica che la destra sta combattendo.


***


L’articolo vuole mettere in luce le problematiche relative all’ottenimento della cittadinanza in Italia evidenziando l’importanza del referendum, indetto per l’8 e il 9 giugno, per abrogare l’articolo 9 della legge 91/1992. Il referendum ha l’obiettivo di diminuire il criterio della permanenza legale sul territorio, da 10 a 5 anni, per permettere l’accesso alla cittadinanza a tutte quelle persone che non sono considerate «italiane di sangue». L’impossibilità di accedere alla cittadinanza per moltissime persone con background migratorio, che vivono stabilmente in Italia da molti anni o che sono nati e cresciuti nel paese, evidenzia l’incapacità della politica di porsi al passo con i cambiamenti sociali e culturali che attraversano la società. La modifica della legge sulla cittadinanza deve essere assunta come una questione di giustizia, democrazia e inclusione che non può lasciarci indifferenti.

In tale contesto connettere la questione della cittadinanza alla scuola potrebbe essere utile per analizzare come l’istruzione, da una parte, possa essere assunta come strumento per contrastare le discriminazioni, mentre, dall'altra, bisogna tenere in considerazione che l'impossibilità di accedere alla cittadinanza condiziona e rallenta il processo di inclusione scolastica e, in generale, i percorsi di vita delle persone con background migratorio. In conclusione sarà utile riflettere sulle politiche scolastiche messe in campo dal Governo attualmente in carica. Dal loro punto di vista, la scuola dovrebbe impartire un'educazione di stampo nazionalista in grado di saldare tradizione ed identità. Vedremo come le Indicazioni Nazionali per l'infanzia e il primo ciclo dell’istruzione unite alle Nuove Linee Guida per l'educazione civica, si prefigurano come un attacco nei confronti di un ambiente scolastico sempre più multietnico e rappresentativo del pluralismo culturale che attraversa le nostre comunità sociali.



Scuola e Cittadinanza

Per definire il rapporto che sussiste tra scuola e cittadinanza potremmo far riferimento a tre concetti significativi: persona, diritti, comunità. L’accesso alla scuola come alla cittadinanza non sono né un premio, né un merito, ma diritti che spettano ad una persona in quanto parte di una comunità. Una pretesa di riconoscimento e un diritto di appartenere che non dovrebbe essere negato o usato strumentalmente per escludere. 

Da insegnante credo che la scuola abbia tutto il potenziale per rappresentare uno spazio in cui si pratica la democrazia e la libertà, dove i corpi e le voci di tutti i protagonisti della relazione didattica contano. Come afferma bell hooks «a scuola e all’interno delle aule, condividiamo e partecipiamo, siamo tutti in ballo, esprimiamo la nostra unicità e riflettiamo le nostre esperienze di vita. La scuola dovrebbe essere il luogo del riconoscimento, dell'inclusività e della multiculturalità». Per questo intendere l’educazione come una pratica di libertà e la scuola come spazio di discussione orizzontale ci potrebbe aiutare a capire che i processi di insegnamento e apprendimento, se volti a creare e a generare consapevolezza delle dinamiche sociali e a stimolare il pensiero critico, hanno la potenzialità di abbattere quegli stereotipi e pregiudizi con cui costruiamo i nostri schemi mentali.

La scuola italiana, però, non sembra ancora essere pronta per chi ha origini straniere e, ancor meno, per chi ha una cittadinanza diversa e resta quindi escluso da molte opportunità e possibilità di scelte. Le classi sono sempre più multiculturali, ma la scuola italiana nel complesso fatica ad essere pienamente inclusiva, finendo per creare svantaggi soprattutto nei confronti di chi non ha accesso allo status giuridico di cittadino italiano.

Le scuole, in particolare quelle dell’infanzia e le primarie, come mostra la ricerca di Openpolis sulla povertà educativa, sono in Italia uno dei luoghi pubblici più capaci di dare significato alla parola accoglienza. Al tempo stesso non possiamo nascondere il fatto che le percentuali di dispersione scolastica raddoppiano per figlie e figli di famiglie immigrate. Secondo le statistiche del rapporto «Il mondo in una classe. Un’indagine sul pluralismo nelle scuole italiane» gli alunni con background migratorio e gli italiani senza cittadinanza oggi affrontano maggiori difficoltà nei percorsi scolastici rispetto ai coetanei. Ostacoli che è necessario conoscere e superare, per creare una scuola aperta e inclusiva, come afferma l’articolo 34 della Costituzione. 

Detto ciò, l’Italia garantisce a tutti e tutte questo diritto di appartenere, è un paese sicuro in cui è possibile esercitare i propri diritti, l’istruzione è un diritto accessibile? La scuola è veramente inclusiva e costruttrice di comunità o è un altro spazio di stratificazione, diseguaglianze e discriminazioni? In Italia il razzismo è un problema che può essere relegato a dei rigurgiti di una «minoranza silenziosa» o è largamente diffuso, incentivato dalle istituzioni e per questo motivo, sistemico? Il razzismo può essere individuato come una strategia politica funzionale a costruire comunità d'identità collettive in cui si sedimentano narrazioni simboliche e rappresentazioni del mondo suprematiste e potenzialmente distruttive?



La scuola in numeri: un quadro generale sulla presenza di studenti con background migratorio. La scuola è veramente inclusiva?

La scuola riesce effettivamente ad essere inclusiva o rappresenta un altro luogo di stratificazione, marginalizzazione e discriminazione?

Nelle scuole italiane un sempre più alto numero di ragazzi e ragazze iscritti ha un background migratorio, e buona parte di loro è nata in Italia. Per quanto riguarda il censimento scolastico nelle scuole italiane sono presenti 914 mila alunni e alunne con cittadinanza non italiana, pari all’11,2% degli iscritti nelle scuole del paese. Il 65% di questi è nata in Italia (2 studenti su 3) ma molti di loro non possono accedere alla cittadinanza fino a 18 anni.

Da questo punto di vista la regolarità del percorso scolastico è una delle dimensioni di analisi attraverso cui valutare l’integrazione formativa e sociale degli studenti di origine migratoria. Il ritardo degli studenti con cittadinanza non italiana è spesso conseguente a inserimenti in classi inferiori a quelle corrispondenti all’età anagrafica, a cui si aggiungono lungo il percorso i ritardi dovuti alle non ammissioni e ripetenze. Le informazioni sull’età anagrafica degli studenti con cittadinanza non italiana e la classe frequentata permettono di ricostruire un quadro puntuale della situazione. Nell’a.s. 2019/2020 l’82,3 per cento degli studenti stranieri con 10 anni di età frequenta regolarmente la quinta classe di scuola primaria, il 12,6 per cento ha un anno di ritardo, l’1,3 per cento ha accumulato due anni e oltre di ritardo. A 14 anni, corrispondenti alla frequenza della prima classe di secondaria di II grado, la percentuale degli studenti di origine migratoria con percorso di studio regolare si ferma al 61 per cento, mentre il 37 per cento frequenta ancora una classe di scuola secondaria di I grado; il 29,4 per cento è in ritardo di un anno, il 6,6 per cento di due e l’1,0 per cento di tre anni. All’età di 18 anni la percentuale di studenti regolari scende al 39,5 per cento contro il 60,5 per cento in ritardo: si va dal 3,3 per cento dei diciottenni che frequenta il primo anno di secondaria di II grado al 31,9 per cento che frequenta il quarto anno. Nell’arco dei cinque anni di secondaria di II grado quindi gli studenti in regola passano dal 61 per cento al 37 per cento. Il percorso scolastico delle studentesse è relativamente piú regolare rispetto a quello dei ragazzi.

Questi dati da cui partiamo in classe quando trattiamo l’argomento sulla cittadinanza, balzano all’occhio di studenti e studentesse, loro mi dicono che «dovrebbe farci comprendere quanto serva una riforma che metta al centro il criterio dello ius soli come condizione principale e necessaria».

La continuità dei percorsi di studio non è uguale per tutti e l’inserimento dei minori con background migratorio nelle scuole del nostro paese è reso ancor più difficile da una legge sulla cittadinanza restrittiva e anacronistica che limita i diritti e le opportunità di molti alunni nati e/o cresciuti in Italia. Gli studenti e le studentesse con cittadinanza non italiana sperimentano percorsi diversi rispetto ai loro compagni di classe: incontrano, ad esempio, maggiori difficoltà per partecipare a una gita o a un soggiorno educativo all’estero o a una competizione sportiva. I problemi poi proseguono anche oltre il percorso scolastico, una volta maggiorenni, ad esempio per l’accesso all’Università o ai concorsi pubblici: le limitazioni imposte nei criteri di accesso si intrecciano ai tempi e alle difficoltà che in molti casi i giovani incontrano nella procedura di richiesta della cittadinanza italiana. 

Per cambiare punti di vista e discostarci dalla narrazione dominante è necessario recuperare i tre pilastri che legano scuola e cittadinanza – persona, diritti e comunità – per specificare che, quest’ultima è parte integrante del concetto di uguaglianza poiché comprende l'elemento civile, politico e sociale. Il primo è alla base della libertà individuale, il secondo è alla base del diritto di partecipare all'esercizio del potere politico, e, il terzo per rendere effettivo l'accesso ai servizi pubblici e una garanzia per un livello accettabile di assistenza e previdenza sociale. Abbiamo bisogno di una cittadinanza che metta al centro la persona, a prescindere da origini e provenienza. Ciò significa comprendere che i diritti fondamentali superano i confini della geografia politica.

Dunque, l’importanza di accedere alla cittadinanza e della scuola in generale come veicoli di partecipazione democratica sono elementi che vanno considerati l’uno la conseguenza dell’altro. Rappresentano due questioni che hanno la capacità di restituirci dei dati reali sulla vita sociale e fotografano inoltre quanto le decisioni politiche dei governi, attuale e di quelli precedenti, non riescono a stare al passo con i tempi e con i cambiamenti demografici, sociali, economici, politici e culturali. 

La distanza dal sentore sociale e dal paese reale rispetto ai proclami propagandistici della politica istituzionale, che afferma che la cittadinanza si deve meritare, è visibile anche nel ruolo che può svolgere lo strumento referendario come metodo di partecipazione e come cassa di risonanza per questioni che sistematicamente vengono lasciate ai margini dalla politica. 

Portare la questione della cittadinanza in classe ci permette di partire dalle esperienze di vita di ragazzi e ragazze che sentono sulla loro pelle gli ostacoli che si frappongono tra formalità e sostanzialità dei diritti. Ci fa comprendere cosa significa accedere e partecipare alla comunità. Parlare di cittadinanza nelle classi serve anche e soprattutto per scardinare quella propaganda, in cui tutti ci ritroviamo immersi, consapevolmente e inconsapevolmente, che vedrebbe dell'italianità un principio sotto attacco e da difendere. È proprio la scuola il luogo da cui bisogna partire per diffondere un'idea di cittadinanza nuova e inclusiva che non lasci indietro le diverse soggettività e per comprendere le numerose casistiche e requisiti che ostacolano l'accesso alla cittadinanza. 



Riflessioni sulla legge per l’ottenimento della cittadinanza 

La volontà di non promuovere una riforma che estenda la cittadinanza tramite lo ius soli è un elemento che nel corso degli ultimi anni è stato condiviso da molte forze politiche. Le proposte di riforma, arenatesi in Parlamento, hanno dimostrato l’incapacità delle istituzioni di mettere al centro chi subisce sulla propria pelle l’esclusione. La strenua difesa dell'idea di un’italianità di sangue ha costretto alla marginalizzazione sociale più di 2 milioni e mezzo di persone, nonostante la spinta data dalla società civile per promuovere un’altra idea di cittadinanza che metta al centro la persona, i diritti e la comunità. 

La legge 91/1992, che disciplina i criteri per l'ottenimento della cittadinanza, quando fu sottoscritta nacque già superata, poiché presentava e presenta un’idea di appartenenza alla comunità basata su un principio nazionalistico e sul criterio di discendenza (ius sanguinis).

Essa potrebbe rientrare nell’alveo degli esempi di razzismo sistemico. Definire il razzismo «sistemico» significa riconoscere che la legislazione, le politiche e le prassi istituzionali, il discorso pubblico e la narrazione mediatica, gli atti e i comportamenti sociali compongono un sistema interdipendente che alimenta, produce e riproduce discriminazioni, distinzioni, esclusioni, restrizioni, preferenze e violenze dirette e indirette, esplicite o implicite, intenzionali o meno, che hanno un movente razzista.

La normativa sulla cittadinanza ha costruito, fin dall’inizio, un impianto giuridico non in grado di rispecchiare le trasformazioni sociali e culturali che già nel 1992 erano in atto. Da questo punto di vista ci sono due aspetti problematici riguardo all’ottenimento della cittadinanza.

Da una parte, l’Italia è il paese europeo che concede più cittadinanze seguendo il criterio della discendenza e non il legame con il territorio. Le conseguenze ricadono sulla partecipazione politica e sociale di tutte quelle persone che vivono stabilmente in Italia da anni, ma che non possono accedere ai diritti politici e sociali. Buona parte di coloro che oggi accedono alla cittadinanza non si trova nel paese, non né conosce la lingua, la cultura o la storia e non è interessata a votare. 

Dall’altra l’Italia ha una normativa interna tra le più rigide del continente europeo che finisce per escludere centinaia di migliaia di italiani di fatto privandoli dello status di cittadino a cominciare dai minori nati e cresciuti in Italia che ammontano a più di un milione e mezzo. La legge sulla cittadinanza è una barriera all’integrazione giuridica e all’inclusione sociale e politica, poiché nel tempo dell’attesa si concretizzano esclusioni e forzate rinunce, soprattutto nei percorsi formativi e professionali. 

Vi è un altro problema strutturale. I dibattiti e le proposte finora elaborate sulle possibili riforme, hanno escluso il più delle volte le voci di chi è interessato in prima persona, finendo per ridursi a scontri politici di fazioni interessate solo ad ottenere il consenso elettorale. I diritti negati fin dalla tenera età, come la non possibilità di prendere la parola, provocano fenomeni di ghettizzazione ed esclusione che finiscono per consolidare le diseguaglianze socio-economiche.

La cittadinanza italiana è stata sistematicamente confusa con una presunta idea di italianità che deriverebbe da un insieme di caratteri identitari nazionali. Questi vengono rintracciati a volte nella lingua, nella cultura o nelle tradizioni, ma non sono rari casi di esplicita razzializzazione della nazionalità, per cui sarebbe italiano solo chi può vantare una discendenza tutta italiana o possegga quei tratti somatici «giusti». Questa interpretazione confonde l’accesso allo status giuridico, come diritto che deriva dall’essere parte di una comunità, collegandola, invece, a una presunta idea di assimilazione culturale o, peggio, ad una appartenenza che deriverebbe da una linea del colore specifica. La motivazione razziale per cui le destre sono restie a riconoscere la cittadinanza agli immigrati lungo-residenti, o ai loro figli nati e cresciuti nel territorio è ripiegata su un pacchetto di requisiti, oltre a quelli economici e di residenza, e su una condivisione di radici e valori – cristiani, occidentali o europei – rispetto al quale gli stranieri sarebbero estranei. Il popolo, secondo questa interpretazione, assumerebbe i connotati di uno spirito assoluto di natura hegeliana, una totalità statica e immutabile che si manifesta e si riproduce nella storia.  



La battaglia culturale e ideologica della destra: tra educazione e identità

L'esibizione e la rivendicazione di discorsi, retoriche e pratiche discriminatorie è una prassi sempre più diffusa nelle società occidentali e in una parte sempre più importante delle istituzioni politiche.

I discorsi d'odio, xenofobi e razzisti costruiti ad arte, per escludere e mettere al bando chi è percepito come «diverso», sono stati un «utile» strumento per i movimenti e i partiti di estrema destra per catturare il consenso e per imporsi a livello elettorale.

In Italia nel corso degli ultimi anni si è preparato un terreno fertile e funzionale atto a far ricadere tutti i problemi di natura sociale su persone migranti, stranieri e italiani senza cittadinanza.

Per provare a spiegare come mai la xenofobia si ri-acutizzi in certi periodi storici conviene considerare la funzione identitaria che essa svolge. In periodi di smarrimento, il diverso e l'altro da me vengono percepiti come una minaccia all'ordine e alla fragile identità degli autoctoni. La xenofobia diventa un dispositivo che permette di risolvere la crisi d'identità che attraversa le società occidentali. In Italia sembra essersi creato un sostrato sociale funzionale a saldare un razzismo istituzionale con uno popolare spalleggiati da una narrazione mediatica pervasiva che si muove per mezzo di parole d'ordine e teorie complottiste reazionarie, al cui centro vi è la teoria della sostituzione etnica. La teoria, che prende le mosse dal Piano Kalergi, è stata a più riprese citata dagli esponenti del Governo e si basa sulla credenza che esista un piano d'incentivazione dell'immigrazione africana e asiatica verso l'Europa al fine di rimpiazzare la cultura, le radici e l’identità dei popoli europei e occidentali.

La scuola e la cittadinanza sono due esempi di come la destra stia portando avanti la sua personalissima e pervasiva battaglia culturale. L’obiettivo del Governo è quello di individuare nella scuola e nella cittadinanza due strumenti funzionali, dal punto di vista culturale e sociale, per riprodurre e modellare una certa idea di italianità.

Nei confronti della scuola il Governo vuole imprimere una svolta importante e mettere al centro un modello di educazione nazionale, conservatrice e autoritaria. Le Nuove Indicazioni Nazionali per il l’infanzia e il primo ciclo d’istruzione unite alla riforma delle Linee Guida dell’educazione civica, rappresentano i primi passi di questa ristrutturazione. Il Governo concepisce una scuola autoritaria che insegna la disciplina e che fa delle differenze un elemento da ostracizzare. La cecità è figlia del fatto che si guarda all’essere italiani come a una categoria statica e biologicamente fondata e rappresentativa di un diritto all’essere italiani basato sul sangue e su caratteristiche somatiche.  

Le Nuove Linee Guida sull’educazione civica e le Nuove Indicazioni Nazionali per l’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione rappresentano dei manifesti ideologici di una destra che si sente forte – anche per il panorama internazionale che si sta configurando – e che vuole lasciare la sua impronta sulla scuola. 

La pretesa di inculcare, con la riforma sulle Linee guida dell’educazione civica, nelle nuove generazioni concetti astratti quali la nazione, la patria e la cultura d’impresa – è un chiaro segnale di cosa deve essere la scuola per questo Governo. I concetti poco sopra richiamati sono altamente problematici poiché relegano la Costituzione a mero documento giuridico privo di significato, e, piuttosto che volgere lo sguardo all’interculturalità mirano al concetto nazionalistico e patriottico di «italianità», in un contesto, quello scolastico, ricco di pluralità e multiculturalità.

Su questo versante la pubblicazione delle nuove Indicazioni per l’infanzia e per il primo ciclo d’istruzione risultano problematiche, poiché sferrano un colpo deciso nei confronti della «scuola inclusiva» – che già arranca e fatica a definirsi multiculturale – dimostrando un disallineamento vistoso con la realtà, con chi vive la scuola, e con i mutamenti sociali e culturali che attraversano ogni quartiere, ogni comune, ogni regione e ogni città da quelle più piccole fino a quelle più grandi. L’idea del Ministero dell’Istruzione e del Merito sulla multiculturalità è chiara e limpida: chi frequenta le scuole deve assimilarsi e conformarsi ai concetti di Occidente, italianità, in cui la storia deve avere una direzione unilaterale, relegando a mero sfondo le molteplici storie di cui è fatta la Storia. Perpetrando il mito degli «italiani brava gente» e cancellando in un colpo solo il colonialismo nostrano, si predilige la tradizione e si contribuisce a cementificare una strada in cui proliferano inevitabilmente pregiudizi e discriminazioni. Il rischio di un’impostazione così rigida è evidente. 

In questo modo si alimenta la convinzione che esista una cultura superiore e fondante, mentre tutto il resto è secondario, eventualmente «esotico». Per citare le linee guida: «Altre culture, altre civiltà hanno conosciuto qualcosa che alla storia vagamente assomiglia (...). Ma quell’inizio è ben presto rimasto tale, non dando vita ad alcuno sviluppo; quindi non segnando in alcun modo la propria cultura così come invece la dimensione della Storia ha segnato la nostra». Questa visione che gli storici, con la svolta negli studi data dalle tendenze della Global History, contrastano da decenni, richiama esplicitamente alla narrazione ripetuta come un mantra: «Se volete essere italiani dovete conoscere la nostra cultura, la nostra storia, la nostra letteratura, capire che l’Occidente è la culla da cui è partito tutto e continuerà ad essere così». Le nuove Indicazioni mostrano una visione chiusa, sulla difensiva, con un bisogno di controllo e disciplina che tradisce una forte sfiducia verso gli alunni, gli insegnanti, la libertà didattica. 



La classe non è un confine escludente

La classe può essere considerata come un fare dialettico in divenire e in continuo movimento, connettivo e generativo di idee, riflessioni, storie e esperienze. Facendo riferimento  al pensiero di Gilles Deleuze e Félix Guattari, «la creazione di concetti fa appello di per sé a una forma futura, invoca una nuova terra e un popolo che non esiste ancora (...). Il divenire è il concetto stesso».

I confini possono essere concepiti come delimitazioni che perpetuano degli schemi sociali e a loro volta frenano la libertà di movimento e di espressione. In poche parole escludono e conservano pratiche e sensi comuni. Tracciano linee di demarcazione tra chi sta dentro e chi sta fuori e sono alla base dell’espressione «altro-da-me» e del concetto di «straniero». 

 La scuola e la classe, come i confini, se amministrati finiscono per edificare barriere e mura invalicabili che pretendono di tenere fuori la diversità. Piuttosto dovremmo percepirli come luoghi di condivisione, di incontro tra soggettività, corpi e voci diverse, e pertanto non possono essere concepiti come statici e immutabili. Se lo facessimo il rischio sarebbe quello di rimanere su un piano antitetico alla trasformazione, in cui le differenze sono ostracizzate, messe al bando e allontanate.

Il suprematismo italiano e occidentale, sbandierati come valori da riportare al centro della scuola e della società, nascondono una visione paranoica riconducibile alla perdita di centro di una presunta civiltà superiore, ma smarrita, che va corretta e difesa strenuamente. Questo suprematismo si richiama a dei valori fondativi delle società europee che sarebbero poste sotto attacco da un’ideologia globalista che, allargando i diritti alle comunità marginalizzate, metterebbe a repentaglio le «vere» radici nazionali occidentali. Le estreme destre in fondo sono riuscite a ottenere i consensi facendo leva su questi discorsi attuando una maggiore militarizzazione dello spazio pubblico e utilizzando espedienti comunicativi e linguistici che si accingono a difendere l’identità, riabilitando categorie totalizzanti che sono funzionali all’emersione dell’odio e della violenza razziale. Ridurre l’educazione a un concetto ordinatore improntato su una presunta superiorità nazionale e culturale è rappresentativo di una visione coloniale dei saperi e, inoltre, dimostra la volontà di assimilare le altre culture a una prospettiva italocentrica.

Si parla poco di antirazzismo a scuola. Il nostro paese ha ancora molta strada da fare a riguardo, così come contro l’abilismo e per le questioni di genere. La scuola non è esente da episodi di razzismo e questo vale per tutti gli ordini e gradi. Per evitare che certi pregiudizi trovino forza e si sedimentino è molto importante educare e apprendere dalle differenze, mettere al centro il pluralismo, la cura e le esperienze di vita che ci permettono di sviluppare uno sguardo critico ed empatico. Infatti educare e apprendere dalle differenze costruendo una relazione didattica che pone al centro l’inclusione e l’uguaglianza è una pratica fondamentale per costruire una cittadinanza attiva, formale e sostanziale allo stesso tempo.



***


Michele Mariani è insegnante di diritto ed economia politica, filosofia e scienze umane. Dottore in scienze politiche e relazioni internazionali. Si occupa di: movimenti sociali, ecologia politica, socio-politica, scuola e comunicazione politica.

Comments


bottom of page