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Donne, madri, macchine di ri-produzione

Riflessioni di una fantascientista su maternità, sfruttamento e autodeterminazione


Lourdes Grobet, La Briosa, particolare, 1981
Lourdes Grobet, La Briosa, particolare, 1981

Continuano le incursioni di «vortex» nel mondo della fantascienza. Claudia Corso Marcucci riflette su donne e riproduzione tra Passato e Futuro.

 

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Isaac Asimov, nella raccolta di saggi scientifici Passato e Futuro, che descrivono un mondo nuovo, senza guerre, miseria, disparità di genere e razzismo, propone una sua riflessione sul problema dell’oppressione femminile. A suo dire è un peccato che le donne non abbiano le stesse possibilità degli uomini, di questo ne risente anche il progresso dal momento che, invece di usare il 100% delle risorse disponibili, si finisce per  usarne solo la metà: i cervelli maschili.

Il problema per  le donne, è presto detto, è la maternità. Se le donne smettessero di procreare potrebbero essere al pari degli uomini, niente più nove mesi di gravidanza con tutte le conseguenze del caso, niente più allattamento, cura del pargolo, insomma una libertà di agire completa, tutto questo grazie all’invenzione futura di uteri artificiali.

Forse solo una mente maschile poteva giungere a questa conclusione: sebbene alcune possano sperare di procreare senza dover passare attraverso una gravidanza, è anche vero che La Donna non esiste e per questo non possono esistere soluzioni tranchant su una questione squisitamente femminile come la gravidanza e la sua eventuale soppressione. Sono sicura che per molte, se liberata da tutti i connotati sociali e culturali che la società gli addossa, la maternità non sarebbe da abolire ma al contrario potrebbe essere un’esperienza gratificante e gioiosa.

Sappiamo bene però che la tecnologia (che non è ancora così avanzata) in mano a una società maschilista non produce altro che storture e nuove forme di oppressione per le donne, come bene sottolinea Donna Haraway. Sappiamo anche che, da tempo immemore, gli uomini bramano la gestazione per farne strumento di trasmissione lineare di consanguineità o per trasmettere il proprio di patri-monio genetico. Cito a questo proposito l’antropologa femminista Françoise Hérietier:


La valenza differenziale dei sessi e il dominio maschile sono fondati sull’appropriazione da parte del genere maschile del potere della fecondità del genere femminile e ipso facto sul godimento della sessualità delle donne […] più propriamente, appropriazione della capacità delle donne di fare figli per gli uomini, cosa che essi non possono fare. […] La sessualità è quindi il punto tangenziale in cui si annodano o si rinnovano senza sosta tutte le contraddizioni e le tensioni inerenti alla coabitazione di tre elementi: 1. Procreazione; 3. Pulsione sessuale; 3. Piacere nel soddisfacimento della pulsione. Vero nodo gordiano, qui si situano i freni e gli ostacoli più forti per la parità (che non è uguaglianza) dei sessi[1].

 

Si aggiunge a questi tre elementi la società capitalistica e la mercificazione dei corpi di donne e bambini e bambine.

 

Macchine di ri-produzione

Facciamo un passo indietro: se nelle epoche pre-capitalistiche le attività di riproduzione erano, appunto, la ri-produzione della vita e della specie, con lo sviluppo del capitalismo le donne e il loro corpo diventano vere e proprie macchine di produzione. Il femminismo nero, ci offre, in questo senso alcuni esempi pratici che possono aiutarci. Attingendo dalle esperienze di lotta e resistenza dentro e contro il sistema delle piantagioni da cui scaturirà una ricca  produzione teorica che, appunto, rovescia la negazione storica dell’accesso di uomini e donne resi schiavi alla produzione intellettuale, il femminismo nero è soprattutto un’esperienza e una necessità di sopravvivenza. Esemplare è la storia di Milla Granson, nata schiava in Virginia nel 1816, che imparò a leggere e a scrivere dal suo padrone.  Potè così istituire una scuola clandestina in cui istruire gli altri schiavi e schiave che riuscirono a falsificare la firma del padrone e a espatriare in Canada.

Nelle piantagioni, milioni di donne ridotte in schiavitù con la tratta atlantica, erano considerate alla stregua di merci, sottoposte a lavoro forzato e punizioni corporali. A differenza degli uomini resi schiavi a cui toccava una medesima sorte, le donne non erano solo sfruttate lavorativamente, ma, tornando all’argomento principale di questa riflessione, erano anche «macchine per la riproduzione» biologica della forza-lavoro[2]. Lo stupro da parte del padrone era una costane nella vita delle schiave. Era, al contempo uno strumento di controllo, subordinazione e repressione e un’occasione di sfruttamento riproduttivo. Le schiave erano infatti sempre incinte e poiché la schiavitù si ereditava per via materna, potevano produrre e riprodurre continuamente schiere di nuovi schiavi. I padroni erano ovviamente sollevati dalle accuse di stupro, essendo le schiave non considerate umane, mentre il ruolo degli schiavi maschi e la relativa paternità rimaneva giuridicamente inesistente. Da questa situazione nasce il mito del «matriarcato nero», secondo cui l’assenza della figura paterna o la sua mancanza di autorità sarebbe da ricondurre alla struttura dello schiavismo.

Un altro esempio del ruolo sociale dell’attività riproduttiva delle donne, su di un piano radicalmente differente, è rivestito dal progetto Lebensborn, ideato da Himmler nella Germania nazista.

Scrive Catharine Mackinnon nel saggio La sessualità del genocidio:


Su un enorme striscione a un raduno nazista di massa campeggiava la scritta: «Donne e ragazze! Gli ebrei sono i vostri seduttori!», rivolta palesemente a donne e ragazze tedesche «ariane». Il punto era serbare le donne tedesche «ariane» per gli uomini tedeschi «ariani», creare un pretesto per perseguitare le persone ebree e stigmatizzare la sessualità degli ebrei, uomini e donne, per de-umanizzare ulteriormente il gruppo. [...] L'obiettivo del progetto Lebensborn di Himmler consisteva nel fare in modo che gli uomini tedeschi «ariani» si riproducessero con donne che avessero dotazioni razziali ariane.

Non è ancora chiaro se il programma Lebensborn si occupasse di procurare gravidanze o semplicemente di offrire ospitalità a donne già incinte. Infatti, rimane piuttosto oscuro se le donne facessero volontariamente sesso con i nazisti e fossero dopo calorosamente accolte o avessero la fortuna di capitarvi o se fossero condotte con la forza nelle case di maternità del Lebensborn dopo concepimenti illegittimi; se le donne fossero ingravidate consensualmente o forzatamente, se fossero rapite o abbindolate da promesse romantiche[3].

 

Il progetto consisteva appunto nel reclutare giovani donne, di discendenza o di aspetto ariano, accoppiandole con ufficiali SS per perpetrare la purezza della razza. Lo scopo era creare super bambini di razza ariana pura. Le ragazze ricevevano un sostegno economico e l’assistenza per il parto in speciali cliniche appositamente create.

Molte di queste cliniche furono create in Norvegia, essendo i tratti norvegesi considerati ancora più puri di quelli germanici. I bambini nati dal progetto venivano allevati con tutte le cure ed indottrinati alla fede nazista. Non si hanno certezze sulla volontarietà della partecipazione delle donne al progetto, in quanto la violenza sessuale era ampiamente contemplata dai nazisti.

 

Lavoro d’amore

Negli anni Settanta le femministe marxiste in Italia propongono una lettura critica di Marx e c portano l’attenzione sul lavoro domestico e riproduttivo delle donne. Insieme alle persone nere e razzializzate, le donne erano rimaste fuori dall’analisi marxiana della classe poiché estranee al rapporto di scambio lavoro-salario e dunque allo sfruttamento capitalistico. La critica femminista mette invece al centro dei processi di valorizzazione capitalistica e sfruttamento il lavoro di riproduzione gratuito svolto in casa dalle donne. Non più un lavoro improduttivo, come per il marxismo, un lavoro incapace di eguagliare  la capacità produttiva dell’operaio ma, al contrario, come lavoro immediatamente produttivo di valore che si concretizza nella produzione della merce «speciale» forza-lavoro. Non solo, da questa prospettiva femminista, il lavoro di riproduzione diventa il pilastro dello sviluppo capitalistico: la casa e la maternità ambiti per la produzione della merce e forza-lavoro, la sola in grado di fra funzionare tutto il sistema, il lavoro delle donne per la cura della casa e dell’uomo lavoratore, elementi indispensabile per la produzione/riproduzione della classe operaia. Si intende così demistificare l’idea di «lavoro d’amore» che le donne svolgerebbero in casa per vocazione «naturale», non un lavoro immediatamente produttivo di Valore ma ruolo connaturato all’essere donna.

Silvia Federici nel libro Il grande Calibano, scritto con Leopoldina Fortunati (1984) e successivamente nel libro Calibano e la Strega, indaga la trasformazione del ruolo sociale della donna alle origini del capitalismo, nella fase di accumulazione del capitale. Secondo la teorica, l’accumulazione originaria, quella che nell’analisi marxista crea i presupposti per lo sviluppo del capitalismo, nasce, tra altri, da un evento che solitamente viene lasciato in sordina tanto dalla storia quanto dalla stessa critica al capitalismo: la caccia alle streghe. Nell’arco di tre secoli (tra il XV e il XVIII secolo), decisivi per le sorti della modernità capitalistica, questa ridisegna il ruolo sociale della donna, trasformando tutte le attività connesse alla riproduzione: la procreazione con tutte le attività di cura e salute medica correlate, le relazioni sessuali e quelle familiari e sociali. Con l’avvento del capitalismo, evidenzia Federici, i preesistenti sistemi patriarcali mutano assumendo un nuovo carattere e fondandosi su meccanismi diversi. In questo senso il capitalismo crea nuovi modi di pensare i rapporti patriarcali. Se nell’economia feudale, tanto gli uomini quanto le donne, seppur in ruoli differenti, lavoravano per la sussistenza della propria famiglia e come corvée per quella del signore feudale, con il capitalismo si distingue il lavoro di produzione di merci per il mercato svolto dagli uomini da quello per la riproduzione della specie affidato alle donne, il primo salariato, il secondo no, affidato alle donne per «natura».

 La differenza tra lavoro salariato e non salariato ha giocato un ruolo molto importante nella nuova divisione sessuale del lavoro che accompagna gli sviluppi del capitalismo, in primis una nuova rappresentanza del ruolo del marito all’interno della famiglia: il marito è colui che produce salario e per questo impone, comanda, il lavoro domestico, ne controlla la qualità, i ritmi, la capacità e assume il potere della disciplina sulla donna.[4] È l’uomo che, prende il salario e lo prende anche per il lavoro domestico che la moglie svolge in casa.

È tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento che il lavoro domestico si costituisce nel senso in cui lo intendiamo oggi. Se la rivoluzione industriale aveva portato verso il lavoro salariato un gran numero di donne, che pur percepivano paghe minori rispetto agli uomini (proprio perché «naturalizzate» alla riproduzione), le forme profonde di sfruttamento sul lavoro mostravano alla metà del Diciannovesimo secolo i segni preoccupanti di una crisi della riproduzione, con speranze di vita molto basse e altissima mortalità infantile, che metteva in discussione la stessa produzione/riproduzione della forza-lavoro. È a questo punto che vengono emanate una serie di leggi che escludono le donne dal lavoro salariato e aumentano i salari maschili. Si parla in questo senso di patriarcato del salario[5]: il salario operai che comanda e disciplina il lavoro delle donne in casa. Nasce la figura della casalinga proletaria che si prende cura della casa e del bambino, la famiglia diventa nucleare e si struttura attorno alla figura della donna angelo del focolare.

In aggiunta a ciò, negli anni tra il 1860-70 negli USA, coincidenti con la fine degli schiavitù, inizia una legislazione ferrata contro l’aborto, talmente feroce che alcune donne saranno arrestate anche solo per aver parlato di contraccezione.

 

Ipermaternità neoliberista e la necessità di scardinarla

Nella nuova società neoliberista, dove il desiderio comanda, dove l’io diventa la malattia della natura di per sé efficiente nella sua autoregolazione, il corpo delle donne attraverso le nuove tecnologie, diventa per l’ennesima volta macchina di ri/produzione. Questa volta è il desiderio di uomini e donne di sfruttare altre donne, in larga maggioranza in condizioni economiche e sociali precarie, per il presunto diritto ad avere figli/e. È  la reiterazione nella cultura del narcisismo della volontà patriarcale, patrilineare, della dittatura del diritto di sangue, della volontà di controllare i corpi delle donne, mascherata da libertà di scelta e/o di necessità. Ma la necessità primaria è, in questo caso, quella delle donne che devono sopravvivere nella società neoliberista odierna. Se questa è una scelta. Se questo è un lavoro come un altro.

Non possiamo però neanche lasciare questi temi agli integralisti dell’ipermaterno. È pericoloso e controproducente pensare che la maternità sia la realizzazione della donna, è pericoloso e controproducente pensare anche che oltre la gravidanza l’unico legame che rimane e sempre rimarrà è quello dell’eterno figlio/a e dell’eterna madre. Sebbene sia ideologicamente fondata, questa visione del mondo, come del resto lo è quella opposta, essa è, in certi casi, quasi una reazione alla secolare s-oppressione della maternità da parte del patriarcato. Ma come femministe non dobbiamo cadere nel determinismo. Anche in questo caso, il femminismo nero ci insegna un’importante lezione: la questione della maternità è ed è stata profondamente razzializzata. Le immagini della donna bianca, angelo del focolare e «naturalmente e felicemente madre» si contrappongono a quelle delle donne nere: la schiava domestica sovrappeso, la donna schiava del suo appetito sessuale, la nera aggressiva, in tutti i casi l’opposto della buona madre la cui immagine si riflette nella. Non sorprenderà che nel secolo scorso, al contrario del periodo schiavistico, gli infanticidi e gli aborti clandestini nella comunità nera, erano comunemente risignificati come evidenze di una maternità fallita, mentre, profondamente radicati nel razzismo della società «bene» bianca, che scongiuravano la messa al mondo di nuovi bambini e bambine della comunità nera. Non c’è quindi una retorica dell’ipermaterno universale, uguale per tutte, non c’è neanche una famiglia ideale e neanche patriarcale uguale per tutte. Le vie della nostra oppressione sono infinite e si intersecano con la classe e con la razza.

La maternità dovrebbe essere un fatto neutrale, naturale, della specie donna.

Solo scardinando la nostra oppressione potremmo viverla con autenticità.




Note

[1] P. Cavallari - D. Lupi - G. Villa a cura di, Religioni e prostituzione, VandA Edizioni, 2024.

[2] A. Curcio a cura di, Introduzione ai femminismi, Derive Approdi, Roma 2019.

[3] C. Mackinnon, Le donne sono umane?, Laterza, Roma_Bari 2012.

[4] S. Federici, Caccia alle streghe e capitale, DeriveApprodi, Roma 2022.

[5] Ivi.


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Claudia Corso Marcucci, fantascientista, illustratrice ed educatrice museale, femminista, collabora con centri antiviolenza e organizzazioni contro la tratta e lo sfruttamento sessuale.

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