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La vera teoria è in quello che fai

Intervista a Selma James di Camila Valle



Ripercorrendo l’arco lungo del suo impegno politico e militante, tra i movimenti anticoloniali e la lotta delle donne sul terreno della riproduzione: dal lavoro domestico alla cura, al lavoro sessuale e alle lotte per l’ambiente, e poi la partecipazione alla campagna contro l’incarcerazione di massa negli Stati Uniti e la discriminazione razziale in UK, fino a Black Lives Matter, passando per l’Iinternational Jewish Anti-Zionist movement di cui fu una delle fondatrici, Selma James affronta, in questa intervista, il tema strategico e spinoso della cura e della sua retribuzione, e offre spunti utili per problematizzare un concetto che la crisi pademica ha fatto tornare di attualità insieme alle sue contraddizioni e vicoli ciechi.

Le lotte per il Salario al lavoro domestico che Selma James ha contribuito a costruire attraverso l’esperienza del Collettivo Femminista Internazionale, restano al centro del suo impegno militante anche dopo il 1977, quando il collettivo si scioglie e alcune esponenti di quella stagione politica considerano conclusa l’esperienza. Al contrario James non archivierà mai la campagna WfH. Negli anni Ottanta e Novanta - ci ricorda - le donne nere per il WfH partecipano ai programmi delle Nazioni Unite sulla questione ambientale nel Sud e Nord del mondo. È una nuova declinazione della lotta che apre al rapporto con le istituzioni e assume in termini più ampi il concetto di riproduzione: non più e non solo la riproduzione della forza-lavoro ma la cura (in una traduzione che sappiamo non da conto dell’estensione semantica del care) dell’«intero genere umano». A partire dal 2000 quell’esperienza è confluita nel percorso del Global Women’s Strike che oggi sostiene la campagna internazionale Care Income Now!

L’analisi femminista radicale che Selma James qui sviluppa ripercorrendo la sua lunga esperienza militante, permette di portare in primo piano (forse anche al di là delle sue intenzioni) alcune contraddizioni e limiti intrinseci al concetto stesso di cura e di reddito di cura oggi discussi dal dibattito femminista internazionale. La sua lettura materialista della riproduzione, come imprescindibile spazio dell’accumulazione del capitale, definisce un’idea della classe e del conflitto che permette di interrogare criticamente le dinamiche interne alla cura o almeno alcune di esse, per esempio la questione della responsabilità individuale piuttosto che collettiva, dei rapporti asimmetrici e di dipendenza, la definizione di condizioni di vulnerabilità e finanche forme di controllo, nonché il rischio - quantomeno - della compatibilità capitalistica, ovvero di pratiche che sono funzionali allo sviluppo e riproduzione del capitale (non a caso sottolinea che «la cura conta» ma «la contesa è tra noi e i miliardari»). Ci mette anche in guardia dalle rigidità del pensiero accademico e dell’«avanguardia di sinistra», e ci ricorda, dalla sua prospettiva sempre militante, che «la vera teoria è in quello che fai».

Per questo è estremamente critica con il femminismo che strizza l’occhio al capitalismo e bolla coma «fantasia capitalista» l’dea che la liberazione delle donne passi per l’ascesa ai vertici del potere. Oltre ogni essenzialismo, la prospettiva conflittuale e di lotta che propone è piuttosto quella delle alleanze trasversali che, ci dice, ha appreso da Fred Hampton [a.c.].


L’immagine è di Gil David.


* * *


Volevo iniziare con quello che la maggior parte delle persone conosce come il centro del tuo lavoro: il riconoscimento del lavoro domestico e di cura non retribuito, svolto principalmente (se non quasi esclusivamente) dalle donne. Hai coniato il termine lavoro non salariato negli anni Settanta. A quel tempo, la lotta femminista prese forma nella campagna Wages for Housework (WfH) che hai contribuito a fondare e nella quale sei stata attiva sin da allora. Potresti raccontarci di quell’esperienza e dell’evoluzione contemporanea del WfH?


Quando ho presentato per la prima volta il concetto di salario al lavoro domestico nel marzo 1972, non ero sicura delle implicazioni. Sapevo che il salario per il lavoro domestico era qualitativamente diverso dal salario per le casalinghe, che avevo considerato; si faceva riferimento al lavoro in sé e non veniva identificato necessariamente con le donne, cosa che pensavo - come altri e altre, non ero la sola - fosse cruciale.

Avevo appena finito di studiare il primo volume del Capitale in un gruppo di lettura, come autoformazione, senza un docente. Lì mi resi conto che le donne senza salario riproducono la forza-lavoro, che è la merce base del modo di produzione capitalista, Allora era un’idea nuova.

Un anno dopo, ho fatto un giro di conferenze in Nord America con Mariarosa Dalla Costa e, mentre parlavo con il pubblico (come madrelingua inglese, tenni la maggior parte delle conferenze), cominciai a capire che stavamo sviluppando una nuova visione di respiro internazionale e con un’ottica più complessiva. In altre parole, fino ad allora, la classe operaia era definita come lavoro salariato nel «punto di produzione», e nella formula marxista la classe operaia era l’unica che poteva produrre un cambiamento radicale. Nell’includere le casalinghe e tutti i non salariati stavamo rimodulando il concetto di classe operaia. Questa era una visione antisessista e antirazzista, e vedeva non solo la riproduzione della forza-lavoro ma piuttosto la produzione dell’intero genere umano come mezzo al servizio dell’accumulazione capitalista. L’assunto di partenza era che lavorare per il capitale - con un salario o meno - ti rende partecipe del ruolo della classe operaia, della classe sovversiva.

Sapevo cosa fosse «il punto di produzione». Mia madre aveva lavorato in fabbrica dall’età di dodici anni finché non ebbe figli, e mio padre oltre a guidare autotreni aveva aiutato a organizzare la sede di Brooklyn della Teamsters Union, quindi sapevo ciò di cui parlavo. Ma quella era solo una parte del lavoro: in realtà la maggior parte dei lavoratori, in diverse regioni del mondo e specialmente in quel periodo, erano lavoratori non salariati, per lo più donne ma anche uomini. E le donne sapevano che l’indipendenza passava dall’autonomia finanziaria. Era ciò che permetteva di rompere il rapporto di subordinazione con gli uomini, per molte questa rottura si consumò quando scelsero di lavorare.

Nei paesi industrializzati, oggi, la maggior parte delle donne fa parte della forza-lavoro salariata. Il prezzo però è stato un salario basso e il doppio turno di lavoro: quello, cioè svolto nelle prime ore del mattino, alla sera e nei fine settimana. Volevamo rendere visibile il fatto che quasi tutte le donne al mondo svolgono lavori domestici, fisici, emotivi, sessuali, riproduttivi, insomma lavori di cura. Spesso coltiviamo il cibo che poi mettiamo in tavola per sfamare le famiglie; questo è lavoro non retribuito che mantiene in vita il mondo, perciò deve essere riconosciuto e alle donne spetta un salario.

Così abbiamo deciso di creare un movimento aperto a tutte le donne e, in seguito, abbiamo lavorato con Payday, un’organizzazione di uomini che ha accolto la nostra prospettiva.

Sono cresciuta come una ragazza della classe operaia negli anni Trenta, non molto tempo dopo la rivoluzione sovietica. Il movimento di quegli anni è stato per me folgorante. La classe operaia era attiva dappertutto. Poi, negli anni Sessanta e Settanta, le persone hanno cominciato ad organizzarsi in maniera trasversale alla classe. Il punto era capire come superare i confini di classe senza perdere la prospettiva operaia. I movimenti che si stavano formando - non solo il movimento delle donne, ma anche il movimento nero, il movimento per la giustizia sociale, i movimenti per i diritti delle comunità lesbiche e gay, il movimento per i diritti dei diversamente abili - riguardavano ognuno un settore specifico, ciascuno si raccoglieva intorno a una causa per cambiare la propria situazione. La nostra declinazione di autonomia ci portava a essere unite per porre fine allo sfruttamento e alla discriminazione subita, superando i confini di classe. Tuttavia le divisioni di classe sono rimaste e ogni movimento ha poi dovuto affrontarle al suo interno. Il nostro senso di classe l’abbiamo mantenuto rivendicando dallo Stato il denaro che ci spetta. È quello che ha fatto la campagna WfH. Nessuna di noi era un intellettuale ma tutte potevamo pensare. L’unica teoria di cui avremmo fatto uso era quella del rompere il rapporto di potere tra uomini e donne basato sulla disparità di lavoro e ricchezza. (Marx parlando dell’individuo ha detto: «Il potere sociale, così come il suo nesso con la società, ciascuno lo porta con sé nella tasca» [1]. Aveva ragione, i rapporti nel sistema di produzione capitalista sono mediati dal denaro). Portai questa esperienza anche all’interno della Johnson-Forest Tendency, che si concentrava sull’organizzazione della classe operaia come motore della liberazione umana. Insomma, restammo radicate nelle istanze del riconoscimento del lavoro domestico da un lato, e in quelle della classe operaia dall'altro. Questa contraddizione tra l'interesse di un settore particolare e la prospettiva di classe è ciò che la Campagna WfH ha affrontato con una sua autonomia, a partire dal mio articolo Sesso, razza e classe del 1973 [2]. Abbiamo accolto donne di qualsiasi classe, razza, orientamento, sulla base di una prospettiva operaia di donne che riproducono per prima cosa la forza-lavoro e poi, ovviamente, l'intero genere umano.


In Nord America e nel Regno Unito abbiamo condotto le prime campagne con madri single che rivendicavano il costo del lavoro di cura dallo Stato. Effettivamente fu la prima versione di salario al lavoro domestico; negli Stati Uniti fu la National Welfare Rights Organization guidata da madri nere, nel Regno Unito furono le madri che rivendicavano misure di sostegno al reddito. Quando i governi vollero tagliare i contributi, abbiamo combattuto; quando le donne chiesero aumenti, abbiamo lottato con loro. Il nostro impegno ebbe un certo seguito, per esempio attirò l'attenzione della moglie del capo della Chrysler Europe interessata anche lei a un salario per il lavoro domestico che svolgeva. È stata nella campagna per anni. Ci disse: «Lavoro per Chrysler e non ricevo mai un centesimo, il mio lavoro non è riconosciuto». Con una certa rabbia, una volta ci raccontò che uno dei soci di suo marito le disse – beh, ora sono tutti morti quindi posso parlare liberamente: «Il denaro è sexy», come a voler dire «il potere è degli uomini, non c'è posto per le donne».

Un’altra donna era sposata con un dirigente di un’industria petrolifera minore; una grande donna, molto dedita alla nostra Campagna. Per lei il potere di un’organizzazione che rivendicava denaro per il lavoro non riconosciuto significava demistificare il rapporto con suo marito e con l’industria che tormentava lui, e di riflesso anche lei. Lei era del Texas e viveva a Tulsa in Oklahoma, una città di cerniera tra gli Stati confederati e la Bible Belt, area di importante radicamento del protestantesimo cristiano e del movimento evangelico. Era entusiasta di lavorare alla Campagna insieme a donne nere e sex workers: era una portavoce di No Bad Women Just Bad Laws [3].

Molte donne oggi si considerano femministe, e con questo intendono la consapevolezza della relativa mancanza di potere e una certa opposizione a questo stato di cose. Ma le femministe che fiancheggiano il capitale sono spesso scelte dall’establishment per imporre una particolare definizione di femminismo. Lo stesso vale per la direzione che il movimento ha preso, dirottato dall’immagine delle donne ai vertici. L’idea che le donne siano liberate se alcune salgono al vertice è una fantasia capitalista. Lo stesso vale per le persone di colore e per le questioni riguardanti le identità sessuali e ogni altrp orientamento.


Puoi spiegarci come da qui si arriva oggi al reddito di cura?


Fin dall’inizio abbiamo avuto una prospettiva internazionale, ci interessava varcare i confini nazionali. Abbiamo sempre detto che non importa se lavi i vestiti in riva al fiume o in lavatrice, stai comunque facendo il bucato. Il livello di tecnologia utilizzato, che fa una grande differenza per la vita in città, in realtà occulta il legame fra donne che vivono in contesti diversi, siano essi urbani o rurali, perché maschera l’aspetto che ci unisce e cioè il ruolo di custodi della vita quotidiana, seppur in forme differenti.

Poi c’è la questione dell’ambiente, che le donne nere per il WfH in particolare hanno iniziato ad affrontare negli anni Ottanta e Novanta, con seminari sul razzismo ambientale presso le Nazioni Unite, mettendo insieme le lotte contro la deforestazione, l’estrazione mineraria, la costruzione di argini contro l’inquinamento dell’aria e dell’acqua nelle aree nere segregate del Nord. C’erano strade a Newark, nel New Jersey, che venivano chiamate «cancer Alley» per via del numero di persone affette da cancro (spesso dello stesso tipo) a causa della presenza di uno stabilimento petrolifero. Nel Regno Unito ci siamo opposte ai missili cruise e alle centrali nucleari. Ma non abbiamo colmato il divario tra campagna e città, che dobbiamo affrontare invece se vogliamo cambiare davvero le cose.


Nell’estate del 2019, uno dei partner con cui lavoriamo ci ha suggerito di leggere la bozza del Green New Deal per l’Europa che proponeva un «reddito per la cura delle persone, dell’ambiente urbano e del mondo naturale [a cui noi abbiamo aggiunto quello rurale]». La mia compagna Nina e io ci siamo guardate l’un l’altra sbigottite, tutto ciò poteva chiaramente ricondursi al nostro lavoro. Allora abbiamo deciso di svilupparlo, precisando che erano le donne, a cominciare dalle madri, che avevano svolto la maggior parte del lavoro di cura in tutto il pianeta per realizzare la riproduzione del genere umano, utilizzando spesso anche le risorse del suolo. Naturalmente, per noi il reddito di cura non può che essere globale.

L’idea fu accolta dalla nostra rete internazionale perché permetteva di riunire il movimento per la sopravvivenza delle diverse forme di vita sulla terra con l’idea più complessiva della nostra liberazione. Avevamo già contatti con i movimenti di Haiti, India, Irlanda, Perù, Thailandia e Uganda, e sembrava all’inizio che ci fossero due movimenti, seppur convergenti: uno per l’ambiente e l’altro per la cura delle persone. Ma queste era solo la percezione dalla città, soprattutto nel Nord globale. Nel Sud si sa che è un movimento solo.


Questo mi conduce facilmente alla prossima domanda, che riguarda il tuo impegno contro l’imperialismo. Hai vissuto nelle Indie occidentali con CLR James, dove eri attiva nel movimento per l’indipendenza e per la federazione delle isole anglofone; sei cresciuta in una famiglia ebraica anti-sionista; hai lavorato e scritto sui movimenti in Venezuela, Haiti e Tanzania. Come si tiene insieme tutto questo?


Sono parti di un tutto. Nel 1958, quando CLR si recò nei Caraibi per l’apertura della nuova Federazione delle Indie Occidentali (West Indian Federation), gli chiesero di restare. Mi chiese cosa io ne pensassi e gli dissi che per me andava bene, cosi decidemmo di rimanere tutti e tre (c’era anche mio figlio piccolo). La società era molto diversa e io volevo capire come funzionavano li il capitalismo e il movimento anticapitalista. Per prima cosa, ho visto il lavoro che facevano le donne. E poi ho visto come si relazionavano con il movimento politico – questo mi ha aperto gli occhi. La Lega delle donne del Movimento nazionale popolare di Trinidad e Tobago mi invitò a parlare di me e della mia vita. Ero la moglie del direttore del giornale del partito nazionalista e lavoravo anche io al giornale. Dopo aver parlato, mi rivolsi a loro dicendo: «E adesso parlatemi di voi, delle vostre vite». È stato come un fiume in piena, tanto avevano da raccontare. Una donna descrisse – non lo dimenticherò mai – cosa aveva dovuto fare per venire a quell’incontro: «Ho preparato la pentola del carbone, ho preparato la carne, ho preparato il riso, e ho detto a mio marito: “Prendo l’autobus delle 8 che va in città. Questo è quello che devi fare per i bambini”. E ho aggiunto: “Devo andare a questa riunione. È per la nazione”». Ogni volta che voleva andare a una riunione, gli diceva: «È per la nazione». Nessuno ha mai tenuto conto che anche questo faceva parte del movimento per l’indipendenza. Siccome erano donne, poteva essere trascurato.

Anni dopo, in Venezuela, con Hugo Chávez che voleva cambiare tutto, mi resi conto del ruolo che le donne avrebbero potuto avere nel movimento per l’indipendenza dei Caraibi. Chávez consegnò alle casalinghe la responsabilità di sviluppare i servizi sociali necessari: le mense per i poveri, le cliniche con i medici cubani, gli atti di proprietà delle case che le persone costruivano sulle colline intorno alla capitale, le classi di alfabetizzazione per adulti, per citarne alcuni. Quando lo Stato che Chávez aveva ereditato non fu più in grado di svolgere quel lavoro, le donne presero l’iniziativa con entusiasmo, spesso facendo gratuitamente ciò per cui lo Stato avrebbe dovuto pagarle. È stata una rivoluzione, e per sostenerla abbiamo anche realizzato dei film, con riscontri entusiasmanti. I governi caraibici non hanno fatto nulla di tutto questo [4].

Successivamente, quando avemmo la fortuna di incontrare Noreen e Ralph Ibbott Julius Nyerere in Tanzania, che avevano vissuto per anni nell’Africa rurale e si erano dedicati rispettivamente all'antiapartheid in Rhodesia gli uni, e all'ujamaa in Tanzania l'altro, capii meglio i rapporti di potere tra i governi e le persone nei paesi di nuova indipendenza.

Nyerere era anticapitalista e proponeva la strategia degli ujamaa (villaggi autogestiti che lavoravano collettivamente nel modo tradizionale africano) con due differenze: in primo luogo, gli uomini devono lavorare di più (a questo proposito lui stesso disse «[vivono] in vacanza per metà della loro vita» mentre le donne: «lavorano più duramente di chiunque altro in Tanzania»); secondo, la necessità di approntare un aggiornamento delle tecniche agricole. Questo ridusse la mortalità infantile nei diciassette villaggi ujamaa della Ruvuma Development Association e la violenza domestica praticamente cessò [5].

Nel movimento per l’indipendenza, la maggior parte delle persone in posizioni di leadership vedeva l’indipendenza come una scalata per il successo. La base, invece, la vedeva come una possibilità per sprigionare le energie necessarie al cambiamento (benchè fosse scettica riguardo alla direzione della leadership). Ho visto la lotta per la Federazione delle Indie Occidentali distrutta dall’ambizione della nuova classe dirigente – quella classe che poi divenne Stato, sostituendo gli inglesi.

Nyerere disse che l’indipendenza era «l’obiettivo preliminare» (il corsivo è mio), da cui poi costruire la società desiderata. Queste parole mi servirono per rivedere tutta la mia esperienza nelle Indie occidentali, a cominciare dalla disastrosa sconfitta della Federazione. L’indipendenza era diventata l’unico obiettivo dei leader. È stata una lezione che ho preso a cuore. Nelson Mandela trascorse ventisette anni in prigione. Una volta uscito, il suo governo e la sua famiglia diventarono milionari e i bianchi mantennero i loro soldi, le loro leggi, le loro case e i loro servi. Dopo l’indipendenza, gli imperialisti riacquistarono la via al potere attraverso le ambizioni dei leader. Fu un disastro e fu profondamente demoralizzante.

Quando sono arrivata per la prima volta a Trinidad, ho visto una piccola comunità e ho sentito che il movimento avrebbe potuto produrre facilmente grandi cambiamenti. In fondo non importa quale sia la dimensione della comunità, hai sempre a che fare con certe tensioni. Le istituzioni che si formano e le personalità che le gestiscono manifestano tipologie e atteggiamenti comuni ovunque, guidate dai soliti interessi. La maggior parte dei leader che raggiungono la vetta in virtù del movimento, una volta al potere, reprimono poi quel movimento cui dovrebbero essere debitori. Quelli che non si attengono a questo schema vivono sotto costante minaccia come accadde a Fidel Castro, Nyerere e Chavez. Altri, come Lumumba, furono assassinati.

In nessun luogo questo è stato più vero che ad Haiti, dove gli Stati Uniti e la loro rete di ONG hanno imposto dittature sanguinarie e governi fantoccio. Nel 2011 sono stata invitata ad Haiti per accogliere Jean-Bertrand Aristide e sua moglie, nonché collega, Mildred Trouillot, di ritorno dall’esilio, dopo che il colpo di Stato guidato dagli Stati Uniti del 2004 lo aveva rimosso. Abbiamo scoperto che gli Aristide, come Nyerere, non avevano ambizioni personali ed erano profondamente dediti al movimento di base: questo, ovviamente, è il motivo per cui erano stati rimossi.


A questo punto tocca menzionare il sionismo. Conoscete già gli argomenti: Israele è uno Stato di apartheid e fa parte del blocco imperialista occidentale che si autoproclama «mondo libero». Però Israele è anche lo Stato che si schiera con il genocidio dei Rohingya a Myanmar e fornisce armi a ogni regime repressivo. Marek Edelman, uno dei leader della rivolta del ghetto di Varsavia, ha riassunto perfettamente la cultura nella quale sono cresciuta e che mi appartiene: «Essere ebreo significa essere sempre con gli oppressi e mai con gli oppressori». Non possiamo permettere che Israele ci allontani da quella tradizione. Noi siamo parte del movimento palestinese – Palestinian lives matter.


Voglio concentrare le ultime due domande sulla militanza, perché penso che i tuoi scritti siano più di ogni altra cosa strumenti di organizzazione. Due lotte che vedo perdurare nel tuo lavoro sono quella per l’abolizione del carcere e quella per i diritti delle sex workers. Hai anche contribuito a chiarire i nodi e i modi in cui questi argomenti sono legati fra loro, e cioè, attraverso una linea che interseca criminalizzazione, ruolo della polizia e dello Stato, razzismo, sessismo, misure di austerità e crisi economica, e così via.

Se non ti dispiace, comincerei con il primo argomento. So che sei amica di Mumia Abu-Jamal da molti anni e che hai fatto parte del movimento per la sua liberazione dal braccio della morte, così come ha partecipato ai movimenti contro la pena di morte più in generale. Hai scritto sulla questione delle donne in carcere e sul restringimento delle libertà, temi che fanno parte della tua prossima antologia di scritti. Questo e un lavoro di lungo corso, ma penso che adesso, soprattutto nel contesto del movimento Black Lives Matter, la lotta contro la polizia e il sistema carcerario sia diventata una coscienza popolare diffusa, con molte persone che giungono a conclusioni piuttosto radicali su come funziona la società. Puoi dirci di più a riguardo?


In primo luogo, grazie per aver riconosciuto che la mia scrittura ha nei suoi obiettivi quello di fornire strumenti organizzativi. La maggior parte di questi strumenti proviene direttamente dalle lezioni apprese durante le fasi dell’organizzazione e la speranza è che possano essere d’aiuto anche ad altri. Anche perché spesso le persone sono fuorviate da strutture e restrizioni che provengono dal mondo accademico o dalla «avanguardia» di sinistra, o da entrambi. Si passano ore infinite a discutere di «teoria» quando, in ultima analisi, la vera teoria è in quello che fai e come lo fai, con chi e contro chi.

Mumia è un uomo straordinario: da adolescente parlò al funerale di Fred Hampton e poi riportò fedelmente come la comunità Move, una comunità veramente multirazziale e alternativa, fu oggetto di una violenta repressione [da parte della polizia]. Sapeva che la sua attività di giornalista [d’inchiesta n.d.t.] gli sarebbe costata una condanna ma non si fece intimidire né dalla pena di morte né dal duro isolamento che ha subito.

È una persona straordinaria. Farei qualsiasi cosa per Mumia, proprio come farebbero molti che lo conoscono. Lavorando con lui alle modifiche del suo libro Jailhouse Lawyers, ho scoperto quanto i detenuti conoscessero le nervature dello Stato in tutti i suoi strati; i prigionieri vivono con lo Stato guancia a guancia[6]. Alcuni anni fa, partecipai a un laboratorio del Left Forum di Detroit con persone che erano state in carcere e li trovai anni luce avanti: erano i più consapevoli riguardo alla necessità di lavorare con altri movimenti di lotta.

Questi temi non erano nuovi, alcuni di noi negli Stati Uniti e nel Regno Unito avevano lavorato contro l’incarcerazione di massa, l’isolamento, l’ergastolo senza condizionale, la guerra alla droga – tutta questa tortura sadica, razzista, sessista e lucrativa. (Nel Regno Unito, l’isolamento è stato difeso, persino glorificato, dal Royal College of Psychiatrists [7].) Ma quando ci furono gli scioperi dei detenuti statunitensi, la cosa più straordinaria fu che le persone che iniziarono lo sciopero della fame per sessanta giorni fecero questa dichiarazione: «le ostilità tra i nostri gruppi di varia identificazione razziale avranno fine». E lo hanno fatto. Sono riusciti in qualche modo a comunicare in isolamento – non ho idea come – e a studiare i libri di Bobby Sands e Nelson Mandela – detenuti a loro volta, oppure A People's History of the United States di Howard Zinn. Uno dei leader della protesta fu proprio un suprematista bianco che decise poi di cambiare rotta. Tutti loro dissero alle famiglie che li sostenevano dall’esterno di lavorare insieme per superare le differenze. È stata una svolta importante, anche se non sono sicura che tutti abbiano apprezzato. Detenuti ed ex-detenuti hanno fornito a tutti noi un modello di leadership. Quello che hanno fatto, richiama alla mente Fred Hampton e la sua intuizione di adottare politiche trasversali come strategia politica.

Le donne in carcere hanno problemi diversi da quelli uomini. Spesso dalla prigione gestiscono una famiglia, si danno da fare per i figli (se mangiano, se sono protetti) e magari si occupano anche della madre malata. Gli uomini non portano questa responsabilità con sé in ogni luogo come fanno le donne. Le donne sostengono gli uomini che sono dentro; sostengono anche le donne che sono dentro e spesso si prendono cura dei loro figli, ostacolando cosi ulteriori coercizioni da parte dello Stato. Ancora una volta, le donne sono il fulcro del lavoro di cura.

E sì, Black Lives Matter significa tanto e in molti, moltissimi luoghi. Da Haiti alla Palestina ha dato forza ai movimenti per la giustizia e contro gli omicidi di Stato, come per esempio in Honduras e in Thailandia, dove gli attivisti per i diritti umani sono target degli interessi delle corporation perché difendono le popolazioni indigene e il diritto alla terra dei piccoli agricoltori.

Women Against Rape nel Regno Unito ha sede presso il nostro centro per le donne, perciò siamo al corrente dell’enorme crisi che il movimento anti-stupro sta affrontando in tutto il mondo, sia nelle città sia nei villaggi. La polizia si rifiuta di perseguire gli stupratori (e alle volte sono essi stessi gli stupratori). Il tasso di condanne per stupro denunciato nel Regno Unito è inferiore all’1 percento! Lo stesso vale per la violenza domestica.

Ho chiesto a caro amico, attualmente detenuto, Maroon Shoats e a un paio di suoi compagni quale sorte secondo loro dovrebbe toccare agli stupratori seriali. Erano tutti per la pena detentiva. Ciononostante sono spesso le donne che si difendono da sole ad avere maggiori probabilità di finire in prigione!

Naturalmente, l’incarcerazione di massa e le prigioni nella loro forma attuale devono essere abolite. Siamo tutti a conoscenza dell’esistenza di criminali di guerra, assassini, stupratori e miliardari che gestiscono paesi e corporation che godono della protezione degli eserciti. Sono loro che dovrebbero finire dentro, gli unici, finché non ci saremo liberati dal loro potere.


Sei stata parte dell'English Collective of Prostitutes (Ecp) a Londra a partire dagli anni Settanta. Ci puoi parlare di quell'esperienza?


Sono stata la prima portavoce quando l’Ecp è stato formato all’interno della campagna WfH. Nessuna delle donne poteva apparire pubblicamente, così chiesero a me. Ero «rispettabile» e mi stava a cuore saperne di più. Quando poi le prostitute divennero visibili e protagoniste, gran parte del femminismo si mostrò ostile. Alcune lo fecero anche attaccando le donne trans e fiancheggiando così la destra religiosa. Una cosa preoccupante. Allo stesso modo, dobbiamo affrontare i suprematisti maschi di estrema destra (principalmente bianchi ma non solo), che negano il problema della violenza domestica e usano i tribunali per continuare a imporre la loro volontà su donne e bambini. Hanno il sostegno dello Stato, compreso quello di assistenti sociali e giudici. È un vero problema.


Uno degli argomenti che il Collettivo inglese di prostitute ha sempre sostenuto è che ci sono milioni di donne che non sono sex workers, la cui vita sessuale però è guidata da considerazioni economico-finanziarie – la maggior parte delle donne, in effetti.


La povertà e il lavoro di cura non salariato sono problemi nevralgici per le donne. Non a caso la maggior parte delle sex workers sono madri single, in Inghilterra come in Thailandia. Il problema più immediato per le prostitute, in tutto il mondo. oltre alla povertà è la depenalizzazione. Il movimento delle sex workers è così potente e pervasivo che anche Amnesty International ha adottato la politica della depenalizzazione, una vittoria straordinaria.

L’Ecp, i Pros statunitensi e l’Empower lavorano molto su casi concreti, rivendicando denaro, servizi e diritti. Devi lottare per ogni diritto e per l’esercizio del diritto nelle sue forme, così come per ogni centesimo che è tuo di diritto o che vuoi far valere. Questo si può applicare in ogni campo.

Negli Stati Uniti, il Global Women’s Strike, coordinato dalla campagna WfH dal 2000, si è concentrato sulla legislazione che eroga denaro direttamente nelle mani delle donne. Ad esempio, Gwen Moore e Marcia Fudge (Congressional Black Caucus) hanno introdotto nel Worker Relief and Credit Reform Act una ridefinizione del lavoro che include la cura e l’istruzione, e prevede lo stanziamento di denaro sia per madri sia per studenti con un reddito minimo o nullo. Forse non è molto, ma è un inizio.


Durante le elezioni statunitensi, abbiamo formato l’Election Action for Caregivers per evidenziare i progetti di legge per cui valeva la pena votare. Ci siamo anche mobilitate con la campagna a favore di chi è in condizioni di indigenza, un movimento rivoluzionario a cui hanno aderito in tanti (milioni). Ha il pregio di mettere insieme le persone che lottano contro il razzismo sistemico, la povertà, il militarismo e la devastazione ecologica: viene definita una sorta di fusione. E il reddito di cura è diventato parte della loro Jubilee platform.

Un reddito di cura aumenterebbe lo status e il potere di chi si prende cura delle persone e del pianeta, e per questo motivo ci troviamo a lottare contro coloro che vogliono mantenere il potere nelle proprie mani o nelle mani dei propri padroni. Con la pandemia e l’emergenza climatica, tutti sanno che la cura conta. Ma una cosa è vincere la discussione, un’altra è vincere la lotta. La contesa è tra noi e i miliardari.

Organizzarsi per il cambiamento in settori particolari da un lato e, dall’altro, unificarli in una piattaforma ampia a livello internazionale, credo sia la questione politica centrale del nostro tempo.



La traduzione è di Carmen Caruso. Si ringraziano le autrici per il permesso di ripubblicare.

Camila Valle, femminista, curatrice, traduttrice e scrittrice, vive a New York.


Note [1] K. Marx, Il denaro come rapporto sociale, in Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, V. I, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 97 [2] Sex, Race and Class è stato pubblicato per la prima volta «Race Today», gennaio 1974. [3] Le attività di No Bad Women si svilupparono in prossimità di quelle delle Black Women for Wages for Housework e della campagna per la sicurezza e la decriminalizzazione portata avanti da US PROStitutes Collective. [4] Global Women’s Strike, VENEZUELA: The Bolivarian Revolution ENTER THE OIL WORKERS!, March 11, 2019, disponibile su YouTube. Abbiamo anche scritto una lettera aperta (in inglese e spagnolo) al presidente del AFL-CIO che si opponeva alla rivoluzione. [5] Si veda, R. Ibbott, Ujamaa: The Hidden Story of Tanzania’s Socialist Villages, Crossroads Books, London 2014. Il loro ujamaa, supportato da Nyerere, fu distrutto dalla leadership del suo partito, contro la sua volontà nel 1969, cosa che non va confusa con la «villaggizzazione» forzata degli anni Settanta. [6] M. Abu-Jamal, Jailhouse Lawyers: Prisoners Defending Prisoners v. the USA, Crossroads Books, London 2011. [7] S. K. Rosa, Psychiatrists Are Covering for Cruelty in Prisons. A Group of Campaigners Wants to Stop Them, «Novara Media», 9 novembre 2020.

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