Segregazione razziale Made in Italy
- Oiza Q. Obasuyi
- 23 mag
- Tempo di lettura: 9 min
Estratto da Lo sfruttamento della razza. Le nuove gerarchie della segregazione

Esce oggi, nella collana «hic sunt leones», Lo sfruttamento della razza. Le nuove gerarchie della segregazione di Oiza Q. Obasuyi, un libro che spiega il sistema della razza, smonta le retoriche della «sostituzione etnica», illustra la produzione di subalternità e privazione di diritti che si produce sulla linea del colore.
Oltre che di grande pregranza politica, è di estrema attualità perché si collega al referendum dell'8 e 9 giugno. Nel terzo capitolo, infatti, l'autrice analizza il concetto coloniale, razziale, oltre che arcaico, di ius sanguinis, alla luce di un'Italia che cambia e dove le voci di italiani e italiane di varie origini reclamano lo spazio e i diritti che spettano loro.
Pubblichiamo oggi un estratto del volume.
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Se si dice che l’Italia è un paese razzista, è molto probabile che la maggior parte delle persone (quindi bianche, con cittadinanza italiana), oltre a stizzirsi, prenderà tale affermazione sul personale e inizierà a negare con ostinazione la cosa, magari mettendosi al centro della narrazione con frasi in cui la parola principale sarà Io. «Ma io non sono razzista», «io non ho mai discriminato nessuno, «io non sono così», «io ho tanti amici neri», «io ho viaggiato in tutto il mondo». Da tutti questi Io emerge l’assenza di una riflessione più approfondita e soprattutto un’automatica corsa alla difesa personale e all’affermazione di una propria presunta condotta morale. Il razzismo è percepito come qualcosa di brutto che riguarda solo casi isolati, non è ricondotto a una riflessione sulla bianchezza né se ne coglie il ruolo politico e sociale. La scrittrice statunitense Robin DiAngelo, che ha riflettuto su cosa significhi essere bianchi senza percepirlo (poiché, in una società a maggioranza bianca si è il default, la norma, e non l’eccezione) e senza aver mai considerato su cosa ciò comporti a livello sociale, ha scritto:
Ho uno schema di riferimento bianco, una visione del mondo bianca e vivo secondo una prospettiva bianca. La mia non è un’esperienza umana universale. È l’esperienza di una persona bianca in una società in cui la razza conta moltissimo; una società che a causa della razza è profondamente divisa e ingiusta. Ciononostante, come gran parte dei bianchi americani, non mi è stato insegnato a vedere me stessa in termini razziali, ad attirare l’attenzione sulla mia razza o a comportarmi come se il fatto di essere bianca avesse una qualche importanza. Il discorso sulla razza ha sempre riguardato gli altri: erano loro ad avere un’identità razziale perciò, se capitava di parlarne, l’argomento era la loro razza, non la mia [1].
Al contrario, se invece si appartiene a qualche minoranza razzializzata, il concetto di razza appare non come semplice discorso o riflessione, ma come quotidianità ed esperienze di vita. Dagli stereotipi più sciocchi sulle proprie origini o sul proprio colore della pelle che emergono puntualmente in quasi ogni conversazione, agli insulti o il bullismo in classe per le proprie origini, fino a essere le uniche persone guardate con sospetto dalle forze dell’ordine in una stazione ferroviaria, in mezzo a una folla di persone (perlopiù bianche), le proprie caratteristiche fisiche, così differenti da quella che viene considerata la norma, rappresentano una novità disturbante nell’equilibrio. Come sostiene la scrittrice afrobritannica Reni Eddo-Lodge:
Non posso più affrontare l’abisso di dissociazione emotiva che si spalanca sui loro volti [delle persone bianche] quando una persona di colore – di qualsiasi colore [intese come POC, people of colour, tutte le persone non bianche, quindi non solo nere] – racconta la sua esperienza […]. Questa dissociazione emotiva è il risultato di una vita vissuta senza avere consapevolezza che il colore della loro pelle è la norma e ogni altro una deviazione. Nella migliore delle ipotesi, le persone bianche sono state educate a non dire che quelle di colore sono «diverse» – casomai questa parola rischi di offenderci. Sono davvero convinte che l’esperienza del loro vissuto, conseguenza dell’avere la pelle bianca, possa e debba essere universale. E io non riesco più a sostenere il loro sconcerto, il loro mettersi sulla difensiva, mentre tentano di scendere a patti col fatto che non tutti sperimentano il mondo esattamente come loro […]. Ancora oggi, il percorso verso la comprensione del razzismo strutturale richiede alle persone di colore di dare priorità ai sentimenti dei bianchi [2].
Il concetto di bianchezza, va ben oltre il colore della pelle. Come spiega Cheryl I. Harris, studiosa afroamericana nota per i suoi preziosi contributi sulla teoria critica della razza:
Con il riconoscimento di un effettivo status legale della bianchezza, un aspetto della persona è stato trasformato in un oggetto esterno di proprietà, e l’essere bianchi è passato da identità privilegiata a interesse materiale. La costruzione legale della bianchezza ha definito e istituito aspetti cruciali dell’identità (chi è bianco), del privilegio (quali benefici vengono attribuiti a quello status) e della proprietà (quali diritti legali conseguono a tale status). A seconda delle situazioni, la bianchezza significa e viene impiegata come identità, status o proprietà, e a volte tutte queste cose insieme [3].
Secondo Harris quindi, se nel sistema coloniale o della segregazione razziale (dagli Usa all’Europa), l’essere bianchi corrispondeva a un’identità privilegiata, oggi la bianchezza – che deriva da quell’esperienza di discriminazione strutturale – è da concepire soprattutto all’interno delle gerarchie di potere che riguardano la nostra società, e di come, sulla linea del colore, si adottino leggi o si prendano decisioni per determinate categorie sociali e razziali. Anche se le forme di segregazione razziale del passato sono state formalmente abolite, ciò non significa che non continuino a esistere altre forme di segregazione che non sono percepite come tali, ma sono il frutto di un modus operandi escludente e oppressivo che pone linee di confine interne ed esterne e incentiva svariate forme di discriminazione sistemica. L’obiezione che potrebbe essere sollevata in questo caso è che anche nelle società a maggioranza bianca esistono persone bianche che vivono in una condizione di svantaggio e di esclusione sociale. La questione di classe evidenzia che il concetto di discriminazione può interessare diverse categorie sociali, a prescindere dal colore della pelle e dalle origini. Tuttavia, quando si parla di razzismo istituzionale o sistemico, si intende dire che le norme o le politiche adottate da uno Stato sono indirizzate a una categoria specifica dove, invece, origini, colore della pelle e nazionalità sono il fulcro di quel tipo di esclusione. E se si osservano le caratteristiche di coloro che vengono maggiormente colpite da questo tipo di politiche, si noterà che si tratta principalmente di persone migranti razzializzate che come abbiamo visto vivono, anche a livello socio economico, una condizione di svantaggio in partenza rispetto alla controparte autoctona. L’Italia non è esclusa. Anzi, è possibile affermare che gran parte della propaganda politica e dei provvedimenti adottati in materia di immigrazione si basano proprio sul costrutto sociale di razza. Spesso si parla di un linguaggio politico che punta a instillare la «paura del diverso» nell’opinione pubblica – dai complotti sulla sostituzione etnica, fino alle scuole «piene di stranieri», ai quartieri ghetto a cui puntualmente viene viene associato il termine «degrado». Tuttavia, se si continua a parlare di semplice «paura del diverso» per parlare di razzismo, si continuerà ad avere una visione paternalistica: il razzismo è piuttosto «costruzione dell’alterità». «In genere [il razzismo] non scaturisce da un’emozione irrazionale, al contrario rappresenta una delle strategie sociali più razionali nella competizione per le risorse materiali e simboliche. L’argomento della paura giunge quindi in seconda battuta, fungendo da alibi per giustificare un trattamento iniquo della categoria temibile, ma proficuo per i sedicenti impauriti» [4]. Frasi come «gli immigrati rubano il lavoro agli italiani», prima ancora di instillare un timore, individuano una categoria sociale e razziale da marginalizzare, criminalizzare, sfruttare, a beneficio del sistema socioeconomico italiano. Come il costrutto sociale di razza sia funzionale allo sfruttamento del lavoro migrante e al governo repressivo delle politiche migratorie, all’esclusione dalla cittadinanza, alla criminalizzazione e deportazione, sarà discusso in questa terza parte di analisi, che considera lo sfruttamento della razza in Italia.
Schiavi e padroni
Jerry Essan Masslo era un rifugiato sudafricano arrivato in Italia nel 1988. Sostenitore delle mobilitazioni anti-apartheid nel proprio paese di origine, era fuggito da Umtata in Sudafrica, passando per la Nigeria (da dove prese un volo per Roma), perché la violenza repressiva del regime razzista del suo paese si era intensificata. In un articolo per «Internazionale», lo storico Michele Colucci e il giornalista Antonello Mangano, riportando quanto scritto nel fascicolo del ministero dell’interno dell’archivio di Stato, raccontano il modo in cui Masslo, una volta arrivato in Italia, sia subito stato identificato come potenzialmente pericoloso [5]:
Alle ore 19.45 del 20 corrente, con il volo WT/808 proveniente da Lagos,
è giunto presso l’aeroporto di Fiumicino tale Jerry Essan Masllo (il nome
compare scritto frequentemente in modi diversi, nda), cittadino sudafricano. Al predetto è stato inibito l’ingresso in territorio nazionale siccome sprovvisto di passaporto e di biglietto aereo di prosecuzione. Non è stato possibile reimbarcare lo straniero immediatamente sul coincidente volo di ritorno nel paese da cui aveva avuto origine il viaggio, essendo stato ritenuto dal comandante soggetto pericoloso per la sicurezza a bordo, perché in evidente stato di agitazione nervosa [6].
Benchè la prima opzione fosse quella di rimpatriarlo, Amnesty International prese in carico il caso e provò che un possibile rimpatrio avrebbe potuto comportare un grave pericolo per la sua vita, dato che a Umtata, proprio per il regime di apartheid, si stavano verificando in quel momento violenze efferate da parte della polizia, con annessi omicidi. Masslo, quindi, dopo alcune settimane di detenzione a Fiumicino, rimase in Italia da uomo libero. Il caso, tuttavia, aveva evidenziato un vuoto importante nel sistema legislativo nazionale in materia di immigrazione e asilo. L’articolo 10 della Costituzione stabilisce che «lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge», ma in quel periodo l’Italia si riservava di estendere il diritto di asilo solo alle persone che, in seguito al crollo del muro di Berlino, provenivano dall’Est Europa. Il diritto di asilo prevedeva nei fatti una limitazione geografica e gran parte delle persone non europee richiedenti asilo rimaneva in un limbo giuridico e di precarietà. Jerry, in particolare, ottenne un semplice visto temporaneo in attesa di emigrazione. Nonostante il sostegno ottenuto dal centro di accoglienza presso la Tenda di Abramo, gestito a Roma dalla Comunità di Sant’Egidio, Masslo si ritrovò a dover svolgere svariati lavori in nero e guadagnando molto poco poiché privo di permesso di soggiorno. Successivamente, insieme ad altre persone africane, iniziò a lavorare come bracciante a Villa Literno, in provincia di Caserta. Le condizioni inumane e degradanti in cui i braccianti vivevano – tra baracche fatiscenti e assenza di tutele – diedero vita a varie mobilitazioni e proteste a cui aveva partecipato anche Masslo. Imprenditori, caporali e mafie si servivano della vulnerabilità di lavoratori irregolari per aumentare le forme dello sfruttamento. Nel frattempo, la propaganda politica contro le persone straniere, in particolare africane,
si faceva sempre più intensa, razzista e violenta.
[...]
Ad agosto dello stesso anno, nella notte tra il 23 e il 24, alla fine della stagione della raccolta di pomodori, una banda di rapinatori italiani aveva fatto irruzione nella baracca di Masslo e lo aveva ucciso. Non si trattò tuttavia di una fatalità: colpire i braccianti era un colpo sicuro, nessuno se ne sarebbe curato, tanto scarse erano le tutele e i diritti delle persone migranti. Eppure, l’omicidio di Jerry Masslo non si limitò a suscitare paura, ebbe l’effetto di organizzare la rabbia dei compagni di lavoro che, il 20 settembre del 1989, entrarono in sciopero, «in 500: somali, tunisini, zairesi, sudanesi, ghanesi, angolani. Alcuni di loro sono studenti universitari venuti a lavorare durante la stagione estiva, altri sono fuggiti da regimi e da guerre, ma come Masslo non hanno potuto ottenere lo status di rifugiato […]» [7]. Il primo sciopero di lavoratori migranti contro il caporalato in Italia aveva bloccato il raccolto nei campi. L’eco dello sciopero e soprattutto dell’omicidio di Masslo ebbero così tanta risonanza – anche per via della sua militanza antirazzista e per il suo impegno nella lotta per diritti dei lavoratori migranti – che, il 7 ottobre del 1989 a Roma scese in strada la prima manifestazione antirazzista nazionale della storia italiana più recente, organizzata da 85 associazioni e con la partecipazione di 200.000 persone. Tanta fu la pressione esercitata dalla società civile, che alla fine il governo di allora (Andreotti VI), adottò la prima riforma organica in materia di immigrazioni e d’asilo dell’Italia repubblicana: la Legge Martelli, che ebbe tra i suoi pochi pregi quello di eliminare la limitazione geografica per il riconoscimento dello status di rifugiato. Oggi, l’Italia antirazzista ricorda Jerry Masslo per aver cambiato l’Italia con il suo «sacrificio». Tuttavia, questo tipo di narrazione rischia di occultare il razzismo istituzionale in cui l’omicidio è maturato. Masslo non si è sacrificato, ma è stato brutalmente ucciso in un contesto di esclusione sociale e sfruttamento sistemici che lo avevano condannato a marginalità e vulnerabilità estremi.
Note
[1] R. DiAngelo, Fragilità Bianca. Perché è così difficile per i bianchi parlare di razzismo, Chiarelettere editore, Milano 2018, p. 17-18.
[2] R. Eddo-Lodge, Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche, e/o, Roma 2021, p. 5.
[3] C.I. Harris, Whiteness as Property, «Harvard Law Review», vol. 106, n. 8, 1993, p. 1744.
[4] C. Bartoli, Razzisti per legge. L’Italia che discrimina, Laterza, Roma-Bari 2018, p.73.
[5] M. Colucci – A. Mangano, Sulle tracce di Jerry Essan Masslo trent’anni dopo,«Internazionale », 27 luglio 2019.
[6] Archivio centrale dello Stato, ministero dell’interno, gabinetto del ministro, fascicoli correnti 1986-1990, busta 828, fasc. profughi – affari generali, sottofasc. fascicoli nominativi, Jerry Essan Masslo, appunto del 29 marzo 1988, Sulle tracce di Jerry Essan Masslo trent’anni dopo, «Internazionale», 27 luglio 2019.
[7] Colucci – Mangano, Sulle tracce di Jerry Essan Masslo, cit.
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Oiza Q. Obasuyi (Ancona, 1995) è una studiosa di diritti umani, migrazioni, diaspore afrodiscendenti e razzismo sistemico. Attualmente è dottoranda all’Università di Bologna. Ha collaborato con varie testate giornalistiche, tra cui «The Vision» e «Internazionale». Il suo primo libro è stato Corpi Estranei (People, 2020), in cui decostruisce gli stereotipi sessisti e razzisti flitrati attraverso il vissuto di una donna italiana afrodiscendente.
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