Negli ultimi tempi, la nostra attenzione è stata con insistenza sollecitata da questioni che qui per sintesi chiamerò di razza e genere, riservandomi di ritornare sui due termini nel corso del testo. Si tratta di sollecitazioni di segno diverso e finanche opposto, che interrogano inequivocabilmente la pratica teorica dell’antirazzismo e della lotta femminista e pongono, mi pare, l’urgenza di una riflessione.
La razza e il razzismo continuano a produrre violenza e morte, non solo negli Stati Uniti e lungo i confini nazionali, la violenza di genere ha assunto tale ricorsività che è stato coniato il termine «femminicidio». La pandemia ha seminato morte, paura e impoverimento in maniera disproporzionale lungo le gerarchie della razza e le donne sono state le più colpite dall’ondata di licenziamenti innescati dalla crisi sanitaria, quelle su cui maggiormente si è riversata la violenta riorganizzazione della riproduzione. Nello stesso tempo, abbiamo visto i fuochi della rivolta razziale infiammare gli Stati Uniti rimbalzando in gran parte del mondo occidentale e non, e le mobilitazioni femministe e transfemministe crescere sul piano internazionale, sebbene con alterne fortune (mentre in Italia la pandemia ha rideclinato in termini più «militanti» che di massa la pratica femminista, grandi mobilitazioni hanno consacrato la legalizzazione dell’aborto in Argentina ma non hanno arrestato l’introduzione di una legge antiabortista in Polonia). In tutti i casi l’ordine del discorso femminista e antirazzista ha conquistato il mainstream, dai media alla politica istituzionale.
Angela Davis, da ricercata dalla Fbi è assorta a icona di un antirazzismo sulla bocca di tutti. «Vanity Fair» le ha dedicato una copertina e «Time» l’ha inserita tra le 100 donne più influenti del 2020. Silvia Federici, con la sua critica serrata all’esproprio capitalistico del lavoro di riproduzione, ha conquistato il «New York Times» che di recente ha pubblicato una sua lunga intervista. Finanche le istituzioni politiche non hanno resistito al richiamo delle differenze del capitale. Un esempio su tutti, l’elezione di Kamala Harris alla vicepresidenza degli Stati Uniti, accompagnata dal mantra della «prima donna nera alla Casa Bianca», in modo simile a quello che già si era sentito in occasione dell’elezione di Barack Obama. Che immagine diabolica quella del nero (oggi donna nera) alla Casa Bianca! Specchietto per le allodole di un’America post-razziale che si è già infranta fragorosamente sui riot di Ferguson (2014), Baltimora e St. Louis (2015), sulle incarcerazioni di massa, le violenze di polizia e le deportazioni oltre confine, e il tutto ben prima degli obbrobri del trumpismo.
Nel bene o nel male, dunque, la razza e il genere hanno fatto irruzione nel presente raggiungendo ambiti disparati e grande visibilità. Qui, io credo, vada oggi collocata una riflessione politica seria e accurata sulle differenze del capitale ovvero sulla funzione capitalistica di razza e genere che, occorre sin da subito sottolineare, non sono tra loro assimilabili, non prevedono una reductio ad unum, ma seguono ciascuna un percorso specifico e differente.
Nuove lenti per nuove sfide
L’irruzione nel presente delle differenze del capitale sta aprendo nuove sfide politiche, a partire dal modo in cui intendiamo e pratichiamo la lotta femminista e antirazzista. In questo senso pone l’urgenza di una riflessione che si interroghi innanzitutto sul se e come la crescente attenzione per le questioni di razza e genere possa intervenire a smontarne la funzione capitalistica delle differenze. Possa cioè interrompere la definizione di gerarchie razziali e di genere che stanno al cuore della riproduzione del capitale. Sono infatti largamente convinta, con buona pace delle visioni marxiste più tradizionali, che la lotta al modo di produzione capitalistico non possa che essere trasversale al genere e alla razza. Nello stesso tempo la lotta alla subordinazione razziale e di genere se non vuole rimanere subalterna all’interesse del capitale deve radicarsi nei rapporti sociali di produzione e riproduzione e puntare a interrompere le gerarchie capitalistiche. Razza e genere, detto altrimenti, vivono nel processo del capitale, ed è lì che occorre collocare la pratica teorica femminista e antirazzista.
Il rapporto storico che lega la valorizzazione capitalistica al razzismo e alla subordinazione di genere è anche il punto di partenza di questa riflessione. Si tratta di un rapporto intimo, strutturale ma non immutabile, sempre storicamente determinato dalle forze produttive in campo e mai necessario. Un rapporto dai confini mobili in cui le differenze possono seguire in varia misura il piano del capitale oppure rovesciarlo nella lotta, e anche la lotta non è mai data ma sempre la posta in palio dei processi.
A dimostrazione del nesso non oggettivo che lega, ad esempio, lo sfruttamento capitalistico e la subordinazione di genere, sta emergendo una sorta di potere femminile che, rovesciando la suggestione del noto lavoro di Mariarosa Dalla Costa, abbandona la sovversione sociale per sposare la logica del capitale. Non sto pensando però al pinkwashing, né sto parlando di donne che assumono ruoli già ricoperti da uomini secondo un sistema di quote o di political correctness. Ciò che ho in mente è qualcosa di più specifico e profondo che chiama in causa le forme del comando capitalistico, che adesso invoca le attitudini del lavoro femminile (mai naturali e sempre storicamente determinate), dalla cura alle relazioni. Si pensi in questo senso ai richiami per un governo al femminile nella gestione della pandemia o, per altri versi, all’organizzazione del comando in termini linguistici e relazionali, orizzontali e non verticistici, in alcuni ambiti del lavoro soprattutto riproduttivo, dalla scuola al sociale. Sebbene ciò non cancelli la subordinazione di genere e la violenza, tuttavia, sul piano qualitativo è indubbio che definisca una articolazione specifica, determinata (dalle forze in campo) e non necessaria, del rapporto tra genere e capitale, che adesso, con buona pace delle lotte, tenderebbe a collocare le donne sul lato del dominio più che su quello della subordinazione.
Altrettanto non si può dire per il rapporto tra razza e capitale (l’afropessimismo ne negherebbe a priori la possibilità, si veda in questa sezione l'intervista a Frank B. Wilderson III), ma se assumiamo il processo del capitale come storicamente determinato, occorrerà continuamente fare attenzione alla specifica articolazione del potere nella definizione delle differenze del capitale, per leggerne l’ambivalenza e orientare le lotte. Se le questioni di razza e genere seguono la logica del capitale invece di puntare a smantellare le gerarchie sociali e del lavoro, continueranno a definire, e forse a consolidare, tempi, modi e discorsi propri alla razionalità capitalistica. In questo senso femminismo e antirazzismo più che sovvertire i rapporti sociali esistenti, funzioneranno come puntello del capitale. Razza e genere invece di aprire spazi antagonisti definirebbero la compatibilità capitalistica. Ed è questo il nodo politico che dobbiamo con urgenza affrontare.
L’ipotesi che intendo avanzare è che il capitalismo contemporaneo non si limiti a produrre differenze e gerarchie razziali e di genere ma abbia imparato anche a comporle per riprodurle e fortificarle, a catturarle nello spazio del riconoscimento capitalistico. Oltre il diversity-management, prova adesso a definire una nuova e specifica articolazione del rapporto tra differenze e capitale, le traduce nei termini della sua razionalità e la cosa non può essere oltremodo trascurata. Aver chiara l’articolazione di potere che attraversa le differenze del capitale permette da una parte di spiazzare il campo a una narrazione disincarnata della lotta antirazzista e femminista, che mi pare dilagare complice la banalizzazione del discorso social e l'annullamento del pensiero critico che ci consegnano le istituzioni formative del paese. Dall’altra, riconduce l’analisi nel contesto dei rapporti sociali materiali che, anche questo va portato in primo piano, non sono mai solo economici ma sempre psichici e culturali insieme.
Razza e genere
Assunte nel loro rapporto al capitale, razza e genere, e arrivo al punto annunciato in apertura, sono categorie sociali (mai biologiche, se fosse ancora necessario sottolinearlo) storicamente determinate, che descrivono e definiscono forme di vita, aspettative e opportunità soggettive. Dispositivi di ingegneria sociale messi a lavoro per organizzare i rapporti di produzione e riproduzione capitalistica, mai statici e sempre a lavoro dentro il processo del capitale. Quando diciamo razzializzare, ad esempio, stiamo parlando della razza che si fa verbo (dunque azione, esercizio, pratica) per differenziare i soggetti all’interno di una specifica struttura di gerarchie. E anche il genere ha, a suo modo, storicamente svolto un’analoga funzione selettiva, si pensi, ad esempio, alla naturalizzazione delle donne al lavoro riproduttivo o, su di un piano differente, alla femminilizzazione del lavoro contemporaneo, dove l’attributo femminile si fa verbo che organizza la produzione dopo la crisi del fordismo.
Nel loro essere sociali e storicamente determinate dai rapporti di forza tra le classi, razza e genere (che, ripeto, non funzionano all’unisono ma seguono uno sviluppo autonomo proprio in quanto storicamente determinate), si muovono sempre su un piano di ambivalenza. Possono rafforzare o ridefinire le gerarchie sociali e del lavoro, oppure possono smantellarle. Si pensi nel primo caso agli albanesi in Italia dagli anni Novanta: pericolosi criminali nella fase emergenziale di gestione del loro arrivo, «minoranza modello» dopo qualche decennio di intensa attività imprenditoriale. Si pensi nel secondo caso agli immigrati italiani negli Stati Uniti di inizio Novecento che diventano «bianchi» dopo una lunga stagione di lotte operaie, o ancora alle lotte femministe dei Sessanta e Settanta nei paesi occidentali che hanno portato le donne a mettere in discussione il ruolo domestico, producendo un imponente contraccolpo sull’organizzazione fordista del lavoro.
La razza e il genere, dunque, vivono nella materialità dei rapporti sociali di produzione e riproduzione, all’interno dell’antagonismo inestinguibile tra le classi: l’interesse del capitale alla sua riproduzione da una parte, l’agire autonomo del lavoro per il rovesciamento dell’organizzazione capitalistica della società dall’altra. In questo senso, razza e genere definiscono lo stesso orizzonte di possibilità del processo del capitale. Ed è per questo che occorre sempre assumerle come connesse ai rapporti (antagonisti) di classe, solo così è possibile cogliere lo spazio per il cambiamento o la compatibilità capitalistica a cui alludono.
Attenzione però, non sto evocando la santa trinità (razza, genere, classe) dell’intersezionalismo. Ammesso che questo possa illustrare le condizioni molteplici della subordinazione e dello sfruttamento (a patto però di portare il concetto oltre l’idea originaria di oppressione categoriale assoluta, riferita alla donna nera; si veda in questa sezione il contributo di Tommy Curry) nulla sa dirci, oltre il piano puramente descrittivo, dell’origine di quell’oppressione, né (e di conseguenza) può dare conto dell’ambivalenza che definisce l’organizzazione capitalistica della società e dunque della possibilità del suo superamento. L’intersezionalismo resta legato alla condizione ontologia del soggetto; un principio astratto, sganciato dalla materialità dei rapporti sociali produttivi. Al contrario, il mio richiamo a leggere razza e genere connesse ai rapporti di classe è piuttosto, e in senso inverso all’intersezionalismo, la necessità di collocare sempre la pratica teorica femminista e antirazzista all’interno dei rapporti sociali materiali. Vuol dire insistere sul ruolo strutturale (o surdeterminato), e non sovrastrutturale, di razza e genere nel processo del capitale, sin dai suoi albori.
Accumulazione originaria e valorizzazione capitalistica delle differenze
In controtendenza alle letture marxiste più tradizionali, esiste una vasta letteratura che è tornata all’accumulazione originaria per portare in primo piano il ruolo della razza e del genere nella lunga transizione capitalistica. Queste analisi, che hanno ridefinito la stessa idea marxiana di accumulazione, hanno insistito sul ruolo strutturale di razza e genere nel processo di produzione e riproduzione del capitale, contribuendo a rinnovare il modo in cui pensiamo la nascita e lo sviluppo del capitalismo. Tuttavia, nell’assumere questa prospettiva, occorre fare attenzione a non inciampare in una lettura lineare dei processi storici, che vedrebbe razzismo e subordinazione di genere come effetto o conseguenza dell’avvento del capitalismo. Piuttosto l’idea è che il razzismo messo al lavoro attraverso schiavitù ed espansione coloniale nei processi di accumulazione originaria, così come le forme di subordinazione delle donne nella riorganizzazione della riproduzione, vivessero già nelle idee e nei comportamenti degli europei alle prese con la lunga transizione dal Medioevo al capitalismo. Comportamenti e idee che concorreranno a definire il contesto sociale e culturale in cui il capitalismo prende forma, si definisce e ridefinisce.
Lo stesso Marx, d’altra parte, non omette di rilevare il ruolo cruciale del commercio di lunga distanza e della schiavitù nella fase di accumulazione originaria (La guerra civile americana, 1862), né manca di osservare come il controllo sulla capacità riproduttiva delle donne precedesse le «recinzioni» e l’avvento del capitalismo, e fosse da rintracciare nell’introduzione della proprietà privata che già nelle società tribali aveva interrotto la discendenza matrilineare delle comunità tradizionali (L’ideologia tedesca, 1844; Quaderni antropologici, 1872). In modo più stringente, la tradizione radicale nera, che con il marxismo mantiene un rapporto difficile e irrinunciabile, ha insistito sull’esistenza di forme di subordinazione razziale che precedono la nascita del capitalismo. Black Marxism (1983)di Cedric Robinson, per esempio, offre in questo senso un’accurata analisi delle origini del razzismo nell’Europa medievale. Tuttavia, nel riconoscere l’esistenza di forme di razzismo e subordinazione di genere già prima dell’avvento del capitalismo non vuol dire immaginare un travaso fluido di comportamenti e idee da un modo di produzione a un altro. Nella transizione al capitalismo, la lunga tradizione di razzismo e subordinazione di genere nella storia dell’umanità vive come un salto di scala. Adesso traduce abitudini e atteggiamenti preesistenti nei termini della razionalità capitalistica, razzismo e subordinazione di genere diventano in questo senso, spazio di accumulazione e produzione di valore in un modo prima inimmaginabile.
L’importante, quanto trascurato, lavoro di George Rawick sul ruolo della schiavitù nella storia degli Stati Uniti (di cui il volume Lo schiavo americano dal tramonto all’alba del 1972 che DeriveApprodi ripubblicherà nei prossimi mesi costituisce un’introduzione), propone una lettura utile e suggestiva del rapporto tra razzismo e capitalismo. Nel ricordarci che tanto la schiavitù quanto il razzismo esistevano già prima dell’avvento del capitalismo, ne mette a fuoco l’andamento distintivo, congiunto e compartecipe allo sviluppo del capitale. Innanzitutto ci ricorda che è per la prima volta nel «Nuovo Mondo» che razzismo e schiavitù si presentano intimamente legati, definendo quella nuova modalità di relazione che oggi chiamiamo razzismo strutturale. Gli schiavi sono prevalentemente africani e mentre le esportazioni di cotone e tabacco crescono in maniera esponenziale, l’organizzazione del lavoro finalizzata al massimo sfruttamento nelle piantagioni troverà un importante sostegno nelle idee razziste già presenti tra gli europei. Un apparato di leggi si preoccuperà di istituzionalizzare un sistema di gerarchie tra i coloni europei bianchi e gli africani neri resi schiavi (è l’invenzione della whiteness, come dispositivo di organizzazione gerarchica della società) e il nascente Stato nazionale se ne farà garante.
Spiazzando efficacemente le letture economiciste del marxismo più tradizionale, Rawick analizza una «psicodinamica del razzismo», sottolineando come gli europei vedessero in schiavi e popolazioni colonizzate «ciò che avevano paura di vedere in se stessi». Ciò che percepivamo come una brutta copia, si potrebbe dire, o abbozzo di ciò che erano invece diventati abbracciando l’etica capitalista, della democrazia, del lavoro e del puritanesimo. La nuova «civiltà europea», d’altra parte, sarà l’humus su cui prenderà forma la contrapposizione tra le «virtù civiche» degli europei bianchi e l’«inciviltà» di tutti gli altri, al fondo delle teorie del razzismo biologico. Ciò che legittima il progetto coloniale dell’Europa moderna e contemporanea e contribuisce, ancora oggi, a definire le gerarchie sociali e del lavoro che organizzazione le nostre società.
Anche la critica femminista è tornata all’accumulazione originaria, per rintracciare le origini materiali della subordinazione delle donne. In particolare, l’analisi di Silvia Federici e Leopoldina Fortunati (Il grande Calibano, 1984 e, successivamente, Federici, Calibano e la strega, 2003, e Caccia alle streghe e guerra alle donne, 2020) sulla caccia alle streghe a partire dal XV secolo, permette (anche al di là delle intenzioni delle autrici) di collocare, nella lunga transizione capitalistica, l’incubazione di una serie di trasformazioni psicologiche e del vivere sociale che preparano e rendono possibile la separazione tra produzione per il mercato e (ri)produzione per la sussistenza, che sta al fondo del modo di produzione capitalistico. In questo senso, le «recinzioni» che privano i contadini medioevali delle terre da cui traggono il proprio sostentamento e separano drasticamente i lavoratori salariati che producono merci per il mercato dalle lavoratrici non salariate che, sempre per il mercato ma gratuitamente, riproducono la merce «speciale» forza-lavoro (con un enorme incremento di plusvalore assoluto), possono essere intese come la traduzione capitalistica di rapporti patriarcali preesistenti che contribuiscono adesso a definire la nuova divisione sessuale del lavoro.
In questo lungo processo storico, la caccia alle streghe e le profonde trasformazioni ideologiche e psicologiche che implica, il terrore e la diffidenza che produce, le nuove forme di vita che impone, contribuiscono a una radicale riorganizzazione dei rapporti sociali e delle attività connesse alla riproduzione: dalle relazioni interne alla famiglia ai rapporti amicali, dalla criminalizzazione dei saperi medici e fitoterapici delle donne al controllo sul corpo, sulla sessualità e sull’intera capacità riproduttiva. Un processo fatto di infantilizzazione, stigmatizzazione sociale e persecuzione giudiziaria, finalizzato al controllo complessivo sulla riproduzione della forza-lavoro in funzione dello sviluppo del capitale. Un dispositivo che ha per secoli «naturalizzato» le donne alle attività riproduttive, separate nella sfera privata, e che oggi, al netto di questa stessa naturalizzazione e senza smantellare violenza e subordinazione, ridetermina, almeno in tendenza come già si è accennato, la relazione tra genere e capitale, con il comando capitalistico che fa proprie le caratteristiche di cura, affettività e relazionalità, di cui già la femminilizzazione del lavoro aveva evidenziato la centralità capitalistica.
Differenze, composizione, antagonismo
Tornare al rapporto che lega razza e genere alla nascita e sviluppo del capitalismo, benché qui solo accennato in modo schematico e tutt’altro che esaustivo, permette di portare in primo piano il carattere strutturale (e non necessario) di razzismo e subordinazione di genere nel processo del capitale. Tuttavia, questo resta solo un primo ineludibile esercizio per un discorso e una pratica politica femminista e antirazzista all’altezza delle sfide del presente. Se guardiamo alle trasformazioni avviate dal capitalismo contemporaneo e ritorniamo agli esempi richiamati in apertura, occorrerà anche interrogare, insieme alla produzione di differenze e gerarchie, lo spazio in cui oggi le differenze del capitale, sono composte insieme, riconosciute e finanche promosse per la valorizzazione capitalistica. Senza smettere di produrre differenze, il capitalismo contemporaneo ha messo al lavoro la razza e il genere per definire un’idea più complessa ed eterogenea di società. Una società ordinatamente composta dentro un orizzonte standard, accettato e compatibile, del vivere sociale; uno spazio di riconoscimento tutto interno alla logica del capitale. Non solo, dunque, il capitalismo include razza e genere riorganizzando in modo differenziale le gerarchie sociali (più in alto i più «buoni» o più «integrati», più in basso gli altri). Sempre più appare interessato ad assumerle, farle proprie per ricondurle alla logica della sua valorizzazione. Le addomestica, potremmo dire, le «normalizza». Le astrae del contesto materiale per celare le gerarchie e i privilegi che definiscono e neutralizzarne la carica antagonista e sovversiva.
Dopo aver dunque inquadrato la valorizzazione capitalistica di razza e genere dentro processi di differenziazione (per gerarchie) occorre adesso guardare anche al processo inverso che si da come composizione o (ri)assemblaggio delle differenze in un orizzonte di compatibilità capitalistica. In questo senso, le questioni di razza e genere a cui oggi il capitale presta crescente attenzione, sono sempre più intese nei termini della produzione culturale o del riconoscimento identitario, quando non immediatamente tradotte nella logica del comando del capitale. Un modo di intendere la razza e il genere che non guarda alle condizioni materiali di vita dei soggetti e perde di vista le gerarchie sociali e del lavoro. Piuttosto, tale spazio di composizione – o (ri)assemblaggio – va oggi assunto come il campo di battaglia della lotta femminista e antirazzista: tra la composizione delle differenze come riconoscimento interno alla logica del capitale da una parte, e la loro composizione politica conflittuale oltre le gerarchie di razza e genere, dall’altra.
Da Marx, e soprattutto dalle lotte sociali, sappiamo che il processo del capitale, è aperto e ambivalente, storicamente determinato dai rapporti antagonisti tra le forze in campo. Dove il capitalismo definisce gerarchie (che, come si diceva, possono essere stabilite nei termini della differenziazione o della composizione) per organizzare la società al fine di una più efficace estrazione di pluslavoro, è possibile ugualmente definire lo spazio di un processo di composizione politica antagonista che intende invece smantellarle. Non si tratta però di un automatismo o di un processo lineare. Al contrario, la possibilità dell’antagonismo al capitale è sempre la posta in palio dei processi. In questa prospettiva, la lotta alla subordinazione razziale e di genere per mettere efficacemente in discussione la funzione capitalistica delle differenze, per smantellare davvero le gerarchie che organizzano le nostre società, deve dotarsi di nuove lenti e nuovi strumenti. Non basterà spiazzare con un’analisi materialista pur indispensabile, le letture soggettiviste di razzismo e subordinazione di genere che hanno a lungo condizionato il dibattito in Italia. Dovrà anche saper complicare il modo in cui guarda alle differenze del capitale. Non solo, dunque, leggere la costruzione di differenze e processi di inclusione differenziale all’interno delle gerarchie sociali e produttive, ma anche, e con crescente urgenza, guardare alla composizione capitalistica delle differenze, tutta interna e compatibile alla logica gerarchica dell’organizzazione del capitale.
Ciò di cui abbiamo oggi soprattutto bisogno è uno sguardo capace di spiazzare il piano della mera rivendicazione dei diritti, sempre interno alla razionalità del capitale, di andare oltre rivendicazioni culturaliste e/o identitarie che si giocano sul piano del riconoscimento capitalistico, per assumere il punto di vista materiale e situato dei soggetti. Per costruire percorsi conflittuali e di lotta che a partire delle condizioni materiali di vita puntino a smantellare l’organizzazione gerarchica della società. In questo senso, si tratta di portare la pratica teorica lì dove il capitale vorrebbe non guardassimo, dove stende la cortina fumogena delle rivendicazioni culturiste e identitarie che celano le condizioni materiali di vita dei soggetti. Lì dove la razza e il genere non sono un simulacro o il feticcio della cattiva coscienza razzista e sessista della «civiltà europea» ma definiscono i rapporti conflittuali di classe al fondo del dominio e dello sfruttamento capitalistico contemporaneo.
Immagine: Thomas Berra
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Anna Curcio è ricercatrice e saggista. Cura la sezione vortex della rivista Machina. Studia le trasformazioni del lavoro produttivo e riproduttivo nel rapporto con la razza e il genere. Tra le sue diverse pubblicazioni, ha curato La razza al lavoro (Manifestolibri, 2012), Introduzione ai femminismi e Black fire (DeriveApprodi, 2019 e 2020).
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