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Il ciclo breve dei Csoa, tra spontaneità e organizzazione

Intervista a Giovanni Iozzoli




Maggio 1997. Una ragazza tra i capannoni del Livello 57 durante un Rave Party. Foto di Massimo Sciacca

Quello di Giovanni Iozzoli, militante e fondatore di Officina 99, uno dei più importanti centri sociali degli anni Novanta, è uno sguardo di parte ma laico. In questa intervista, che pubblichiamo in vista del Festival di DeriveApprodi che si terrà dal 15 al 19 Maggio a Bologna, ci offre una fotografia nitida di ciò che è stato in Italia il movimento dei centri sociali per la composizione giovanile che emerse con il movimento della Pantera, di cui hanno già parlato Salvatore Cominu e Luca Perrone (qui e qui). Ciò su cui ancora oggi varrebbe la pena interrogarsi è il rapporto tra «politico» e «sociale» che per i centri sociali è stato il problema irrisolto che ha impedito di trasformarli in organizzazioni della giovane composizione sociale scolarizzata dell’epoca.


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Il decennio degli anni Novanta si apre con il movimento della Pantera che porta sulla scena una nuova composizione giovanile. I gruppi di militanti, sopravvissuti alla fine del ciclo del lungo Sessantotto e usciti dagli anni Ottanta, sono spinti a cambiare «linguaggi» e forme organizzative. I centri sociali, che dalla Pantera in poi si moltiplicheranno in tutto il paese, sia sul territorio metropolitano che su quello più di provincia, si affermano come modello organizzativo egemone e diventano il luogo di incontro tra questa composizione giovanile e i gruppi militanti. Quali sono le caratteristiche di questa nuova composizione giovanile? 

 

Si, è corretto ragionare sul nesso tra centri sociali, movimento studentesco e nuova composizione sociale. Perché dello stesso terreno e della stessa stagione si sta sostanzialmente parlando. È necessario però distinguere due differenti fasi. Il ciclo dei centri sociali negli anni Ottanta è ancora un fenomeno molto «militante» – nei suoi settori più avanzati, espressione sostanzialmente dell’area dell’autonomia. Dietro tutti i centri sociali, esiste un nucleo organizzato riconducibile ad una «sede» autonoma; o addirittura in molti casi, i centri occupati sono le «sedi» che fanno capo al Coordinamento Nazionale Antinucleare Antimperialista (l’organismo politico nazionale dell’autonomia). Il centro sociale, nel decennio Ottanta, è quindi essenzialmente un terreno di sperimentazione della militanza (spesso «sopravvissuta» al decennio precedente) che cerca spazi di reinsediamento sociale, a partire dall’universo giovanile. Siamo ancora in una fase in cui la memoria del decennio Settanta esercita un’ influenza importante su pratiche, parole d’ordine, posture. Molti quadri politici degli anni Settanta sono ancora attivi e attraversano le esperienze degli spazi sociali.

Nel decennio Novanta si entra in una fase nuova: le occupazioni non sono più a trazione esclusivamente militante, non hanno sempre una matrice politica marcata e identitaria. Con il diffondersi del fenomeno dell’ autogestione e la sua rapida circolazione mediatica, capita spesso che collettivi di giovani si costituiscano e occupino senza un forte retroterra politico, soprattutto nei territori di provincia. Questo rende tali occupazioni più precarie e confuse, ma anche più ariose e sociali. A fare da snodo tra questi due cicli, c’è proprio il cruciale 1990 e il movimento della Pantera.

La Pantera immette nel circuito politico centinaia di giovani che hanno acquisito le basi della militanza dentro le facoltà occupate (che furono più che nel ‘77). Il movimento studentesco del ’90 ha rappresentato un elemento di controtendenza e un argine culturalmente importante, rispetto alla furiosa campagna anticomunista post-Berlino, che pervade il dibattito pubblico e l’agenda politica. Quando, dopo mesi assai intensi, il movimento studentesco fisiologicamente inizierà a smobilitare, l’evoluzione naturale di questa nuova militanza sarà riversarsi sulla metropoli. La Pantera è il passaggio che permetterà di transitare dalle secche «resistenziali» degli anni Ottanta, verso il decennio successivo, l’ultimo del millennio.

Si è spesso detto che quel movimento studentesco fu il «biglietto da visita» del lavoro cognitivo (allora prevaleva ancora nei nostri circuiti la categoria di operaio sociale), cioè della proletarizzazione e massificazione del lavoro sociale tecnico intellettuale. Allora, noi che ne prendemmo parte, non ne fummo assai consapevoli, non ne cogliemmo adeguatamente questo profilo. Solo anni dopo riflettemmo sulla grande occasione persa, la possibilità cioè di ipotizzare una forma di rappresentanza politica e protagonismo, rispetto a questa giovane composizione sociale scolarizzata, di cui già il Settantasette aveva prefigurato la discesa in campo. Il movimento dei centri sociali fu una delle poche parzialissime espressioni politiche in cui questo soggetto trovò un qualche riconoscimento. Ma era una forma politica troppo fragile per dare corpo ad un vero movimento del lavoro intellettuale. Il passaggio occupazioni universitarie/occupazioni metropolitane rappresentò comunque un ciclo grande, importante, che ebbe in alcune esperienze (il Leonka, Officina 99 e altri) un impatto politico nazionale e generale profondo. I centri sociali diventarono, tra il ‘90 e il ‘95, i baricentri sociali riconosciuti della sinistra d’alternativa. Rifondazione comunista, fin dalla sua nascita, fu costretta a misurarsi con questa soggettività riottosa e vivace.

 

Per quali ragioni questa nuova composizione giovanile trova nei centri sociali uno spazio di organizzazione e di politicizzazione adeguato alle proprie istanze e quali erano queste istanze?

 

Le istanze di questa nuova composizione sociale erano difficili da interpretare, mancando le categorie classiche di salario/orario che erano state le coordinate su cui il movimento operaio (anche «l’altro movimento operaio») aveva costruito la sua iniziativa storica. Trovavamo difficile il passaggio di identificazione tra programma e composizione di classe che aveva funzionato nelle stagioni precedenti. Questo universo giovanile era troppo multiforme; la questione del reddito sociale era ancora prematura (anche se a Napoli per tutti gli anni Ottanta era esistito un Comitato per il salario garantito che però leggeva il tema solo come espressione del bisogno sottoproletario tagliato strutturalmente fuori dal mercato del lavoro). All’interno del mondo studentesco prevalevano i ragionamenti su un lavoro – possibilmente pubblico – che valorizzasse la scolarizzazione e la laurea, contro la precarizzazione e il sottosalario che già allora cominciavano a manifestarsi per questi settori. Fuori da tali ambiti, in alcuni territori del nord e segnatamente nel comparto industriale, si era in una condizione di massima occupazione.

C’era poi la tematica del «tempo liberato» – cioè godere di spazi che sottraessero il tempo libero ai percorsi di mercificazione/alienazione della metropoli. Anche questa era faccenda scivolosa: il ghetto era dietro l’angolo, sia pur agghindato da estetiche antagoniste. Bisognava tenere fuori le logiche commerciali, la penetrazione dell’eroina (più facile a dirsi che a farsi), la repressione e anche lo stress da super lavoro che molti militanti subivano per presidiare e far funzionare gli spazi «liberati». 

I centri sociali erano un piano su cui queste istanze e problematiche, si ponevano con immediatezza, senza filtri. Inserirsi dentro queste forme della politica fu per migliaia di giovani molto naturale, piuttosto che passare attraverso organizzazioni di partito e gruppuscoli vari.

 

Se è vero che i centri sociali si sono affermati negli anni Novanta bisogna anche ricordare che delle forme organizzative simili esistevano già molto tempo prima, penso per esempio ai circoli del proletariato giovanile. Quali sono gli elementi di continuità e di discontinuità tra i centri sociali e le esperienze precedenti?

 

Si possono trovare linee di continuità, ma i contesti sociali (protagonismo proletario, rapporti di forza, livelli di conflittualità) sono troppo distanti, per ipotizzare paragoni. Solo una quindicina d’anni dividono le due esperienze, ma sono stati anni pesantissimi in cui la società italiana ha subito una sorta di formattazione coatta. I circoli (che furono essenzialmente un fenomeno milanese e lombardo), ebbero il merito di lanciare la tematica del tempo libero per i giovani proletari – il ciclo del Re Nudo, le autoriduzioni, le forme culturali alternative, il dibattito sui nuovi bisogni sottratti alla mercificazione – ma la politica rivoluzionaria restava comunque al primo posto: negli anni Settanta il contesto ideologico è densissimo, pregnante. I circoli sono il ponte che collega la prima metà degli anni Settanta con il Settantasette, cioè il passaggio dall’autunno caldo dell’operaio massa al movimento dell’operaio sociale; ed ereditano lo sfrangiamento dei gruppi e un quadro di massa già forgiato da anni di occupazioni nelle scuole e scontri di piazza.

Tutto troppo diverso, per paragonare quella fase alla stagione dei centri sociali. Questi ultimi, rispetto ai circoli, cercano legittimazione – almeno tra le esperienze più mature – nella capacità di dialogo con il contesto urbano: sono organi che traggono legittimità non dalla radicalità ideologica ma dalla territorialità; a volte (raramente per la verità) hanno la capacità di impostare qualche vertenza di quartiere su trasporti, casa, immigrazione, vivibilità, eccetera. E devono ricalibrare linguaggi e parole d’ordine dentro questa necessità di reinsediamento in quartieri pacificati o desertificati. Quindi, rispetto alla vecchia esperienza dei circoli, il «centro sociale occupato autogestito» si qualifica come organo più sociale, più duttile, che abbisogna di una serie di adeguate mediazioni (sempre da costruire e ricostruire) per alludere a una politica rivoluzionaria. Le simbologie parlano sempre chiaro: dopo gli anni Ottanta, per dire, la maggior parte dei «nuovi» centri sociali mettono in secondo piano la falce e martello e adottano il simbolo degli squatters, politicamente meno «complicato» da gestire.


Per la rilevanza che ha nel funzionamento di qualsiasi forma organizzativa, il rapporto tra composizione militante e composizione sociale è uno dei nodi più problematici e rimanda direttamente all’annosa questione del rapporto tra spontaneità e organizzazione. Come ha funzionato questa dialettica all’interno dell’esperienza dei centri sociali? Era un rapporto segnato da separatezza, conflitto o sovrapposizione?

 

In quegli anni va in tilt la dialettica tra «spazio sociale» e «spazio politico». Ѐ una questione che si intreccia strettamente con la decantazione dell’area dell’autonomia operaia, inutile negarlo. Quando nel ‘92 si convoca a Napoli l’assemblea nazionale dei centri sociali – partecipatissima – si scatta una fotografia molto realistica della situazione: la maggior parte dei centri sociali fanno ancora riferimento al Coordinamento Antinucleare Antimperialista; alcuni hanno già un’altra connotazione; altri sono strutture in transizione identitaria, in una dinamica di sganciamento dall’area politica. Nei territori la dialettica tra «politico» e «sociale» si articola variamente. Si cerca di tenere in piedi il «doppio livello» – a Napoli, Torino, Firenze, Bologna, nelle storiche piazze di Padova e di Roma; ma fatalmente il sociale si mangia il politico. Ѐ un po’ la parabola del Leoncavallo, che fagocita buona parte della piazza autonoma milanese, seminando altissime aspettative e forti elementi di egemonia, per poi ritirarsi verso altri sentieri e lasciare dietro di sé il vuoto. Stesso discorso per tutta l’apertura del dibattito nazionale sull’autogestione come forma economica alternativa – produzione di reddito, legalizzazione –, dibattito che lascerà sul campo più divisioni che progetti.

L’equilibrio tra «spontaneità» e «organizzazione» è appunto un equilibrio mai risolto, instabile, sempre da ricostituire. Il problema è che l’elemento «organizzazione» era in continua ritirata e lo spontaneismo diventò una lenta inerzia che si affermava giorno dopo giorno, in modo trasversale, investendo sedi e territori


Gli anni Novanta sono stati caratterizzati dalla nascita dell’economia del digitale e della rete. Qual era il discorso teorico egemone attorno a questi temi e qual era l’approccio pratico alla rete?

 

Secondo me quei discorsi riguardavano circoli ristretti di compagni che avevano voglia e competenze. In principio fu la rete Okkupanet – nata dentro le università (ma si era proprio in una dimensione ultra sperimentale, quasi ludica); poi arrivò European Counter Network, che sollevò alte aspettative ma sul piano pratico non produceva grandi ricadute, se non la possibilità di «specializzare» in quegli ambiti nuclei di giovani compagni. Dopo la metà degli anni Novanta la rete cominciò a diventare un’esigenza diffusa, ma si era già dentro l’onda complessiva che investì la società e i posti di lavoro. Ricordo piuttosto molti ottimismi utopistici (e puerili) sulla possibilità che la rete (con tutta la retorica «rizomatica» di questi discorsi) potesse ridisegnare i modelli organizzativi, agevolare la mobilitazione e persino le prospettive rivoluzionarie, come se le tecnologie digitali fossero spazi neutrali da occupare e di cui semplicemente provare a rovesciare il segno. Si è visto come è andata a finire: almeno per quanto riguarda l’Italia e la sua gioventù, l’incedere dell’ iperconnessione ha fortemente depotenziato la partecipazione diretta ad ogni cosa – la vita, la sfera delle relazioni collettive, l’immaginario. Da quasi 15 anni non esiste un movimento studentesco e in alcuni contesti ormai si fa fatica anche a organizzare una semplice riunione, perché la gente pretende di farle «da remoto» – tra un po’ pretenderanno di fare anche le rivoluzioni in questa modalità… Non vedo spazi di liberazione o potenzialità, in questa deriva antropologica: solo controllo sociale e soprattutto mentale.


Nella storia delle organizzazioni militanti le riviste hanno spesso ricoperto un ruolo centrale. È stato così anche per i centri sociali? Quali erano le riviste o le fanzine più importanti e che ruolo ricoprivano? 


Da quel che ricordo esistevano molte fanzine volanti che erano espressioni assai creative e provvisorie – ancora realizzate a trasferibili, colla, ritagli e fotocopiatrici; purtroppo molta di quella produzione essenzialmente cartacea immagino sia di difficile reperibilità. Onore a chi sta digitalizzando quel che resta degli archivi, che sono una specie di macchina del tempo (cercando altre cose, mi sono imbattuto in un bollettino studentesco dell’‘85 di un anonimo istituto tecnico avellinese: l’avevo curato io e non lo vedevo da 40 anni, chissà com’era finito in quell’archivio, dall’altra parte d’Italia…). Le fanzine dei centri sociali erano espressione di piccole redazioni improvvisate, vivevano per qualche numero poi scomparivano o tornavano con altri redattori ed altre finalità. Nei primi anni Ottanta le tematiche prevalenti su quei fogli riguardavano il carcere e la repressione diffusa, letta come elemento della società di guerra e dell’incubo atomico che incombeva; dopo Chernobyl prevalsero le battaglie contro il nucleare civile e la lotta per la casa. Discorso diverso per le riviste «da tipografia», più strutturate e legate soprattutto all’area autonoma, che a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta circolavano dentro i centri sociali: penso allo storico periodico veneto Autonomia, al milanese Autonomen, e dopo il ‘94 ai robusti volumi di Vis a Vis. La loro crisi ed estinzione, racconta un po’ anche la parabola della soggettività politica, le trasformazioni irreversibili, il ricambio di ceto politico, l’esaurimento delle capacità di sintesi che si visse in quegli anni.


I centri sociali esistono ancora oggi ma è difficile negare che hanno esaurito già da tempo la loro capacità organizzativa. Continuano ad esistere ma come simulacro del passato in un contesto in cui molte delle istanze che ne avevano alimentato la forza sono state riassorbite dal mercato. Quali sono state secondo te le cause dell’esaurimento di questa forma organizzativa? Quali sono stati i suoi limiti principali?


I centri sociali vivono la loro stagione migliore quando sono diretta espressione di una soggettività politica comunista. Quando viene meno quest’anima, diventano luoghi spuri che si sovraccaricano di aspettative di cui non sono all’altezza: né sedi politiche né organismi di massa. Lo so che è un discorso demodé, ma è la conclusione a cui sono arrivato io: senza la soggettività politica, l’iniziativa sociale si smarrisce e non trova una sua «politicità» intrinseca. Chi pensò negli anni Novanta che si poteva trascendere dai luoghi e dalle forme della politica per «sciogliersi» nel movimento dei centri sociali – o nei comitati di base, il ragionamento è il medesimo – lo fece sulla base di una lettura eccessivamente ottimistica. Ѐ vero che la moderna composizione sociale esprimeva un rapporto qualitativamente diverso tra sociale e politico, ma non era vero che tale rapporto si potesse «risolvere» nella prassi senza soggetto, senza progetto, nell’invenzione quotidiana. Io leggo l’isterilimento del ciclo dei centri sociali come stretta conseguenza delle trasformazioni dentro l’area dell’autonomia. Oggi servirebbero centri di iniziativa popolare in grado di lavorare sui problemi dei quartieri e sulle aspettative tradite da un welfare pubblico in ritirata: ma con quale personale politico potresti farlo, se non si apre una nuova stagione di protagonismo giovanile?



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Giovanni Iozzoli è campano. È stato tra i fondatori di Officina 99 e attivo nelle lotte per la casa e il lavoro a Napoli, negli anni Ottanta e Novanta. Vive  a Modena da 30 anni ed è delegato sindacale metalmeccanico. Ha scritto romanzi, partecipato a volumi collettivi, collabora a diverse riviste ed è redattore di Carmilla.

 

Antonio Alia ha coordinato la redazione di commonware.org, con cui ora cura l'omonima sezione. La sua formazione da militante è iniziata con il movimento dell'Onda.

 

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