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Intervista a Salvatore Cominu e Luca Perrone



Tra i più importanti campi di sviluppo della Pantera ci sono sicuramente quello della comunicazione e del sapere applicativo, come lo definisce Salvatore Cominu in questa seconda parte della tavola rotonda. Su di essi gli studenti del movimento costruirono delle vere e proprie «prassi istituenti» che evocavano delle forme di riappropriazione e di contro-uso dei mezzi di produzione consegnati dalle trasformazioni capitalistiche dell’epoca. Tuttavia quelle pratiche, che nascondevano un germe di autonomia del lavoro vivo all’altezza delle forme di accumulazione coeve, finirono per diventare una delle principali leve di innovazione capitalistica. Sulla scorta di queste riflessioni, quali possono essere oggi i campi di sviluppo di «prassi istituenti» che sappiano misurarsi con il funzionamento del capitalismo contemporaneo?  

Qui la prima parte dell'intervista.


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Veronica Marchio: Una delle cose che mi è capitato di leggere sulla Pantera, si trova nel libro di Alquati, Cultura, formazione e ricerca (DeriveApprodi 2023), dove c’è un paragrafo in cui l’autore critica il movimento e la sua concezione di sapere alternativo. C’era un dibattito su questa questione del sapere alternativo e dell'auto-valorizzazione? A me sembra che oggi ci sia una grande presenza di sapere critico nell'Accademia che però si è mangiato la capacità di produrre teoria politica. 


Luca Perrone: Per quanto riguarda me e il mio gruppo, eravamo davvero molto indietro, nel senso che favoleggiavamo di seminari autogestiti che avrebbero dovuto creare chissà quale sapere. Se il sogno di Salvatore era rappresentato da disciplinati militanti rivoluzionari forgiati da Ingegneria, noi favoleggiavamo di ricercatori scalzi e insegnanti che insieme a noi avrebbero costituito ambiti molto orizzontali di dibattito. Tutto questo, secondo me, è stato mangiato dalla velocità dell’esperienza. Da un lato, quando si è in pochi a gestire un movimento si ha l’impressione di essere risucchiati dalla parte ludica, dalla sua dimensione organizzativa e dalla sua velocità. Dall’altro noi non eravamo adeguati, per numero e per capacità (noi, non coinvolgo Salvatore) per gestire tutte queste cose. Quando parlo di auto-valorizzazione indico una dimensione molto informale: quelle giornate passate in dipartimento, quelle discussioni che creano informalità e anche una produzione di pensiero più radicale. La dimensione di movimento è quella che permette ad Emma, di formazione cattolica, di parlare con uno di formazione rivoluzionaria senza mandarsi a «cagare». Da lì, a consolidare chissà quale teoria politica ce ne passa. Usciti dalla Pantera partecipiamo ai seminari di Parigi degli anni Novanta – su cui non a caso ho scritto un articolo per Machina. Qui c’è stato per noi il vero incontro con la teoria politica: fino al giorno prima la nostra teoria si riduceva all’azione diretta e basta: c’è una centrale nucleare? Andiamo a tirare i sassi, la scassiamo! La teoria politica era questa, per noi. Quel passaggio invece è importante. Citavo l’articolo di Lazzarato su «Futuro Anteriore», poi da lì nascono una serie di riviste: «Clinamen» a Milano, «Riff-Raff» a Torino, e altre ancora. Nascono tutta una serie di novità, mentre fino all’anno prima andavamo a cercare dal rigattiere i libri di Negri come Dominio e sabotaggio mandati al macero. Scopriamo che c’è una teoria politica all’altezza del XXI secolo o comunque degli anni Novanta, segnati dal crollo del muro di Berlino, dalla fine di un’epoca, dalla fine del Pci e a distanza di poco tempo da mani pulite. Si apre un periodo di pubblicazione di riviste molto ricco che per me è stato una conseguenza diretta della Pantera. Un anno dopo la Pantera scoppia la prima guerra in Iraq. Il mio gruppetto, che dopo il movimento si era evoluto, aveva dato vita ad un altro gruppo che si chiamava «Falso spettacolo», di ispirazione situazionista. Negli anni in cui la Democrazia cristiana e il Partito comunista si sciolgono e sembrano aprirsi delle possibilità, si prova ad adeguare il pensiero operaista in maniera molto forte, cosa che comportava anche rompere con chi, in particolare a Torino e nell’Autonomia, rimaneva legato a visioni precedenti e a comportamenti che per noi erano stati messi in crisi dall’impatto del movimento di massa. Infine, a partire dal ’92 la questione della comunicazione diventa centrale ed esplosiva: saranno gli anni delle radio, tipo radio Blackout e si aprirà  tutto un dibattito sulla comunicazione. Era una novità molto grande, anche grazie all’immaginario cyberpunk che si portava dietro.


Salvatore Cominu: Dico anche io la mia su questa questione. Mettiamola così: è vero che sulla Pantera, di pubblicazioni esplicitamente dedicate all’analisi o alla ricostruzione non ce ne furono tante, ma alcune ci furono, già immediatamente a ridosso. E non casualmente si focalizzarono sul tema della comunicazione che fu centrale. Non a caso quello che poi divenne il principale protagonista politico della seconda repubblica, negli anni Ottanta, rivoluzionò l’emittenza televisiva italiana (lasciando perdere in quale direzione). Un anno dopo a Torino nasce la facoltà di scienze della comunicazione: sembrava che il terreno della comunicazione fosse un grande campo di investimento e di valorizzazione capitalistica, ma, al tempo stesso, anche una grande pratica, una pratica in cui poi ci si cimentò. Militanti, partecipanti, attivisti, panterini o meno, furono portati a sperimentare. Radio Blackout recupera qualche Pantera anche se non così tanto, se andiamo a vedere. Escono pubblicazioni come Il circo e la pantera. I mass-media sulle orme del movimento degli studenti.(Loredana Colace, Susanna Ripamonti, edizioni led 1990). Significativamente, in questo libro, si afferma, cosa che non condivido ma che ha una sua rilevanza, che il caso Ghignoni fu la Valle Giulia della Pantera. La spiego un attimo. Ghignoni era un compagno, un ex-brigatista che venne invitato a parlare insieme ad altri militanti degli anni Settanta in un seminario organizzato alla Sapienza di Roma, che aveva lo scopo di mettere assieme la Pantera e il Settantasette, la Pantera e gli anni Settanta. Era un compagno che era stato condannato anche se poi era uscito. Qui è poco rilevante la sua vicenda personale, è rilevante invece il fatto che il giorno dopo «la Repubblica» in prima pagina titolò: «lezioni di mitra alla sapienza». Ci fu uno scontro con l’informazione ufficiale. I compagni di Roma ebbero una certa capacità di risposta e l’abilità di inserirsi dentro i nuovi format televisivi, i talk show, che nacquero più o meno in quegli anni. Ne venne fuori una battaglia mediatica. Dire che quell’ episodio fu la Valle Giulia della Pantera era un'affermazione retorica perché non ci fu una Valle Giulia, ma è altrettanto chiaro che fu uno dei momenti di massimo scontro e si giocò tutto sulla comunicazione. Quest’ultima quindi era un elemento centrale che portò molti di noi, e probabilmente molti che erano già dentro l’Università e parteciparono al movimento della Pantera, ad interrogarsi su cosa voleva dire comunicare. Anche Alquati scrisse un libro. Romano [Alquati,ndr] non ebbe un ruolo importante nella Pantera, però era uno che rifletteva molto su questi temi. Ho vissuto in modo meno deflagrante il rapporto con l’emergere di un movimento perché avevo un gruppetto con cui mi relazionavo – anche se non avevo una continuità organizzativa come quella a cui faceva riferimento Luca. Per me il tentativo da fare era quello di portare una parte di questo movimento su una certa prospettiva. Noi avevamo sempre lo sguardo rivolto all’indietro. Ci domandavamo: «come erano nate Lotta Continua o le organizzazioni della nuova sinistra?», con un incontro tra avanguardie studentesche del Sessantotto e avanguardie operaie dell’autunno caldo o della primavera del Sessantanove: a Torino, nasce proprio materialmente così. Durante i Novanta, avevo l’idea di radicalizzare la critica dell’Università e che le avanguardie studentesche sarebbero diventate un ceto di militanza politica che, in qualche modo, avrebbe dialogato con altri pezzi di società. Avevo in mente questo schema mutuato da precedenti esperienze. La Pantera però fu essenzialmente un movimento universitario che aggregò attorno all’Università, ma non riuscì ad andare oltre perché interrogò un sociale muto, si sviluppò in un contesto nazionale senza mobilitazione sociale. Qualche anno dopo, Luca mi chiese: «che effetto avrebbe avuto un movimento come quello della Pantera nell’Italia di mani pulite e nello scongelamento del sistema dei partiti?». In un contesto in cui tra l’altro emergevano nuovi fenomeni come il leghismo e i centri sociali si moltiplicano in moltissime città.

Non andavo ai seminari di Parigi, ma con una serie di compagni, tra cui anche Luca che invece li frequentava, apriamo una riflessione, attraverso una rivista, su cosa significava lavoro intellettuale e intellettualità di massa, su cosa significava – non usavamo questi termini – il processo della proletarizzazione dell’attività intellettuale. Fino a qualche anno prima era lecito immaginarsi l’istruzione universitaria come passepartout per l’integrazione in un ceto medio relativamente privilegiato. Fino agli anni Ottanta infatti la laurea ti dava accesso al ceto medio e alle classi medie, in senso soggettivo e non solo in senso materiale. Inizia lì tutta la riflessione sul capitalismo cognitivo e sul lavoro cognitivo. Inizia lì il tentativo da parte soprattutto del filone operaista, post-operaista, di costruire una critica e di dotarsi di una teoria politica con elementi di critica politica all’altezza delle trasformazioni del capitalismo, che si iniziavano a percepire pur non essendo ancora dispiegate. Pur essendo arrivato, come sapete, su posizioni molto critiche verso quella stagione, l’ho attraversata tutta. Credo che fossero delle scommesse giuste, che quello fosse, come dire, un interrogarsi necessario, un tentativo di giocare in anticipo rispetto alle trasformazioni stesse. Certo, arrivava l’input parigino che era molto forte, però non era l’unico ambito che si interrogava su questi problemi. Partì una riflessione effettiva, un dibattito, che non so se produsse momenti così significativi di teoria politica, ma che, certamente, dentro la Pantera non era stata particolarmente agitata nemmeno nei luoghi più avanzati. Si costituirono gruppi di studio, seminari, spesso mimetici ai corsi universitari. Noi stessi facemmo un corso sul tema del comunicare, proprio con Romano subito dopo la Pantera e a ridosso della nascita di radio Blackout. Nacquero molte altre esperienze di questo tipo, in ambienti che non erano troppo vicini a noi. Tutto un gruppo si lancia a lavorare sul terzo settore: un pezzo dell’area di Scienze Politiche dà vita al gruppo dirigente di uno dei più grandi gruppi cooperativi, sono quelli che poi scriveranno le riforme del collocamento obbligatorio e che apriranno ad un’idea imprenditoriale forte del terzo settore. Molti di questi venivano dalla Pantera. Sono sviluppi molto distanti dai nostri che però nascono lì, anche dalla riflessione sulla comunicazione e danno vita a piccole imprese. A Torino nacquero imprese legate al mondo dei media culturali, fatte integralmente da gente che era interna al movimento della Pantera. In altre parole, ho visto l’eredità di quelle occupazioni, se devo guardare all’esperienza torinese, molto di più nei processi di innovazione sistemica che in altro. Certo, con numeri piccoli e relativi ad esperienze marginali, ma tutti, in ogni caso, interni alla dinamica dell’innovazione capitalistica. Nuove merci, nuove forme di lavoro, nuove idee di valorizzazione all’interno del sociale che, però, avevano una loro ambivalenza che era ciò che cercavamo di studiare con Alquati. Chi ha continuato a fare politica dopo la Pantera, per qualche anno si è ritrovato con un gruppo più ampio. Noi proviamo a dare continuità con un collettivo che si porta dietro una cinquantina di persone. Ma anche in questo caso, confermando quello che dicevo prima, molti di quelli che parteciparono a questo collettivo, poi divennero personaggi televisivi. Il grosso di ciò che è venuto dopo la Pantera non è confluito sul piano del rinnovamento della teoria politica, ma sulle pratiche di tipo professionale, a cavallo tra innovazione e inclusione, dentro una dinamica di rinnovamento del sistema capitalistico. Ci fu una piccola parte che si mise a fare cose completamente diverse da quelle che faceva prima e che ha avuto un ruolo significativo nel rinnovare il lessico e l’immaginario. Credo sia giusto dire che senza quella stagione non avremmo nemmeno avuto ciò che ha preso forma a cavallo di Genova e che poi divenne l’area della «disobbedienza», che matura, di fatto, qui con tutte le sue divergenze. Chiaro, è stato un processo lungo, ma le biografie sono quelle: moltissimi di quelli che ho trovato in Uninomade e nelle Tute bianche, appartengono a quella generazione politica che si era fatta le ossa nella Pantera e poi dentro le esperienze successive nei confronti delle quali quel movimento funzionò come leva per spingere una radicalizzazione della riflessione verso ciò che stava cambiando nella struttura dell’impresa, dell’economia capitalistica e certamente anche della mentalità e della soggettività del lavoro. Questa per me è l’eredità di quel movimento. Parlavo in continuazione di sapere critico e francamente non avevo la più pallida idea di cosa fosse. Alcuni più vecchi, fuori corso che avevano fatto il Settantasette, tutti nella facoltà di Magistero, proponevano incessantemente seminari autogestiti che, però, facevano soprattutto loro e qualcuno che riuscivano ad aggregare. In generale era molto forte la dimensione operativa e applicativa del sapere.


L.P.: Sono d’accordo, però, all’uscita del movimento della Pantera, tra il ’90 e il ’92 l’impressione era quella di assistere ad un’esplosione della rivoluzione dall’alto e ad una sorta di implosione di un sistema. Pensare che la Dc dopo cinquant’anni si sciogliesse, era una cosa che faceva la sua impressione.


S.C.: Sembrava l’ordine naturale delle cose che esistesse la Dc al governo e il pentapartito.


L.P.: All’uscita della Pantera c’era l’idea che c’era stato un movimento grosso all’Università e  che sarebbe stato replicabile. Per noi il ciclo era: Sessantotto, Settantasette, Ottantacinque, Novanta, e poi Novantatré? Novantaquattro? Un evento ogni 5-7 anni. Era un ragionamento meccanicistico, certo, ma avevamo questa idea. Occupammo il Murazzi, il primo centro sociale dell’area dell’Autonomia, arrivammo ad avere una radio e una rete di riviste (non erano proprio nostre, come «Riff-Raff»), nacque una rete come Ecn con cui, in tutta Italia (ma anche a livello internazionale), ogni giorno scambiavamo notizie: tutto era collegato. Nel ’92 Los Angeles prende fuoco, e inoltre si afferma la musica rap. Gli Onda rossa posse non sono Guccini, sono una roba nuova che con un linguaggio nuovo investe una generazione nuova. Arriva a quel punto la generazione di Toni Negri, che aveva circa la mia età di adesso. Toni non ci appariva come di una generazione passata, diceva delle cose nuove e all’altezza dei tempi, cavolo! Mi sento di dire che in quel momento ci sentivamo di iniziare un percorso che aveva delle solide basi nel crollo di quel sistema e del modello sovietico. Eravamo antistalinisti e nemmeno per sbaglio potevamo essere confusi con quella storia, perché quella storia stava crollando attorno a noi e noi facevamo festa. Poi però non calcolammo che c’era Berlusconi, che la dimensione sistemica era forte e poteva recuperare tutto. Coglievamo delle novità ma non all’altezza della teoria di cui ci sarebbe stata necessità. Tuttavia, banalmente, non era più il dibattito del Sessantotto contro l’autoritarismo nelle scuole e non si trattava più degli studenti lavoratori del ’76-’77 di Alquati. Avevamo chiaro che c’era una novità che riguardava la comunicazione, e infatti andammo a rileggere La società dello spettacolo di cui, tra l’altro, era uscito un commentario: una sorta di riattualizzazione vent’anni dopo. Coglievamo, secondo me in modo giusto, una grande novità nella composizione di classe.


S.C.: Va chiarita una cosa. C’era una rivista chiamata «Riff-Raff», padovana e con distribuzione nazionale e un’altra rivista, con lo stesso nome, che era la nostra di Torino: avevamo preso il nome dal titolo del film di Ken Loach.


L.P.: Il fatto che in quel momento fosse arrivato il film di Ken Loach e dopo poco Gabriele Salvatores con Sud, per noi era una cosa importante perché voleva dire che i nostri contenuti passavano anche a livello di massa. Per la prima volta superavamo i nuclei militanti. Ricordo che eravamo 12 nell’Autonomia, la nostra dimensione di massa era di 4 persone, 10 militanti  più 4, 4 di numero, due coppie: questa era la nostra realtà. Da questa situazione passiamo ad una realtà, quella torinese era tra le più sgangherate, che comprendeva una radio, un centro sociale, un intervento in Università, un intervento tra gli studenti medi, la rete Ecn che ci collegava a tutto, dei rapporti internazionali e un dibattito reale. Secondo me era tanta roba, per di più carica di potenza. Inoltre quello era il momento del sindacalismo alternativo che era nato in maniera potente. C’era stata la rottura della Fim milanese, quando nacque la Cub si portò via tutti i suoi quadri, che non erano uno scherzo. In quegli anni i Cobas ruppero nella ferrovia e nella scuola con un’esperienza di massa mica da ridere.


S.C.: In questo contesto ricostruito da Luca non bisogna dimenticare le contestazioni in piazza alla Cgil di Cofferati per gli accordi concertativi, quelli sì rilevanti, che ridussero di fatto e definitivamente il salario variabile dipendente della produttività, capovolgendolo. Fu una stagione in cui Cofferati si presentava in piazza e si beccava i bulloni.


L.P.: Parlavano con gli scudi di plexiglass davanti, per poter parlare in piazza… Il clima non era pre-insurrezionale, non eravamo degli illusi, ma era davvero un clima interessante secondo me. C’era un nucleo nuovo di militanti - all’epoca eravamo giovani e belli - che avevano energia e forza intellettuale per iniziare a percorrere altri spazi. Salvatore ha insistito, secondo me giustamente sulla dimensione controculturale della musica punk, dark ecc, e poi arrivò il movimento delle Posse. Voleva dire davvero parlare a migliaia e migliaia di persone come noi, della nostra età e con dei linguaggi assolutamente adeguati.


S.C.: L’elemento di novità si può facilmente afferrare soprattutto se confrontiamo questa nuova situazione a quella antecedente. Io sono cresciuto con modalità che non rinnego, per me la militanza politica era il collettivo, che aveva i suoi elementi positivi. Ma si trattava di una riunione di dieci persone in una saletta affittata. Dopo la Pantera le cose sono cambiate.


Veronica: Avete già detto molte cose: il contesto intellettuale critico e politico, il rapporto coi movimenti degli anni Settanta. Ora vorrei tornare sulla questione dell’Università. Entrambi ci avete parlato dei seminari autogestiti oppure della questione degli appelli. Una cosa su cui riflettevamo, ad esempio, è il fatto che durante il movimento della Pantera non esistevano ancora i crediti, quella forma di identificazione del valore della conoscenza universitaria, che, per la nostra generazione invece, è centrale. L’università che vivevate voi era priva di questo criterio. La sua introduzione, forse, è uno dei primi passaggi che apre al processo di industrializzazione dell’università e della formazione e, quindi, della misurazione del tempo di studio e del tempo di insegnamento, di direzionamento dei contenuti ecc. In quel contesto cosa si faceva sulla questione della didattica? Quali erano le discussioni e le pratiche di rivendicazione? In che senso era forte la dimensione applicativa del sapere?


Elia Alberici: Mi pare di aver capito che il discorso della qualità del sapere che si produce all’Università e della formazione non venne direttamente problematizzato. Questo aspetto mi interessa molto anche perché, a giudicare dai risultati della piccola inchiesta che abbiamo condotto, nell’ Università di oggi per molti studenti - non militanti ma studenti, soggettività non politicizzate – invece è centrale.


S.C.: Preciso i termini. Quella era un’Università in cui c’era la possibilità di far riconoscere i seminari autogestiti, oggi diremmo con i crediti. Questa forma di seminari era mutuata, come dire, da stagioni precedenti che in realtà, ma non prese molto piede dentro l’Università. Io ero uno che parlava sempre di sapere critico. La mia impressione è che fosse un nostro modo di mettere un cappello ideologico. Cos’era questa dimensione critica, alla fine? Difficile da mettere a fuoco. Tutto sommato quella era un’Università che conteneva, così come lo è oggi, il sapere critico. Neanche oggi vedo una preclusione o delle barriere verso specifici contenuti. Tant’è che le università sono piene di nicchie di teoria critica. Semmai poniamoci il problema se questa è teoria critica. O meglio, è teoria critica ma relativamente innocua. Io seguivo dei corsi, dei seminari con contenuti radicalissimi che facevano parte del curriculum istituzionale. Romano si teneva il suo corso, non aveva un potere accademico ma presentava il modellone. C’erano i corsi di Luisa Passerini di metodologia della ricerca storica, pieni di approcci non allineati e radicali. Non è che non ci fosse il sapere critico nell’offerta formativa ufficiale. All’epoca non sapevo cosa significasse qualificare in termini critici la dimensione del sapere. Sembrava quasi una forma preventiva rispetto all’idea, un po’ semplicistica e ingenua, per cui con l’autonomia universitaria sarebbe arrivato il management privato, un Berlusconi a dirci qual è la scienza della comunicazione che conta. Forse non è un caso che non sappia cos’è un sapere critico - forse tu Luca hai un’idea diversa -  perché probabilmente non era un tema rilevante per quel tipo di soggettività. Quando uso il termine applicativo è perché mi sembra che le esperienze di attivazione che si sono date siano andate oltre alla dimensione del sapere. Guardate anche quello che abbiamo fatto noi: ci siamo messi a fare riviste, ci siamo messi a produrre, a costruire una cooperazione produttiva che non fosse solo libresca. Luca, con altri, aveva dato vita, a parte a Falso Spettacolo, ad un gruppo chiamato Punto Zip nato intorno all’uso delle tecnologie. O ancora, ci sono quelli che si mettono a fare i video e già dentro l’occupazione, come dicevo, fanno l’Occhio della Pantera e poi creeranno i loro percorsi e le loro imprese.Vedo un’eredità, oltre a quella politica, soprattutto in queste forme di riappropriazione, chiamiamole così, di strumenti, mezzi e risorse. L’uso del fax, citato da Luca all’inizio, è centrale. Fu uno spartiacque, una rivoluzione vera, perché gli strumenti e i mezzi di produzione, i mezzi di produzione del terziario che stava formandosi come settore di riferimento della stessa economia capitalistica, sembravano ancora fuori portata di mano. Oggi invece quegli strumenti sembrano normali e anzi sembrano più strumenti di cattura. L’idea di prenderceli in mano, di produrre noi i video e le riviste – si sono sempre fatte per carità – di fare i concerti, quella fu una cosa fondamentale. Anche io mi metto ad occupare i centri sociali, all’inizio con l’idea non ben chiara di costruire un’area politica, ma io stesso mi metto ad organizzare una caterva di eventi musicali, contro-saloni del libro, ecc. Cosa stavamo facendo? Innovazione capitalistica? Stavamo contribuendo al sistema dei locali, dei club e dell’offerta culturale che era molto arretrato, soprattutto a Torino che poi si sveglierà ed inizierà a fare le cose come si deve, copiandoci anche per molti aspetti? Per applicativo intendevo soprattutto questo: mettersi a fare delle cose il cui tratto unificante è l’idea, in qualche modo, di usare i media e le comunicazioni, la prassi comunicativa, come momento fondamentale di organizzazione. L’organizzazione nasce intorno ai momenti e ai mezzi comunicativi o agli spazi che, però, sono la stessa cosa. Diventa il nucleo organizzativo di quella rete di cui parla Luca che fosse composta dai nodi Ecn, dalla radio (fu un ambito importantissimo), dalla più tradizionale vecchia rivista che però era intrecciata a tutte queste cose, dallo spazio sociale. La soggettività militante/attivista dei primi anni Novanta l’ho vista crescere soprattutto intorno a questi strumenti e la Pantera fu un momento fondamentale da questo punto di vista: qui  vedo grandi continuità tra ciò che accadde dentro la facoltà occupata e gli stili della militanza, il lessico e l’immaginario di quello che venne dopo. Questo processo riguardò molte altre persone che infatti finirono nei canali ufficiali dell’industria culturale, nei circuiti della produzione culturale «dal basso» o che transitarono nel terzo settore. Non ne abbiamo parlato ma in quegli anni  finì anche il Pci: non fu una cosa piccola (il Pci esercitò un’influenza molto forte sul nostro immaginario: noi stavamo con quelli della piazza, non coi carri armati ovviamente) ed anche i giovani che venivano da Rifondazione comunista o da Democrazia proletaria si riversarono dentro i centri sociali e non erano nemmeno pochi.


L.P.: Io volo sempre molto più basso di Salvatore. Veronica prima parlava dell’industrializzazione dei processi della formazione, dell’Università. Nel ’91, quindi l’anno dopo la Pantera, incontrammo Bifo a Torino perché dovevamo pubblicare un libretto per la sua casa editrice. (successivamente il testo venne sequestrato perché era un incitamento al sabotaggio dell’università. Avevamo fatto l’elenco dei professori che al Politecnico lavoravano per la guerra, ed era successo un casino). Durante quel confronto avevamo detto a Bifo che noi leggevamo la trasformazione dell’Università come un processo di industrializzazione del sapere. Lui aveva riso e ci aveva detto: «siete proprio torinesi, perché soltanto ad un torinese potrebbe venire in mente di parlare dell’industria del sapere, avete la Fiat piantata dentro. Guardate che il mondo è tutto diverso, quel modello che avete in testa voi dell’industria sta andando ben oltre». Mio padre lavorava in Fiat come impiegato, io da bambino la prima parola che ho scritto è stata Fiat quindi mi ero sentito particolarmente toccato. Il nostro approccio polemico era molto arretrato e si basava ancora sulla critica ai baroni che per noi erano quelli dell’area del Pci, di Lotta Continua o socialista. Salvadori, Tranfaglia, Gian Mario Bravo, probabilmente sono nomi che non conoscete. Gian Mario Bravo ora lo valuto una persona degnissima e che avrei dovuto ascoltare meglio ma, all’epoca, aveva scritto questi libri contro l’estremismo, dove c’era la foto di Toni Negri sotto lo striscione di Potere Operaio. Non potevamo in nessun modo accettare quell’attacco. Poi c’erano i De Luna, i Buongiovanni, quelli di una generazione di insegnanti che avevano fatto l’esperienza di Lotta Continua. Per me è stata anche un’occasione mancata, perché durante la Pantera avemmo molti contatti con diversi insegnanti e poi con i ricercatori ma, appunto, fu un incontro mancato. Noi avevamo l’idea dei seminari, era proprio una mitologia e Alquati faceva bene a riderci dietro, perché avevamo ancora in testa il seminario autogestito del Sessantotto con il 30 politico alla fine e 4 esami. Quello che non avevamo era il rapporto di forza di imporlo anche se non aveva nemmeno più senso fare una cosa di quel tipo. Mi ritrovo con quello che dice Salvatore: se avessimo proposto dei percorsi di studio anche particolarmente radicali, l’Università che frequentavamo noi ce li avrebbe tranquillamente accettati, a patto che ci fossimo messi a studiare. Sul tema del sapere vorrei dire che non rivendicavamo un sapere astratto (quello della torre d’avorio). Quando lottavamo per l’autonomia non volevamo riprodurre un sapere fuori contesto, che non doveva essere contaminato dall’industria o dal rapporto col mondo del lavoro. Tuttavia, non volevamo che fosse diretto da queste cose. Intendevamo il sapere come uno strumento di auto-valorizzazione personale e collettiva, come costruzione di un percorso alternativo e collettivo. Ciò che noi del gruppo militante chiamavamo auto-valorizzazione consisteva nell’avere l’autonomia di decidere quale dovesse essere il percorso. Non si poteva parlare di una costruzione di contro-soggettività perché a livello di massa non era presente questa grande richiesta ma appunto, per noi si trattava almeno di poter determinare i percorsi di studio e che quel percorso non dovesse essere immediatamente e necessariamente spendibile sul mercato del lavoro. A me piaceva l’idea di un’Università dove costava poco iscriversi, dove potevi conoscere e frequentare per 3 anni delle persone con cui discutere e dove fare anche 5 corsi per poi renderti conto che non ce la facevi o che non ti interessava. Noi rivendicavamo queste possibilità, che consideravamo importanti, perché era giusto che le persone facessero l’esperienza dell’Università, che sapessero delle cose, poi se finivano il percorso universitario bene e se non finivano andava bene lo stesso. Eravamo dell’idea che l’Università dovesse essere molto porosa e molto aperta, con studenti universitari che potessero accedere, finire il percorso o non finirlo, e che dovessero essere liberi di farlo. È una idea molto banalotta, ma conteneva anche una bella idea di società aperta. Noi da Palazzo Nuovo entravamo nel liceo situato proprio di fronte e nessuno ci fermava con il motivo che fossimo gente estranea. Ricordo quando la prima preside ci disse: «no fermi, non potete entrare»: era iniziato a venire fuori il problema della droga. Per noi esisteva ancora il residuo di una società molto più aperta, un residuo degli anni Settanta. Poi poco alla volta la società si è molto irregimentata. All’uscita della Pantera il mio gruppo, più che sul sapere ad un certo punto si è incartato sulla questione dello «spettacolo». Nel ‘91 era scoppiata la prima guerra del golfo, la Cnn si pone come il primo grande dispositivo mediatico che riesce a coprire una guerra a livello globale. Questa cosa ci colpisce molto e andiamo recuperare questa categoria di «spettacolo» che era certamente un’importante lezione di Debord e dei situazionisti, che ha un senso anche adesso, ma che con il senno di poi ci ha portato fuori strada. Di fronte alla dimensione spettacolare della guerra aveva senso ragionare, come diceva Debord, dello «spettacolo», del rapporto sociale mediato dalle immagini. Tant’è che ci facemmo anche una maglietta con un carro armato e il logo della Cnn: ci sembrava molto innovativo. Tuttavia lo era solo in parte perché ci eravamo persi un pezzo di ragionamento, che avremmo dovuto recuperare successivamente, sull’importanza della valorizzazione capitalistica. Non avevamo davanti solo una forma di dominio e di controllo ma anche una dimensione di valorizzazione che un po’ ci eravamo persi. Concludo dicendo che tra centri sociali e Università c’è stata sicuramente una forte commistione (come ha detto Salvatore). Collocarsi lì ha voluto dire per noi passare ad un livello di massa. Lì potevamo costruire i cortei, quando invece gli studenti universitari ai nostri cortei non gli abbiamo mai visti. Avere un centro sociale dietro l’Università voleva dire riuscire ad avere finalmente lo spezzone (e contare qualcosa non come negli anni Ottanta dove non contavamo nulla) e determinare l’andamento della piazza.

 


*La trascrizione non è stata rivista dagli intervistati, editing a cura di Antonio Alia


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Salvatore Cominu svolge attività di ricerca, formazione e consulenza in collaborazione con centri di ricerca. Nel corso degli anni ha partecipato a numerosi progetti di livello locale, nazionale e internazionale su molteplici temi, dalle indagini sul mercato del lavoro allo sviluppo urbano e territoriale, dall’economia sociale ai problemi dell’azione collettiva e delle soggettività del lavoro, alla valutazione delle politiche pubbliche. Cura, insieme a Giuseppe Molinari, la sezione Transuenze di Machina.

 

Luca Perrone collabora con la rivista «Machina» di DeriveApprodi, per la quale, con M. Pentenero, ha curato il testo La riproduzione del futuro. Le ipotesi di Romano Alquati per una trasformazione radicale. Ha pubblicato Banditi nelle Valli valdesi. Storie del XVII secolo (Claudiana, 2021) e, con Enrico Lanza, Abbiamo fatto un sindacato. Enrico Lanza: una vita dalla parte dei lavoratori (DeriveApprodi, 2022).

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