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Voci dalle mobilitazioni per la Palestina

Un'inchiesta tra le nuove generazioni in piazza


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La mobilitazione sulla questione palestinese ha visto scendere in piazza una composizione eterogenea, anche se un ruolo trainante lo hanno avuto gli studenti e le studentesse sia delle Università che delle scuole medie superiori. In questo articolo di inchiesta alcuni e soprattutto alcune di loro – visto che il protagonismo è stato soprattutto delle giovani donne – raccontano le ragioni per cui  hanno deciso di mettersi in gioco, interrompendo finalmente quel lungo periodo di passività politica che durava da qualche lustro. Per molte di loro si tratta della primissima esperienza politica, mossa soprattutto da un’istanza etica (che è contemporaneamente il punto di forza e il limite di questa mobilitazione) le cui radici affondano, materialisticamente, nelle loro forme di vita. L’altro elemento degno di nota che emerge tra le righe è l’assoluta estraneità di questa nuova soggettività alle forme della politica istituzionali e la consapevolezza che la politica è fatta di polarizzazioni e rapporti di forza.


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La grande mobilitazione di piazza che ha avuto luogo fra il 22 settembre e le prime settimane di ottobre ha colto di sorpresa in molti. La partecipazione ha assunto carattere di massa con la partenza della Global Sumud Flottilla: questo momento ha segnato, infatti, uno scarto netto rispetto alla fase precedente, raggiungendo il suo apice con il milione di persone in piazza a Roma. Ciò che ha reso particolarmente interessanti queste mobilitazioni è la forte partecipazione di soggetti con scarsa o assente esperienza pregressa di partecipazione politica e di piazza: per molti di loro si trattava della primissima esperienza di questo tipo.

Avendo riconosciuto l'importanza dell’inedito protagonismo di questi soggetti, è sorta la necessità di indagare la composizione delle suddette piazze, di comprendere le ragioni della dimensione di massa assunta dalle proteste a partire dallo sciopero generale del 22 settembre in poi.

Per questo motivo, abbiamo deciso di intervistare alcuni dei soggetti che hanno preso parte a queste mobilitazioni a Bologna. Le interviste hanno riguardato studentesse e studenti con età compresa fra diciannove e ventisette anni, appartenenti alla categoria sopra descritta.

L’inchiesta condotta, pur rappresentando soltanto una fase iniziale di un possibile percorso di ricerca più ampio, ha fatto emergere alcuni temi ricorrenti, degni di attenzione. In primo luogo, non sorprende che tutti gli intervistati abbiano indicato, come principale motivo della propria partecipazione, lo «sdegno morale» nei confronti del genocidio in Palestina, pur lasciando trasparire anche altre motivazioni sottostanti.



È letteralmente una necessità, cioè l'incarnazione di un sentimento di indignazione che non vuole rimanere tale, vuole diventare un sentimento, una lotta per il cambiamento. (V., studentessa di fisica, 20 anni)
È un accadimento storico che mi spinge moralmente a ripudiarlo. E voglio dare sfogo fisico, corporeo contro lo schifo che sta succedendo, voglio dire di no con tutta la mia forza. (Dl., studente di antropologia, 20 anni)
Ho iniziato a sentire il bisogno di scendere in piazza, diciamo per un motivo classico: perché è una cosa disumana. Io da essere umano, insomma… (G., studentessa di scienze della formazione primaria, 20 anni)
C'è una stanchezza nei confronti di questa situazione, perché dura da tantissimo tempo. Ed è anche qualcosa che riguarda bene o male tutti, perché si avverte un minimo di responsabilità civile, quindi tutti hanno sentito questa esigenza. (C., studentessa di lettere moderne, 19 anni)

Una reazione emotiva che assume i toni di un diffuso «senso di colpa», un «disagio interiore, che […] appartiene a tanti»: espressione di una responsabilità individuale sentita e condivisa.


Ti senti un po’ anche in dovere, in senso positivo, di partecipare. È una cosa che non succede tutti i giorni: comunque un genocidio è un fatto importante che accade, non è all'ordine del giorno. […] Una mia amica in particolare mi fa che lei ultimamente è proprio nervosa, agitata per queste cose e non capisce come la gente faccia a continuare a vivere la propria vita come faceva prima, senza pensarci neanche un po', senza neanche un po' di agitazione. Quindi sì, secondo me ti porta a rivedere un po' intanto la tua condizione di privilegio e a voler fare qualcosa per partecipare, qualsiasi cosa che possa fare un minimo la differenza. (N. studentessa di scienze della comunicazione, 21 anni)

 

Ciò che abbiamo definito «sdegno morale» si manifesta come una tensione verso un principio di coerenza: il tentativo di agire, nella propria quotidianità e a partire dalla propria collocazione sociale, il più possibile in conformità ai propri ideali.


Non la definirei tanto una questione di altruismo, quanto una questione di coerenza. Cioè, non mi viene da dire noi siamo quelli bravi perché noi facciamo le cose, perché noi aiutiamo gli altri, perché noi manifestiamo. Mi pare il minimo che possiamo fare, ma proprio il minimo. Mi pare più che dovuto. È non tanto un diritto quanto un dovere, che noi dobbiamo fare questo tipo di mobilitazioni, perché la situazione è arrivata a un livello così assurdo che continuare la propria vita normalmente mi sembra un'ipocrisia, ma grande. Quindi non la definirei tanto altruismo quanto necessità. [...] La coerenza è importante per me, anche nella vita personale. Per quanto l’azione di un singolo sicuramente non avrà un grande impatto a livello globale… però è anche una questione personale di non cadere nell'incoerenza. Secondo me è giusto fare attenzione a un certo tipo di cose, e ricordarsi che l'impatto che possiamo avere noi. Il potere che abbiamo noi, è quello sul nostro Stato, sulla nostra zona d'influenza, quindi lavorare su quello prima di andare oltre, perché su molte cose non possiamo avere il potere di agire veramente, però ci sono cose su cui abbiamo il potere, quindi è là che dobbiamo concentrarci, cioè andare su una scala un po' più ristretta per avere poi un impatto sul globale» (A. Studentessa di antropologia, 20 anni)

Non fare niente mi sembrerebbe veramente ipocrita, cioè noi abbiamo un sacco di diritti che un sacco di persone non hanno e quindi penso che possiamo esercitarli anche per loro. […] Non riuscirei neanche a giustificarlo a me stessa. (Studentessa di giurisprudenza, 20 anni, intervistata durante la manifestazione del 3 ottobre a Bologna)

Riprendendo anche uno slogan del movimento femminista degli anni ‘70, il personale è politico, cioè è importante, ho capito che c'è veramente molta importanza di politicizzare gli spazi che per troppo tempo sono stati spoliticizzati e quindi far capire a tutti che non è solo la manifestazione che riguarda tutti, ma anche essere parte attiva di assemblee, di organizzazioni e che tutti quanti dobbiamo parlare di politica. (Gloria, studentessa di Fisica intervistata durante l’occupazione del dipartimento, 23 anni)

 

La volontà di restare fedeli a un ideale di «coerenza» si esprime, come anticipato, nel rifiuto di qualsiasi forma di partecipazione o connivenza con l’orrore del genocidio. Le istituzioni a cui ci si sente legati o da cui ci si ritiene rappresentati sono ritenute responsabili non solo di una marcata indifferenza e di una costante delegittimazione delle proteste, ma anche di complicità e di sostegno materiale al genocidio. In questo senso, la riprovazione nei confronti del governo assume toni particolarmente netti.


Palestina e Israele […] incanalano appunto un sentimento di indignazione profonda verso il governo italiano, verso le istituzioni italiane, verso le università, verso la classe politica che governa l'Italia, verso le aziende belliche italiane, verso il sistema di cui tutti quanti facciamo parte, che si comporta in modo vergognoso» (V., studentessa di fisica, 20 anni)

La cosa che mi dà più fastidio è il fatto che quelli che sono i nostri governi, quindi quelli che rappresentano noi, partecipino a queste oppressioni: sia con la vendita di armi, la produzione di armi, insomma, queste cose qua; sia con il fatto di trovarsi in un sistema che, in qualche modo, sfrutta un'altra parte del mondo. [...] Semplicemente dobbiamo evitare che un certo tipo di cose avvengano, specialmente su quello che noi possiamo controllare. Ovvero nel nostro stato. Quindi sì, è chiaro che noi vogliamo la Palestina libera, però quello che dobbiamo fare è evitare che sulla nostra zona di influenza avvengano delle cose che vanno a gravare su quella situazione (A. studentessa di Antropologia, 21 anni)

Uno [degli slogan] che mi hanno colpito di più e che mi ripeto in testa quando vado a manifestare è «Non un chiodo per Israele», cioè la complicità diretta che deriva dall'industria bellica, dall'esportazione di armi ma anche dall'acquisto di armi. Secondo me probabilmente è la macchia di sangue più grande che l'Italia ha addosso in questo momento e quello che i portuali [di Genova] hanno insegnato è effettivamente preziosissimo. […] «Bloccare tutto» funziona finché il governo Meloni non si esprime, finché non verrà fatta giustizia, finché non vengono ammesse delle colpe, finché non si stabilisce un piano di ricostruzione. Quindi i passi importanti sono partecipare, coinvolgere i lavoratori e puntare a delle richieste. (V., studentessa di Fisica, 20 anni)

Far parte di una comunità, di una società che partecipa a questo massacro che stiamo vedendo e quindi di conseguenza credo che sia un po' necessario che ognuno di noi faccia quello che può fare, in quanto proprio partecipante a questa comunità, cioè come elemento che all'interno di questo insieme ognuno faccia la sua parte per cambiare quello che stiamo facendo, per indirizzare poi le azioni di questa collettività, della nostra società, in modo diverso. (A. studente di fisica intervistato durante l’occupazione della facoltà, 24 anni)

 

Di conseguenza, emerge la necessità di interrogarsi sulla propria collocazione come studentesse e studenti e di rifiutare ogni forma di complicità, estendendo questo rifiuto alla vita quotidiana, al proprio sapere e, per estensione, alle facoltà e ai dipartimenti di provenienza.


Io personalmente sono scesa in piazza perché studio giurisprudenza e credo tantissimo in quello che studio. A differenza di come ha detto il Ministro Tajani non penso che il diritto internazionale valga fino ad un certo punto. Io ci credo del tutto e penso che io come i miei colleghi che studiamo diritto dobbiamo essere i primi a dover scendere, perché noi studiamo veramente tutte le violazioni che si stanno compiendo e tutto quello che potrebbe essere fatto sia a livello d'Italia sia di Unione Europea, ma che non viene fatto. [...] È vergognoso che anche la nostra università e il nostro governo finanzino Israele e che noi, facendo la spesa, lo finanziamo. È allucinante che contribuiamo pur non volendo a questo e non va bene. (S., studentessa di giurisprudenza, 20 anni)

O., 24 anni, studentessa di Global Change Ecology and Sustainable Development Goals, dall’occupazione del Dipartimento di Biologia, Geologia e Scienze Ambientali, presso l’Orto Botanico, dichiara:


È una cosa su cui stiamo puntando molto: rimanere ovviamente specifiche sulla Palestina ma ampliarlo [il discorso] sempre sul chi siamo noi: siamo scienziati, allora dobbiamo apprendere la scienza; siamo ambientalisti, allora ricolleghiamo tutti i punti.

A., studente di fisica, 24 anni, intervistato durante l’occupazione della sua facoltà per chiedere la recisione degli accordi con l’industria bellica, afferma:


Siamo tutti complici, tutti gli elementi che compongono questa comunità sono complici in qualche modo se non fanno qualcosa, se non agiscono nelle possibilità che hanno in generale.

 

Infine, dal confronto tra le interviste svolte durante oppure a ridosso della mobilitazione e quelle portate avanti a qualche giorno di distanza, emerge una differenza significativa, riguardante principalmente lo spirito e il futuro della mobilitazione. Diverse tra le persone intervistate fra il 22 settembre e il 4 ottobre descrivono la mobilitazione come l’apertura di uno spiraglio di possibilità nell’immobilismo degli anni precedenti, nonché come una base per la ricostruzione di uno spazio d’azione collettiva. Le proteste sono spesso definite «storiche» e «inedite», ma anche, al netto dei risultati immediati, riconosciute come eventi capaci di dar forza e immaginario alle future mobilitazioni.

 

La cosa che mi ha fatto proprio incazzare di più di tutto sono i miei compagni di corso che, cioè […] dicono ancora che non serve a niente manifestare... Dopo oggi, dopo le ultime due settimane, è veramente una cazzata. (G, studentessa di scienze dell’educazione primaria, 20 anni)

 

Io non avevo mai visto una cosa del genere, cioè con tutte le manifestazioni a cui ho partecipato, […] un numero del genere, un trasporto proprio del genere da parte di tutte le persone che conoscevo e che non conoscevo io non l’avevo mai visto. (L., studentessa di scienze della comunicazione, 20 anni)

 

In un primo momento, quando vedevo le stazioni bloccate eccetera eccetera, dicevo «ma che rottura di coglioni». Poi sono entrata più nel vivo della manifestazione e ho capito che è la cosa più importante, cioè il fatto che noi siamo riusciti, con le manifestazioni, a bloccare intere città, a bloccare stazioni. […] Questa è la parte, insomma, che mi è piaciuta di più. Ha mostrato che l'Italia, o comunque almeno i giovani italiani, non sono degli ignavi, hanno voglia di partecipare, hanno voglia di mobilitarsi; quindi, su questo, secondo me, si può fare leva, cioè, secondo me, questa manifestazione ha dato la consapevolezza a tutti che noi, se vogliamo, possiamo cambiare le cose. (C., studentessa di lettere, 19 anni)

Ho iniziato a mobilitarmi dopo lo sciopero nazionale del 22 settembre, vedere le persone scendere fisicamente in piazza mi ha convinto definitivamente che quel gesto, sempre significativo, in questo caso avrebbe avuto un impatto sul futuro, facendomi sentire anche meno solo. (Studentessa di storia, 21 anni)

Gente della mia età, io ho 24 anni, quindi tendenzialmente non ho mai visto nemmeno sui giornali un forte movimento in Italia, e per la prima volta invece non mi sono sentita sola in piazza, non mi sono sentita abbandonata dal resto dei miei coetanei e delle mie coetanee e soprattutto abbiamo sperimentato insieme tante nuove, sia emozioni che esperienze, nel senso di anche avere stretto contatto con la polizia, una roba che molte delle persone che erano in piazza non avevano mai fatto, che poi ti cambia una serie di, cioè ti dà delle consapevolezze che se non vivi quale momento specifico non puoi avere altrimenti. (O. studentessa di Global Change Ecology and Sustainable Development Goals, 24 anni)

Dl., vent’anni e studente di antropologia a Bologna, intervistato il 3 ottobre, esprime al meglio questo rinnovato senso di possibilità collettiva che aleggia nelle piazze e nella Generazione Z. In particolare, in lui come in altri, la continua esposizione ai social media appare non soltanto come il motore dell’indignazione contro l’orrore del genocidio, ma anche come un mezzo indispensabile di diffusione e di amplificazione delle proteste.

 

Ora si apre Instagram, la gente si gasa e scende in piazza con aspettative enormi e si rende conto che le speranze non sono vane, che ci sono prospettive concrete. Tutti i mesi precedenti in cui sembrava inutile non hanno scoraggiato, ma hanno accresciuto la rabbia e l’aspettativa. Siamo ancora più incazzati e chiediamo con ancora più rabbia e continuiamo finché non ci date quello che vogliamo. (Dl., studente di antropologia, 20 anni)

 

Diciamo che è strano vivere nel mondo in cui viviamo oggi, dove ti vedi letteralmente i video delle persone che vengono bombardate tutti i giorni, che ti chiedono aiuto anche solo con un like, un commento, una condivisione […] Io, in realtà [mi informo sulle mobilitazioni] molto tramite le mie amiche che mi mandano post eccetera […] Poi Instagram principalmente è quello dove più veniamo a conoscenza, tutte noi del mio gruppo, di questo tipo di eventi. (L., studentessa di scienze della comunicazione 21 anni)

 

 Nel descrivere le condizioni perfette per un’azione collettiva efficace in senso trasformativo, inoltre,

Dl. fa riferimento agli avvenimenti verificatisi in Nepal nell’estate del 2025. Non è un dato isolato: nelle prime fasi della mobilitazione, infatti, sull’onda di un sentimento forte di possibilità nuova, è stato fatto più volte riferimento agli eventi nepalesi. Pur riconoscendo la diversità incolmabile dei contesti, i soggetti intervistati hanno spesso mostrato un senso diffuso di ammirazione.

 

Ci devono essere tante persone: non cento, ma centomila o ancora di più. Il numero ingente di persone incazzate vanifica qualsiasi legge. Il Nepal, ancora una volta: quella è la situazione perfetta. Lì si è data quella «Effervescenza collettiva» [citazione da Durkheim, ndr] che rende possibile tutto quello che ho detto: la massa è un’entità unica ma informe, capace di fare qualsiasi cosa. (Dl., studente di antropologia, 20 anni)

In Nepal, porca puttana, hanno dato fuoco al Parlamento […] Poi, io non lo posso sapere perché non viviamo lì; quindi, non sappiamo manco che succede e come si vive lì. Non sai perché effettivamente si è dato fuoco a quello e a questo. Te l’ho preso come esempio per quello che ti stavo a dire. Cioè, del fatto che loro hanno preso di mira il Parlamento, ce l’avevano contro il Parlamento? Bene… (G., studentessa di scienze della formazione, 20 anni

In seguito alla tregua di ottobre, invece, sembra riscontrarsi una maggiore cautela fra gli intervistati e si inizia a discutere con più frequenza il tema dello «spegnimento della fiamma» e del futuro della mobilitazione. Infatti, pur rimanendo ben impressa la sensazione che qualcosa sia diverso e che l’azione politica abbia riacquisito centralità, l’entusiasmo e il senso di possibilità sembrano diminuire.

 

C'è [stato] lo spirito e la voglia di fare un cambiamento rivoluzionario. C’è il bisogno di cambiamento che, comunque, a livello storico c’è sempre stato: ci sono sempre state rivoluzioni per abbattere il sistema che c'era prima, è anche una cosa ciclica. […] In generale, secondo me la fiamma nelle persone non si è spenta, soltanto che forse c'è stato un insieme di tanti fattori che hanno contribuito a non far fare più manifestazioni per ora, ad esempio anche il piano di pace di Trump e la firma del cessate il fuoco. O anche i livelli di repressione della polizia hanno un po’ spaventato secondo me. (S., studentessa di giurisprudenza, 20 anni)

 

Se continuerà [la mobilitazione, ndr] dico che cambierà il punto di vista. Continueranno le manifestazioni, ma ci sarà questa differenza: magari lottiamo per qualcos'altro. Allora, sicuramente se ci sarà una chiusura del conflitto, non so se le manifestazioni continueranno per un po', non so se aumenteranno d'intensità, non so se staranno stabili per un po' e succederà qualcosa, o se semplicemente non ce ne saranno per un po'. Però, secondo me le persone che sono state lì e le persone che hanno visto le manifestazioni si ricorderanno che effettivamente scendendo in piazza è successo qualcosa. Quindi sicuramente sarà un ricordo, qualcosa che entrerà nella coscienza di tante persone, che sarà un po' il seme fertile per qualsiasi cosa verrà dopo. Genererà anche la voglia di andarci, perché magari generazioni più vecchie o comunque... sono tanti anni che non ci sono state manifestazioni del genere. Quindi sarà sicuramente un ricordo. (D., studente di informatica, 20 anni)

 

Allora io vorrei rispondere con un'osservazione molto brillante che fece una persona, molto tempo fa, tale Lorenz von Stein, che disse: «È possibile prevedere il futuro purché non se ne vogliano profetizzare i particolari». Ora, questo è un momento decisivo, critico in un certo senso, proprio questo è il momento in cui si crea questo fascio di rette, di semirette che va asintoticamente a toccare il futuro, la fine di questo percorso di mobilitazione. Personalmente […], appunto, non ho niente per profetizzare quello che può accadere nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, nei prossimi mesi. Il fatto è che si può vedere come questi giorni siano stati effettivamente un momento d'unione dove c'è stata una convergenza di persone, di istanze, di movimenti che si auspica continui. (V., studente di scienze storiche, 27 anni)

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Alessandro Bressi, originario di Catanzaro, è studente di Storia presso l’Università di Bologna.

 

Davide Meloni, nato a Castiglion d’Orcia, è studente di Antropologia, Religioni e Civiltà Orientali presso l’Università di Bologna.

 

Gabriele Legari è dottorando in filosofia politica. Originario della provincia di Lecce, vive a Bologna.


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