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Da Bloquons tout all'impossibile equazione di governo

Aggiornamento: 13 ott


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Con soli 836 minuti di durata, il governo Lecornu è stato il più breve della storia della Quinta Repubblica. Questo dato, tanto sintetico quanto eloquente, ci restituisce la cifra della profondità della crisi — insieme economica e istituzionale — che attraversa la Francia e che minaccia di coinvolgere l’intera eurozona. In questo contesto, il movimento Bloquons tout ha cercato di costruire un’opposizione alle riforme neoliberali con cui la presidenza Macron intende affrontare la crisi, organizzando le giornate di mobilitazione del 10 e del 18 settembre, e infine del 2 ottobre.

L’articolo che qui presentiamo (da leggere insieme a quello già pubblicato di Andrea di Gesu) offre un bilancio lucido e disincantato di questa mobilitazione, ed analizza in maniera chiara il contesto di crisi e le sfide che i movimenti sociali dovranno affrontare.   

 

 ***

 

 Dopo le giornate d’azione a scala nazionale del 10 e 18 settembre, e infine del 2 ottobre, è possibile formulare un bilancio della mobilitazione francese avviata dall’appello «Bloquons tout!» – a condizione, però, di rompere con la celebrazione acritica delle lotte in cui troppo spesso si scade, soprattutto riflettendo «a caldo». Agli occhi di chi scrive, questa esigenza critica sembra tanto più necessaria e giustificata allorché si indirizzi al lettorato italiota, incline – per ovvi e comprensibili motivi – a farsi un’idea poco realistica, se non proprio mitizzata, della portata dei movimenti sociali che si svolgono oltralpe. L’erba del vicino è sempre la più verde. 

 

In effetti, prima di ogni altra analisi una constatazione si impone, e non delle più incoraggianti: non solo l’ampiezza e l’intensità delle tre giornate d’azione si sono rivelate sensibilmente al di sotto delle aspettative militanti, ma non è affatto detto che a queste vi sarà un seguito degno, quantomeno a breve termine. Per comprendere questo stato di fatto, è necessario fare un passo indietro e ricostruire sommariamente la genesi e la scansione degli eventi delle ultime settimane.

 In risposta al progetto di legge di bilancio per il 2026 del governo Bayrou, annunciato a metà luglio con l’esplicito intento di realizzare una quarantina di miliardi di tagli alla spesa pubblica e riportare così il rapporto deficit/PIL dentro ad una traiettoria di progressiva diminuzione (dal 5,4 % per l’anno in corso al 3 % nel 2029, conformemente alle raccomandazioni di Bruxelles), un appello a bloccare il paese a partire dal 10 settembre è circolato ampiamente, durante l’estate, su social media e canali Telegram. Il testo dell’appello, breve e piuttosto vago, evocava la necessità di un «boicottaggio totale», di un «arresto completo e illimitato» della vita economica contro «il potere» di un ceto politico parassitario. Proveniente con tutta verosimiglianza dall’area sovranista, l’appello ha in un primo tempo raccolto l’interesse e la simpatia di una frazione della popolazione senza marcata affiliazione politica e perlopiù situata al di fuori delle grandi aree metropolitane, riattivando allo stesso tempo gruppi informali e legami dormienti, sedimentati dai movimenti sociali degli ultimi anni (soprattutto Gilets gialli e movimento contro la riforma delle pensioni del 2023). Un’infinità di proposte pratiche, anche discutibili, ne è sgorgata: dallo «sciopero» degli acquisti, dell’uso di bancomat e carte di credito, a metodi di lotta più tradizionali e rodati come picchetti e blocchi stradali.

 

Allertati dal successo «virtuale» dell’appello, e memori della sbandata dell’autunno 2018, quando avevano inizialmente snobbato i Gilets gialli bollandoli come proto-fascisti, tutti i partiti di sinistra – da Europe Écologie Les Verts (EELV) ai gruppuscoli trotzkisti, passando per il Partito Comunista francese (PCF), La France Insoumise (LFI), e con la sola eccezione del Partito socialista (PS) – si sono rapidamente sentiti in dovere di dichiarare il loro sostegno ad un movimento di fatto non ancora nato, e dai contorni ancora incerti. I sindacati CGT e Solidaires hanno adottato un atteggiamento analogo, deponendo un preavviso di sciopero per il 10 settembre (nell’ottica di permettere ai lavoratori dipendenti la partecipazione alle variegate iniziative previste per quella data) e proclamando una giornata di mobilitazione sindacale per il 18 settembre, a cui ha poi aderito la quasi-totalità delle organizzazioni sindacali, sindacati di quadri e «gialli» inclusi: CFDT, Force Ouvrière, CFE-CGC, CFTC, FSU e UNSA. Così facendo, le forze politiche e sindacali riconducibili alla sinistra in senso lato non si sono limitate ad appoggiare un movimento in fieri dotato di vita propria, ma hanno massicciamente investito la sua preparazione e i suoi organi di comunicazione e deliberazione (le assemblee generali, le messaggerie, etc.), determinandone in maniera decisiva forma e contenuto.

 Non si tratta qui di esprimere un giudizio morale su questa condotta, ovvero stabilire se ciò sia stato fatto in buona o in cattiva fede, con l’intento di evitare errori passati o di mettere le redini ad una protesta potenzialmente incontrollata (se non di disinnescarla). Né si tratta di esprimere recriminazioni su ciò che il movimento avviato dall’appello «Bloquons tout!» poteva essere e invece non è stato… «per colpa della sinistra». Ciò detto, resta un fatto incontrovertibile su cui non si può evitare di farsi qualche domanda: una mobilitazione annunciata come un remake dei Gilets gialli si è invece concretizzata con fattezze completamente diverse, sia nella sua composizione sociale (perlopiù middle class) sia nelle sue deboli istanze rivendicative e programmatiche (dimissioni di Macron e tassazione dei grandi patrimoni, per attenersi a quelle più visibili). Perché?

 Almeno due concause hanno dettato questo esito. La principale risiede nella caduta del governo, sfiduciato e dimissionario l’8 settembre: messo di fronte all’arci-prevista impossibilità di ottenere uno straccio di maggioranza su una legge di bilancio orientata in senso decisamente austeritario, Bayrou ha preferito togliere il disturbo e lasciare il posto ad una diversa squadra di governo. Cosicché la minaccia prima incombente si è vista rinviata a data da definirsi, e soggetta a laboriose consultazioni in vista di un ammorbidimento degli obiettivi di bilancio – ammorbidimento senza il quale non sembrava poter esserci né approvazione per via parlamentare del bilancio per il 2026 (in assenza della quale si applicherà automaticamente quello del 2025, con il già menzionato 5,4 % di deficit), né formazione di un nuovo governo centrista stante il casting parlamentare attuale. Quattro settimane più tardi, il nuovo esecutivo guidato da Sébastien Lecornu, ministro della Difesa sotto Bayrou, si è sciolto come neve al sole a tredici ore dalla sua ufficializzazione.

 

Una simile instabilità politica, inedita nella storia della V Repubblica, e che ha già visto cadere cinque governi dall’inizio del secondo mandato presidenziale di Emmanuel Macron (2022-2027), affonda le sue radici in dinamiche più profonde. Giacché dietro alla crescita smisurata del debito pubblico, c’è sì – come emerge sempre più chiaramente, anche sui media mainstream – il protezionismo fiscale dello Stato francese a beneficio delle sue imprese (multinazionali e non), ovvero le sovvenzioni mascherate, i crediti d’imposta e le esenzioni contributive che da anni riducono le entrate del fisco e degli enti di previdenza sociale. Ma c’è anche – inscindibilmente – l’anemia della creazione di ricchezza sul territorio nazionale, a sua volta fattore di riduzione della base imponibile e contributiva. Inscindibilmente, poiché per la Francia più che per qualsiasi altro paese d’Europa continentale, l’internazionalizzazione dei suoi grandi gruppi economico-finanziari è stata sinonimo di drastica deindustrializzazione, proliferazione di impieghi mal remunerati nel terziario arretrato e nei settori non delocalizzabili, alta disoccupazione strutturale, e tendenziale desertificazione economica delle zone abitate più distanti dalle (poche) aree metropolitane. Desertificazione certo poco visibile dalla capitale ma che, per citare un solo dato, ha fatto salire al 62 % la percentuale di comuni francesi completamente privi di attività commerciali (erano il 25 % nel 1980) – un trend che va di pari passo con la sparizione di uffici postali, ospedali e medicina del territorio in generale.

 Il paese si trova dunque preso, con ristretti margini di manovra, fra l’incudine di un grande capitale «nazionale» che realizza all’estero i tre quarti del proprio giro d’affari, e il martello di un alto debito pubblico che, contrariamente alle fantasie neokeynesiane, rappresenta un problema obiettivo e non un semplice pretesto – tanto più che gli aiuti alle imprese sono divenuti per molte di quelle piccole e medie una stampella di cui è difficile privarsi senza cadere, mentre più della metà delle emissioni di titoli di Stato sono detenute da non-residenti. In queste condizioni, non sorprende che la grande borghesia francese non abbia altro programma da proporre che il dimagrimento dello Stato, ovvero la riduzione degli organici nel pubblico impiego, della spesa sociale e di quella infrastrutturale[1].

 Di fronte a questa traiettoria di inequivocabile declino, che ampie fette della popolazione avvertono con lucidità quand’anche non ne colgano correttamente le cause, la sinistra e l’estrema sinistra  – e qui veniamo alla seconda concausa del flop di «Bloquons tout!» – hanno ben poco da dire e si stanno chiudendo sempre più in una realtà a loro uso e consumo. Questa considerazione non si applica ahimé solo agli apparati, ma coinvolge in maniera significativa le basi militanti, i simpatizzanti e gli elettori (vi ritorneremo).

 

La vexata quaestio, costantemente aggirata per mezzo di discorsi e parole d'ordine che vertono attorno alla redistribuzione della ricchezza, è appunto quella della sua produzione – della produzione della famosa «torta» la cui ripartizione non può che diventare un gioco a somma zero se la sua grandezza complessiva non aumenta. Naturalmente, il fatto che la ripartizione dei redditi primari (salario, profitto-interesse e rendita, secondo la «formula trinitaria» di marxiana memoria), ovvero la lotta di classe nella sua banalità quotidiana, somigli sempre più a un gioco a somma zero non attenua il conflitto, anzi lo esacerba e lo acutizza. Ma è a monte della ripartizione, sul terreno della produzione, che riforma e rivoluzione si separano e dovranno, in tempi non lontani, ancora una volta scontrarsi: rilancio della produzione dentro agli assetti sociali vigenti (condizione sine qua non di un’estensione del paniere del lavoro salariato) o, viceversa, sua trasformazione in funzione di assetti sociali interamente nuovi?

 Manifestamente, in Francia come altrove, non siamo ancora a questo punto, e l’assenza di un riformismo autentico, di alto profilo – più preoccupato delle sorti dell’industria sul territorio nazionale che non di identity politics e di redistribuzione delle briciole – non ci avvicina in nulla al fatidico Grand Soir, ma è da intendersi, al contrario, come un indice dell’immaturità delle condizioni sia oggettive che soggettive. Il relativo successo del pikettismo (dal nome dell’economista Thomas Piketty), in ultimo con la focalizzazione del dibattito pubblico sulla proposta dell’imposta minima sui patrimoni dei super-ricchi associata al nome del suo allievo Gabriel Zucman, vale come intuitiva conferma di questa situazione. Certo, vedere i frequentatori di talk-show polemizzare intorno alla taxe Zucman piuttosto che intorno al velo islamico può avere qualcosa di rincuorante… ma sono soddisfazioni da telespettatore.

 Per quanto, come suggerito, sarebbe erroneo in sede di analisi dell’attuale congiuntura separare le strutture dagli agenti, le condizioni oggettive dal fattore soggettivo, non si può comunque escludere che un ritardo delle sovrastrutture (tra le quali il sistema dei partiti) e delle forme di coscienza sociale possa giocare un qualche ruolo. Esso non risiede tanto nell’incomunicabilità instauratasi tra la sinistra e la maggioranza del proletariato che, come in molti altri paesi, è un dato niente affatto recente, consolidatosi sul filo della collaborazione attiva o passiva della sinistra, di governo e non solo (Mélenchon compreso, almeno fino al 2008), a praticamente tutti i momenti-chiave del ciclo cosiddetto «neoliberale»: dalla politica dei redditi del 1982 alla svolta del rigore del 1983 (governo del programme commun de la gauche: PS-PCF), dall’adesione al Trattato di Maastricht alla recessione del 1992-1993 (PS), dall’entrata in vigore dell’euro (governo della gauche plurielle: PS-PCF-Verdi-MDC[2]), fino alla gestione della crisi dei debiti sovrani in Europa (ultimo governo Sarkozy, poi PS)... per tacere dell’endorsement di Macron al secondo turno delle ultime presidenziali, esplicito (PS) o implicito (LFI) che fosse.

 

Il ritardo sta invece nell’incapacità della sinistra tutta, di governo e gauchiste, a invertire la rotta, ovvero a ripensare linguaggi, priorità, programmi e organizzazione interna in funzione del solo obiettivo sensato dal punto di vista riformista: conquistare quella sempre più numerosa parte dell’elettorato, composta in maggioranza da operai e impiegati di esecuzione, che oggi considera, non senza qualche ragione, il Rassemblement National (RN) di Marine Le Pen come la sola ed unica alternativa possibile a Macron e a chi gli succederà come candidato dell’establishment di qui al 2027; ovvero la parte della popolazione che più ha patito della maniera in cui la Francia si è inserita nella globalizzazione, che più vi si è opposta (vedi i referendum del 1992 su Maastricht e del 2005 sul Trattato costituzionale europeo), che proprio per questo è stata esclusa dalla sfera della rappresentanza politica, e che proprio per questo si è identificata in maniera crescente al solo partito marchiato dallo stigma dell’illegittimità repubblicana. Non fosse che per ragioni aritmetiche, l’acquisizione di una solida base elettorale nei quartieri popolari di estrazione immigrata da parte della ex-corrente di sinistra del Partito socialista nelle sue reincarnazioni successive (Parti de gauche dal 2009, LFI dal 2016), non può sostituire questo passaggio obbligato.

 Da dove viene questa incapacità? Come detto, non è solo un problema di apparati o di vertici. In ultima istanza, il problema della sinistra risiede in quel che è, o meglio in quel che è diventata da quando il RN ha cominciato a «sfondare» non solo fra operai e impiegati del privato, ma anche fra i comparti del pubblico impiego che più soffrono della compressione salariale e del degrado delle condizioni di lavoro: maestri di scuola materna ed elementare, operatori socio-sanitari e infermieri, impiegati degli enti locali (come illustrato, dopo le ultime legislative, dalla nota dell’osservatorio CEVIPOF sulla «fine della sinistra di Stato»[3]). Cosa resta allora del «popolo della sinistra»? La frazione più metropolitana e acculturata della classe media salariata, composta di insegnanti e formatori, funzionari di medio rango, bonzi sindacali, animatori del mondo dei media e della cultura, dipendenti di ONG e associazioni, «creativi», liceali, studenti universitari e dottorandi (filiere umanistiche soprattutto); una classe media non necessariamente abbiente – in prospettiva sempre meno – ma che, diversamente dagli ingegneri comunisti delle imprese pubbliche francesi dei tempi che furono, è ormai priva di qualunque rapporto con i problemi della produzione materiale; che è convinta di essere politicamente ed economicamente autosufficiente, e per la quale il proletariato esiste solo come escluso, marginale o migrante. Una frazione di classe che, tra massimalismo di facciata e sostegno a riformette di puro dettaglio, contribuisce in realtà a tenere sotto la gran massa del proletariato per conservare lo status quo nelle sue concrete articolazioni di politica economica e di posizionamento della Francia nell’arena internazionale: valuta forte, doppio deficit e terziarizzazione ipertrofica, il tutto (e non potrebbe essere altrimenti) all’ombra di UE, eurozona e NATO. Per l’essenziale, è questa componente ad essere scesa nelle strade e nelle piazze francesi il 10 e 18 settembre. Strano allora che sia i beaufs (la Francia periferica) che i barbares (i cosiddetti banlieusards) si siano tenuti a distanza?

 

Nel frattempo, con la caduta del governo Bayrou, sembravano essersi aperti margini di negoziazione di cui numerosi attori hanno cercato di approfittare per trarne un qualcosina da far valere presso le rispettive clientele: non solo il Partito socialista, con la prospettiva di entrare nell’orbita del nuovo governo o di appoggiarlo esternamente in cambio di una concessione sul piano fiscale (una taxe Zucman riveduta al ribasso), ma anche i sindacati e le associazioni di categoria (agricoltori, etc). Il fronte intersindacale indiceva così una nuova giornata di mobilitazione per il 2 ottobre. Viste le premesse, non c’era da aspettarsi che all’improvviso masse oceaniche si astenessero dal lavoro e scendessero in piazza, per quanto la riforma delle pensioni del 2023 – principale nodo irrisolto delle negoziazioni con Lecornu – sia un boccone rimasto di traverso a molti. E infatti così non è stato: classica giornata di camminate di salute sui percorsi cittadini abituali, debole quanto a numeri e determinazione. Solo per appassionati del genere.  

 Pericolo sventato, allora? Sembrava di si, ma per il nuovo Primo ministro la tenuta della neonata compagine di governo si è rivelata, nel giro di una sola notte, una missione impossibile. È bastato un leggero spostamento verso centro-sinistra nell’assegnazione dei ministeri per spingere la destra post-gollista a richiamare i propri ministri e incitare Lecornu ad uscire di scena, senza nemmeno bisogno del voto di sfiducia (già annunciato) da parte delle opposizioni.

 E adesso? Avanti il prossimo. Onde evitare l'extrema ratio di elezioni presidenziali anticipate, Macron e i suoi committenti si trovano di fronte a un dilemma: affidare l’incarico di formare l’ennesimo governo ad un altro Primo ministro, oppure sciogliere nuovamente l’Assemblée nationale? La prima opzione sarebbe senz’altro quella preferibile dal punto di vista del presidente della Repubblica, ma presupporrebbe la collaborazione (per nulla scontata) di uno dei due principali partiti d’opposizione: assodata l’impossibilità di formare un governo controllato a distanza, si tratterebbe di sancire l’inevitabile «coabitazione» con un cartello delle sinistre o con un’unione delle destre. Questa soluzione presenterebbe il vantaggio di scaricare su RN o su LFI gli imperativi di gestione della crisi delle finanze pubbliche – se non di una crisi della bilancia dei pagamenti, per il momento ancora ipotetica. Resta da capire quale opposizione sia meglio mandare allo sbaraglio… ammesso e non concesso che ve ne sia una desiderosa di «bruciarsi». Entrambi i partiti, in effetti, dovrebbero comprendere che il loro interesse più immediato sta nell’andare il più rapidamente possibile a elezioni legislative per ridurre ai minimi termini il peso parlamentare del voto moderato (il partito di Macron in primis, ma anche il PS e la destra post-gollista). Ma le vie della «responsabilità istituzionale» sono infinite. 

 

Illusorio, comunque, pensare che la formazione del nuovo esecutivo possa essere altro (nel migliore dei casi) che una pausa momentanea prima del fatidico giro di vite sul bilancio statale. Che si formi sulla base del parlamento attuale o di un parlamento decisamente più polarizzato, la tendenza spontanea di qualunque governo di coabitazione consisterà nel guadagnare tempo, ovvero nell’occultare alla popolazione la reale gravità del declassamento economico del paese. Compito non da poco, tenuto conto di ciò che si profila all’orizzonte: non uno scenario «alla greca», ovvero una crisi localizzata e periferica in seno all’eurozona, questa volta ai danni della Francia, ma una crisi esistenziale dell’eurozona stessa. Come testimoniato dal recente libro dell’economista ortodosso Didier Cahen[4] sul rischio di dissoluzione della moneta unica, anche le teste d’uovo della grande borghesia francese cominciano a suonare l’allarme: ne va della capacità di questa borghesia di operare ai livelli alti della concorrenza internazionale nei suoi settori di riferimento – banche e assicurazioni, beni e servizi di lusso, grande distribuzione, più quel che resta dei proverbiali gioielli di famiglia: automobile, militare e aeronautica – grazie ad una valuta forte che la Francia non è mai stata in grado di sostenere motu proprio (non durevolmente in ogni caso).

 Una volta completato quel che Lenin chiamava l’eterno ritorno del concreto, giunto cioè il momento delle scelte irrevocabili, il «popolo della sinistra» (o quel che ne resta) dovrà decidere da che parte stare: dietro la grande borghesia francese nella strenua difesa della Francia «aperta», anche a prezzo di una spirale di austerità e sottosviluppo, o dietro al blocco degli strati popolari, a prezzo della rinuncia al «diritto» di consumare senza produrre.



Note

[1] Si potrebbe aggiungere che dopo i rovesci militari e la conseguente perdita d’influenza in Africa centrale (Niger, Mali, Repubblica Centrafricana), lo stesso mantenimento sotto bandiera francese dei residui ufficiali dell’impero coloniale – i cosiddetti territori d’Oltremare (Guadalupe-Martinica, Guyana francese, Mayotte, La Réunion, Nuova Caledonia, etc.) – è tutt’altro che garantita sul lungo periodo.

 [2] L’effimero Mouvement des citoyens (MDC) di Jean-Pierre Chevènement fu il risultato della convergenza di correnti sovraniste separatesi dai loro partiti di origine: il Partito socialista e in misura minore quello gollista.

[3] Luc Rouban, Le vote des fonctionnaires aux élections de 2024 ou la fin de la gauche d’État, Note de recherche CEVIPOF #19, settembre 2024. Scaricabile qui.

[4] Didier Cahen, L’Euro en danger, Odile Jacob, Parigi, 2025.


***

 

Robert Ferro è traduttore e ricercatore indipendente. Vive e lavora in Francia, dove ha pubblicato, in collaborazione con Bruno Astarian, Le Ménage à trois de la lutte des classes (L’Asymétrie, 2019)



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