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Intervista a Salvatore Cominu e Luca Perrone



A cavallo tra un decennio e l’altro, il movimento della Pantera permise di rompere con la faticosa stagione politica degli anni Ottanta e di aprirne una nuova che tra alti e bassi si estenderà quantomeno fino al movimento no global e forse anche dopo. Tuttavia, il rapporto di questo movimento, prevalentemente universitario, con il suo passato più prossimo non fu caratterizzato solo dalla rottura. Come dicono Salvatore Cominu e Luca Perrone in questa prima parte di una tavola rotonda, gli elementi di continuità con il difficile decennio precedente furono ugualmente importanti. Le lotte e i movimenti che scoppiarono negli anni Ottanta fornirono un contributo rilevantissimo all’emersione del movimento della Pantera, formando alla politica una nuova generazione di studenti, militanti e attivisti. Esso ci permette, allora, di guardare con un occhio diverso agli anni Ottanta e di sostenere che forse, a differenza di quanto in genere si dice, non furono solo anni di riflusso e di individualismo euforico ma, al contrario, furono fondamentali nel traghettare la politica rivoluzionaria oltre la conclusione lottarmatista del lungo Sessantotto. Questo rilancio dei movimenti operato dalla Pantera permise, come sempre accade quando essi raggiungono una dimensione di massa e spontanea, di liberare l’intelligenza politica dei gruppi organizzati, bloccata da forme della militanza ereditate dal passato e ormai ossificate. Non a caso i più avveduti e intelligenti gruppi politici preesistenti non sopravvissero all’impatto della Pantera che li costrinse a mutare forma organizzativa, prassi e linguaggi. Nacquero i centri sociali e le posse, si sperimentarono usi alternativi della tecnologia a partire dal fax che, già all’epoca, permetteva di intravedere una configurazione dei rapporti sociali e delle forme organizzative che successivamente, con l’arrivo di internet, venne indicata con il termine di «rete». In un capitalismo ancora alle prese con una difficile transizione verso nuove forme di accumulazione, la Pantera segnò anche l’emergere di una soggettività studentesca con tratti comuni, mutatis mutandis, a quella che animerà i movimenti universitari successivi, forse fino all’Onda.  Si tratta di una soggettività che vede davanti a sé la possibilità concreta di una maggiore autonomia nei rapporti sociali di produzione o quantomeno quella, più ambivalente, di un’integrazione sistemica relativamente più soddisfacente, impedite però dalle necessità della valorizzazione capitalistica e dai rapporti di forza sfavorevoli. Gli studenti di allora, iniziarono a fare i conti con i processi di industrializzazione della formazione spinti dalle numerose riforme che, dopo quella firmata da Ruberti e da loro contestata, si sono succedute fino ai giorni nostri. Oggi, rispetto a quella degli inizi degli anni Novanta, l’università giunta ad un livello avanzato di aziendalizzazione, è molto cambiata così come le caratteristiche della composizione studentesca. Qua e là si coglie qualche segnale di politicizzazione: in che modo le avanguardie militanti devono relazionarsi con le nuove soggettività inserite in un circuito della formazione profondamente industrializzato? Pubblichiamo oggi la prima parte dell’intervista [1]. (A.A.)         

 

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Partiamo dal contesto politico ed economico in cui scoppia il movimento della Pantera e quindi dalla sua geografia. Inoltre vorremmo che vi soffermaste sulle trasformazioni che l’Università stava attraversando in quel periodo e che hanno portato alla configurazione del ruolo che essa ricoprirà negli anni successivi.


Salvatore Cominu: L’unica premessa è sempre quella, difficile, di distinguere cosa uno ricostruisce ex post da come lo viveva quando c’era. Sono due cose diverse. Io quando ho visto le vostre domande ho provato a fare mente locale e onestamente mi sento di dire che ben pochi di quei temi fossero così sentiti, razionalizzati o che ci fosse piena consapevolezza di certi passaggi. Compreso questo dell'università-azienda che proprio a ridosso e durante l’esperienza delle occupazioni universitarie inizia a diventare un tema ma onestamente faccio fatica a ricordare dei momenti di effettivo dibattito. Il che non vuol dire che non se ne discutesse. Mi interessa piuttosto dire qualcosa sull’altro pezzo della vostra domanda: dove il movimento si manifesta con più intensità e in quale momento. Questo credo che sia abbastanza importante. Cominciamo col dire che quello che poi venne chiamato «movimento della Pantera» fu l’iniziativa di qualcuno che utilizzò un fatto di cronaca di quel periodo: una pantera che si aggirava per la città di Roma. Il marchio ovviamente funzionava bene, richiamava ben più nobili esperienze di movimenti, penso alle Black Panther. Era anche un periodo in cui giravano alcuni film che esercitavano un'influenza non banale nell’immaginario dei giovani più o meno antagonisti o più o meno alternativi. Penso ai film di Spike Lee che rievocavano l’epoca del potere nero, del black power. Il logo utilizzato dal movimento derivava da quello del Black Panther Party. In realtà, questo lo ricordo molto bene, le premesse consistettero in una occupazione universitaria durata parecchi mesi e iniziata nell’autunno del 1989 presso l’Università di Palermo, dove si intrecciavano aspetti più locali e non direttamente collegati alla riforma dell’università. L’autonomia universitaria della cosiddetta riforma Ruberti fu il primo passaggio di un percorso di riforme, ma fu ben lungi dal produrre le trasformazioni che si manifestarono soprattutto con quelle successive del ‘97 e con il passaggio dal ciclo unico alla doppia laurea triennale e magistrale. Gli studenti dell’università di Palermo fanno questa occupazione che esercita una grande influenza ma, in realtà, per tutto l'autunno del 1989 non ha un grosso seguito. Se guardiamo alla mappa successiva, è nel gennaio del ‘90 che, sulla scorta di quella di Palermo, le occupazioni iniziano a moltiplicarsi a macchia di leopardo, come sempre avviene in questi casi. Però se guardiamo la mappa complessiva di quel movimento di occupazioni vediamo una maggiore densità, una maggiore partecipazione e probabilmente anche una maggiore durata particolarmente concentrate nelle università del Mezzogiorno e del Centro Italia. Quando partecipammo all’unico grande evento di coordinamento nazionale, un'assemblea generale che si tenne a Firenze nel marzo del ‘90, quindi più o meno due mesi dopo lo scoppio delle occupazioni, ci rendemmo conto della rilevanza dei centri universitari minori o di città universitarie vere e proprie: Perugia, Camerino, L’Aquila, Pisa etc. Ovviamente il movimento acquisì rilevanza e consapevolezza quando conquistò La Sapienza. Le università del Nord non furono né in prima fila, né espressero i livelli di partecipazione delle università del Mezzogiorno e del Centro Italia. Ad esempio, non si può dire che Torino fosse uno dei punti più rilevanti di questa mobilitazione. Lo fu certamente più di altre città del Nord: a Milano un movimento della Pantera di fatto non esistette. A Torino la presenza di nuclei e collettivi agevolò non poco una maggiore partecipazione. Noi avevamo un collettivo, lo chiamavamo «collettivo interfacoltà»: era un collettivo composto da giovani militanti politici con qualche militante strettamente legato all’università ed altri, come era il caso mio e di Luca, che venivano essenzialmente dai collettivi dell’«area autonoma» e da un altro micro-collettivo locale. C’erano poi i giovani di Democrazia proletaria, qualcuno della Fgci – pochi devo dire, sempre un po’ marginali nel nostro contesto – più altri che si aggregarono intorno a rivendicazioni più strettamente universitarie. Un anno prima organizzammo parecchie mobilitazioni e assemblee, iniziative relativamente partecipate, intorno a temi strettamente universitari, come ad esempio le riforme nella gestione degli appelli. Erano iniziati ad emergere i primi centri sociali occupati. La nostra era una soggettività militante che era riuscita a radicarsi in università, ma eravamo abbastanza pochi, va detto. In ogni caso, Torino espresse un livello di partecipazione certamente superiore a quello di città come Milano e Genova. Per le loro caratteristiche invece, luoghi come Bologna e Padova, che sono città universitarie in senso proprio, ebbero dei livelli di mobilitazione più alti, così come Venezia.


Secondo voi a cosa era dovuto questo protagonismo delle università del Mezzogiorno e del Centro Italia?


SC: Questa è una bella domanda. La tentazione di collegare linearmente l’oggetto della riforma universitaria con la geografia della partecipazione è quasi intuitiva. Però, detto onestamente, non so mai quanto sia corretta. Penso che le traiettorie della soggettività siano molto più legate all’esistenza di condizioni soggettive che non ad un rapporto tra l’oggetto della politica che si vuole contestare e le caratteristiche socio-economiche dei territori. Milano era una città in cui di fatto la transizione economica e sociale da una città ancora immersa nel modello industrialista-fordista del Novecento era già avvenuta. Gli anni Ottanta erano stati per Milano un periodo di forte accelerazione che forse altre città, come ad esempio Torino, ancora non avevano vissuto per lo meno non con quella intensità. Perché in questa Milano, in cui il modello privatistico, aziendalistico stava diventando senso comune, una riforma che tutto sommato diceva «introduciamo meccanismi meritocratici» avrebbe dovuto trovare una particolare opposizione? Va detto che la Ruberti, in confronto a quello che abbiamo visto dopo, era ben poca cosa. Iniziando a porre il problema dell’autonomia gestionale e finanziaria degli atenei e introducendo elementi acquisitivi di razionalità e di organizzazione propri di un’impresa, apriva per la prima volta a un modello di università che doveva competere con altre. Uno potrebbe dire: «ma perché Milano avrebbe dovuto opporsi a questo»? Le quattro facoltà umanistiche radunate nell’edificio da noi occupato a suo tempo – il palazzo delle facoltà umanistiche a Torino si chiamava Palazzo Nuovo – erano: Scienze Politiche, Lettere, Magistero e Giurisprudenza. L’ultima di fatto non partecipò all'occupazione. Ci fu il tentativo ma venne bloccato dagli altri studenti. Tutta l’Università degli Studi di Torino aveva 27.000 iscritti all’epoca, oggi ne ha 105.000-110.000 mi pare. Il Politecnico da solo attualmente ha 38.000 iscritti, all’epoca credo si viaggiasse intorno ai 10.000 iscritti, per dare una dimensione di quella che noi all’epoca consideravamo un’università di massa ma che, se confrontata non dico a quella di oggi ma anche solo a quella di 10-15 anni dopo, in realtà non poteva definirsi tale. Il Politecnico non partecipò alla mobilitazione della Pantera e una parte importante del polo umanistico, nonché delle facoltà di economia, che era abbastanza rilevante, nemmeno. Ѐ vero che, nel Nord Italia in particolare, c’erano più percorsi universitari che selezionavano studenti con mentalità differenti, alcuni dei quali erano molto intrecciati con il sistema produttivo e permettevano un’inclusione sia nel mercato che negli apparati burocratici dello Stato. Il blocco del turn-over negli enti pubblici avviene dopo, all’epoca c’erano ancora i concorsi. Inoltre, negli anni Ottanta e Novanta, molte regioni dell’Italia centrale iniziano quel percorso di crescita economica-industriale che le allineerà in parte, senza mai raggiungerli, ai livelli di regioni come Emilia, Veneto, Lombardia e all’epoca anche il Piemonte. Il Piemonte era ancora una regione con imprese molto forti, grandi imprese che avevano un intreccio profondo con alcune università. La percezione che avevamo da Lettere (io e Luca eravamo in quella facoltà) o dagli studenti di Scienze Politiche o di Magistero era di essere ai margini di questo processo che legava università e tessuto produttivo e proprio Lettere, Scienze Politiche e Magistero parteciparono con numeri relativamente importanti alle occupazioni del ‘90. Nel Mezzogiorno, probabilmente, c’erano altri aspetti, in particolare si era incanalata dentro la protesta universitaria una generazione nuova. Gli anni Ottanta stavano per finire, c’erano state molte mobilitazioni intorno a temi come la guerra e il nucleare in cui era emersa una nuova generazione di attivisti e militanti, anche se non così ampia. Io ho l’impressione che nel Mezzogiorno questa nuova ondata di attivismo e militanza fosse più radicata e si intrecciasse però a condizioni di inclusione e tassi di rendimento dell’investimento educativo nettamente inferiori a quelli del Nord. Questa però è una spiegazione economicista che non mi convince mai del tutto.


Luca Perrone: Sono molto d’accordo con tutta l’analisi di Salvatore. Come lui, ero a Lettere, ero un militante politico già dall’‘85 in un collettivo dell’autonomia. Il nostro problema negli anni precedenti era stato quello di sopravvivere. Il movimento della Pantera è stato per noi il primo grande movimento con cui ci siamo confrontati. Erano anni, col senno di poi, particolari. Per noi, ad esempio, la campagna sul Leoncavallo del 1989 era stata fondamentale. Dopo anni erano ricomparse le molotov. C’era stato il primo movimento ampio e avevamo l’idea che i centri sociali fossero una grande novità e che potessero aggregare. Noi all’inizio li pensavamo come qualcosa che richiamasse i «circoli del proletariato giovanile» del ‘76, però si coglievano degli elementi di novità. Tenete conto che nel ‘90 nascono gli «Onda Rossa Posse» che usarono il simbolo della Pantera. Il 1989, inoltre, era l’anno della caduta del muro. Io mi ricordo per esempio a Palazzo Nuovo la scritta: «Rubertescu draculescu» che adesso sarebbe incomprensibile ma che richiamava la rivoluzione romena – che fu l’unica rivoluzione violenta, finita con la fucilazione di Ceausescu –  e che evocava un chiaro epilogo per il ministro Ruberti. Nel 1987 c’era stata l’intifada che per noi aveva voluto dire uscire un po’ dalla cappa del movimento pacifista che era stato, per quanto grosso, anche una reazione alla violenza degli anni Settanta e alla lotta armata. A partire dall’ ‘87, per la prima volta dopo anni, tirare delle pietre o uno scontro un minimo violento, che, nella nostra rozzezza politica era una pratica che ci interessava, usciva di nuovo a livello internazionale e prendeva finalmente la scena. Noi eravamo alimentati un po’ da tutto questo. In più ci aspettavamo, sicuramente sbagliando visti gli anni successivi, un'ondata di proteste universitarie. Secondo noi c’era una ciclicità ad intervalli decrescenti: ‘68, ’77,‘85, ’90, quindi 9 anni di «attesa», poi 8 anni, poi 5. Insomma, per noi, era nell’ordine delle cose che all’università sarebbe dovuto succedere qualcosa. Una visione veramente meccanicistica della vicenda, ma per noi era così. Poi, come diceva Salvatore, era arrivato lì un nuovo gruppo di militanti che si era formato negli anni Ottanta dentro i movimenti. Con la Pantera, per la prima volta, noi avevamo a che fare con un movimento. C’erano delle persone che avevano fatto militanza negli anni Settanta ma erano quasi ininfluenti, erano persone che ci davano dei consigli ma eravamo noi in prima persona a gestirlo. Questo per noi è stato particolarmente importante. Negli anni precedenti, con una serie di piccoli collettivi – che poi avevano un coordinamento interfacoltà –  avevamo lavorato bene, mobilitando piccoli numeri di studenti ma cogliendo una sensibilità, per esempio sulla questione degli appelli mensili. Quello che noi coglievamo non era tanto una grande trasformazione dell’università, su questo concordo con Salvatore, ma s’intravedevano dei cambiamenti. Per noi, ad esempio, il passaggio dagli appelli mensili – che consentivano di autogestire i tempi dello studio e che permetteva di non frequentare, garantendo una maggiore libertà – alla richiesta di appelli ogni due o tre mesi ci sembrava scandaloso. Coglievamo che c’era una sorta di restringimento di autonomia nello studio, non potevi stare parcheggiato all'università e dare l’esame quando ti decidevi di farlo. C’era inoltre l’obbligo di partecipare ai corsi, ciò significava l’espulsione di tutta una serie di persone che stavano all'università con un atteggiamento che noi all’epoca leggevamo in termini di autovalorizzazione personale: andavano lì per studiare, per farsi un po' di cultura e anche se non finivano l’università non era così grave. Iniziavamo a cogliere che un problema dell'università era che poche persone si laureavano rispetto alla massa di iscritti. Questo rappresentava un costo economico, per cui quello di cui discutevamo, almeno nel mio gruppo, era come ridurre questa forbice. Uno degli strumenti che avevamo individuato era quello degli appelli mensili. L’università che usciva dagli anni Ottanta e arrivata all’inizio della Pantera, era ancora sotto shock per l’ondata di lotte che dal ‘68 fino al ‘79 l’aveva coinvolta. Stava profondamente cambiando per questioni economiche, per l’ingresso di una diversa composizione studentesca, per le nuove richieste provenienti dal mercato del lavoro e anche perché ormai quell’idea che gli studenti potessero essere un soggetto particolarmente conflittuale era venuta meno. L’ultimo elemento, di cui parleremo dopo più approfonditamente, che io ricordo come una straordinaria novità portata dal movimento della Pantera, come un’innovazione di cui abbiamo subito colto la potenza era l’uso del fax e della rete di comunicazione. Ricordo quando è arrivato il simbolo della Pantera via fax. Non eravamo abbastanza per occupare tutta l’università, c’era la paura di ritrovarsi in un edificio vuoto. Per cui la scelta fu di permettere la continuazione delle attività didattiche e di occupare i centri nevralgici. Il che per noi ha voluto dire impossessarsi immediatamente dei computer e delle linee telefoniche e ricevere, per esempio, i fax dalla Sapienza occupata. Per noi quella fu una grande cosa. Nel ‘92 credo, la rete Ecn – all’epoca internet non c’era –  divenne un sistema di comunicazione tra i vari nodi dei centri sociali o delle sedi politiche che si scambiavano dei fax che diventavano dei bollettini stampati. Cogliemmo subito che la comunicazione era diventata importante. Ad esempio, il simbolo, la Pantera, era nato da un gruppo di compagni che erano pubblicitari. Per la prima volta veniva usato un logo che poteva essere ribaltato in termini conflittuali. Ricevevamo ogni giorno decine e decine di fax da ogni università occupata con le loro piattaforme. Ricordo l’emozione procurata da un computer collegato ad una rete, che per me non era ben chiaro cosa fosse, e che ci permise un’immediata comunicazione con Roma. Non si trattava più soltanto di telefonare a Radio Onda Rossa, come avevamo fatto negli anni precedenti, ma di ricevere rapidamente l’intera piattaforma di una discussione dell’assemblea studentesca. Era una grande novità di cui oggi forse non si coglie l’importanza. Da questo punto di vista, all’epoca Torino ci sembrava molto più indietro rispetto a Roma. Un’ultima cosa su Palermo: per noi non fu una grossa sorpresa perché anche il Settantasette era partito da Palermo. Ci sembrava tutto sommato naturale: una composizione intellettuale del sud, dove le università producevano opportunità che avevano scarse possibilità di trasformarsi in posto di lavoro. Credevamo la questione del sapere nel Mezzogiorno fosse sentita in maniera diversa. Il lavoro politico fatto all'università prima della Pantera aveva permesso a diversi gruppi di arrivare all'appuntamento del ‘90 senza farsi trovare impreparati. Non nego però che fui sorpreso perché era la prima volta che vedevo un vero movimento. E c’è una bella differenza tra leggere o sentirne parlare o vederlo. Tutto sommato però, ce lo aspettavamo.

 

Entrambi avete parlato della composizione militante che già esisteva e che è arrivata preparata al ‘90. Ora ci interesserebbe capire qual era la composizione soggettiva del movimento della Pantera. Ad esempio Luca ci ha detto che si percepiva un restringimento della possibilità di vivere l'università come un luogo di socializzazione e di autovalorizzazione, a fronte di una sua maggiore lavorizzazione, per usare una categoria cara a Romano Alquati. In che modo guardavate alla composizione soggettiva che animava quel movimento? Perché lo chiamavate movimento? C'era una composizione soggettiva anche non militante?


LP: Negli anni precedenti, il lavoro politico consisteva nel fare un giornalino, volantinare in università o tenere qualche assemblea, in alcuni casi anche dignitose in termini di numeri, ma con una bassa partecipazione. Ricordo l’assemblea dell’occupazione o i primi giorni di mobilitazione. Per la prima volta avevamo a che fare con studenti che non avevamo mai visto, oltre a quelli del nucleo militante, oltre a quelli che conoscevamo già. Per la prima volta avevamo l'occasione di conoscere un sacco di studenti «normali» che si erano avvicinati, probabilmente interessati alla politica, ma anche persone al di fuori di un percorso militante. C’è da dire che molte di quelle persone probabilmente avevano partecipato ai cortei del 1985. Per noi era un'epoca di riflusso molto marcato, il confronto con gli anni Settanta era ancora vivo ma rappresentava un po’ una gabbia. Con il senno di poi però si può dire che in realtà quegli anni Ottanta sono stati attraversati da molti movimenti. Per cui le persone che avevamo di fronte secondo me avevano avuto un avvicinamento alla politica in qualche maniera. Lì ho capito che cosa è un movimento. Il movimento è qualcosa che senti nell’aria: i telegiornali ne parlavano, le notizie si susseguivano… É una cosa che elettrizza e improvvisamente radicalizza una serie di persone e spinge altre, che magari erano interessate a quello che avevano intorno ma non erano così motivate, a muoversi. Per me una delle difficoltà è stata quella di relazionarsi con loro. Noi sapevamo muoverci bene nei piccoli gruppi. Muoversi nei grandi gruppi per me è stata una cosa veramente molto difficile. Salvatore e l’area del suo collettivo sono stati molto più abili. Noi a un certo punto avevamo maturato l’idea che il movimento prima o poi sarebbe finito permettendoci di raccogliere i pesci con una rete dopo l’ondata. Avevamo quasi fretta che finisse perché non riuscivamo a stare dietro a quella dinamica di movimento. C’erano tanti soggetti che non parlavano i nostri linguaggi, con cui era più difficile relazionarsi. Tutta una serie di cose che davamo per scontate nel collettivo interfacoltà dell’anno prima, dove c’erano 3 trotskisti, 2 anarchici, 5 del collettivo «S-contro», 5 militanti dell’area autonoma e 2 che non facevano parte di collettivi organizzati. Quando invece ti trovi davanti 50, 100 o 1000 persone è diverso, devi inventarti un linguaggio differente e per noi è stato difficile.


SC: Non so cosa altro aggiungere perchè penso che Luca l’abbia detto benissimo. Cos’è un movimento? Per rispondere alla domanda vorrei prima fare un passo indietro. Non era in corso una grande trasformazione dell’università. Il dibattito opponeva i «miglioristi» del Partito comunista ai presunti studenti «conservatori» che desideravano ancora un’università chiusa nell’autonomia del pensiero intellettuale e che non si confrontava con il mercato. Noi a questo dibattito ci arriviamo «di rincorsa», ed è vero che la percezione era quella di un cambiamento all’interno dell’università. Ad esempio, la facoltà che frequentavo era piena di studenti-lavoratori. Al corso tenuto da Romano Alquati (per noi è stato un punto di riferimento, provò anche ad intervenire ai margini della Pantera) eravamo due studenti in corso, tutti gli altri erano dipendenti della pubblica amministrazione. Era piena di fuoricorso che forse non sentivano neanche su di sé l’obbligo di terminare il percorso universitario. Si andava semplicemente a sentire delle lezioni. Paradossalmente in quell’università vivevano molte delle rivendicazioni che potrebbero sembrare attuali e che vengono da parte del mainstream, ossia l’educazione permanente, il learning spalmato lungo tutto l’arco della vita ma attraverso percorsi molto istituzionalizzati e formali che danno crediti e credenziali spendibili sul mercato. Di fatto quell'università, che noi criticavamo per tante cose, da questo punto di vista era indiscutibilmente più accessibile. La questione degli appelli per noi fu importante perché fece da innesco. Devo dire che anche io mi aspettavo una mobilitazione. La sentivi in qualche modo anche da questi aspetti micro che però incidevano più materialmente sul tuo rapporto con l'università. Si stava configurando un’università per studenti iscritti che dovevano laurearsi in fretta: quello che poi hanno vissuto le generazioni successive. Tuttavia, per me oggi l’università è ancora un’altra cosa rispetto a quella dei primi anni Duemila e a quella dell’«Onda», che era un’altra cosa ancora. Veniamo alla questione della soggettività: io ne ero letteralmente ossessionato. Il mio gruppetto faceva interminabili discussioni su questo, ma con l’occupazione tutti i ragionamenti «saltano». Da quel momento per me cambia veramente tutto. Non so quanto sia stato rilevante in termini assoluti il movimento della Pantera, nella mia esperienza personale – ho vissuto una militanza più intensa dal 1985 fino alla fine degli anni Novanta, la Pantera è stato un vero e proprio spartiacque. Per me è stato qualcosa che ha cambiato le relazioni e le persone che frequentavo: le persone che tuttora frequento le ho conosciute in quella circostanza. Nel mio caso c’è stata un’immersione totale dentro questa situazione. Quali erano le soggettività? Diamo qualche numero. Torino aveva 27.000 studenti, l’assemblea che occupa Palazzo Nuovo era di 1000 persone. Quello fu il momento di massima espansione, poi si stabilizzò un nucleo molto ampio che occupò i dipartimenti. È vero che ci fu un dibattito sull’opportunità di interrompere o meno la didattica. In realtà tentammo di interromperla: facevamo i cortei che entravano durante le lezioni ma tenete conto che già all’epoca esisteva un’organizzazione per semestri, per cui in realtà una grossa parte dell’occupazione era caduta in un mese di intervallo fra i due semestri. Si formò un nucleo di 500-600 persone che fu il vero corpo militante dell'occupazione. Non divennero tutti militanti e non lo erano tutti prima, anzi quasi nessuno nel senso che intendevamo noi. Non erano persone che avevano fatto politica in senso forte però vedevi quello che partecipava all’associazione di volontariato di quartiere, quelli che avevano partecipato alle manifestazioni contro il nucleare ecc. Negli anni Ottanta, nelle grandi città era molto importante la dimensione controculturale: i concerti, la musica, il punk. Luca fa bene a ricordare l’uso del fax: oggi fa ridere ma a noi sembrava velocissimo. Ci sembrava di vivere in una dimensione di simultaneità mentre oggi i tempi di un fax sarebbero considerati lunghissimi. Un altro elemento caratterizzante quel movimento era l’uso delle attrezzature per creare dei propri strumenti. C’era per esempio un «cine-occhio», «l’occhio della Pantera»: gli studenti del dipartimento di discipline artistiche riprendevano tutti e realizzavano dei video alcuni dei quali furono presentati anche a qualche festival. L’underground, più che la militanza in senso forte, era un terreno di aggregazione molto importante. Per noi c’era una divisione tra un’area più radicale del movimento e una più dialogante con il mondo accademico. Quest’ultima era molto forte a Scienze Politiche dove alcuni dei leader erano più legati al Partito Comunista o alla Fgci o al mondo del volontariato cattolico. Quindi non era una composizione militante ma in larga parte non era del tutto aliena alla militanza. È vero che la gran parte si aggregava sui comportamenti, sull’esigenza di vivere un'esperienza di quel tipo. Era certamente una composizione di sinistra. La ritrosia verso questo termine, il rifiuto dell’assimilazione a sinistra arriva, almeno per me, qualche anno dopo. Noi eravamo una sinistra antagonista all’epoca, radicale, rivoluzionaria. C’erano tanti altri percorsi che venivano da altre esperienze politiche. Però, insisto, era molto rilevante questa dimensione dell’underground, dei consumi nella scena dei locali alternativi della città. L'università, per un paio di mesi ha funzionato con questa dimensione di partecipazione e di festa. I dipartimenti dopo un po’ sembravano luoghi dove si organizzavano feste, seminari, cene, party – non è che ci fosse nulla di cui vergognarsi, perché l’elemento festoso è sempre presente nei movimenti.


LP: Una cosa che mi colpiva era che lì la sera era diventato un centro sociale di grandi dimensioni, dove confluivano e partecipavano tantissime persone. L’università era diventata un luogo di ritrovo. Vorrei aggiungere una cosa a quanto dice Salvatore rispetto all’esplosione del suo collettivo agli inizi dei ’90. Anche noi, il gruppo degli studenti dell’autonomia, non a caso un anno dopo, rompiamo con quella che era l’organizzazione torinese dell’Autonomia. Perchè per noi il dopo Pantera è stato scoprire la «Pantera a rizoma» di Bifo, di Lazzarato che scrive  «La Panthère et la communication» su Futuro Anteriore; è stato scoprire bene Alquati – non tanto quello de Sulla Fiat ed altri scritti ma quello dell’ «intellettualità di massa», degli scritti sugli studenti. Per noi ha voluto dire uscire fuori da un’immagine di quella che era l’autonomia degli scontri di piazza, legata alla memoria del Settantasette. L’emersione del movimento era stata una cosa importante perché ci offriva una possibile lettura della composizione della classe; quel passaggio ha permesso, ad alcuni di noi, di trovare altri strumenti. Per noi quel movimento è stato un salto. Quando Salvatore dice che la sua biografia politica ha il movimento della Pantera come baricentro io mi ci ritrovo. Il senso di un movimento è questo: è quella cosa che ti cambia. Io ho fatto politica in gruppi organizzati dal 1984 al 2002 però, quell’esperienza, tra le tante che mi hanno cambiato, è stata decisiva. Ancora a distanza di anni, anche tra i miei colleghi c’è gente che mi riconosce perché ho fatto la Pantera. Essere dentro un movimento è anche questa cosa: ti rimane quella memoria di un’esperienza collettiva che ti ha segnato.


Salvatore prima ha detto che gli studenti delle facoltà di Lettere, Magistero e Giurisprudenza si sentivano ai margini di quel processo che tendeva a legare la formazione universitaria al tessuto produttivo e che quindi poteva consentire uno sbocco lavorativo più o meno sicuro. Questo sentimento era diffuso solo tra la composizione più strettamente militante oppure caratterizzava la soggettività coinvolta nella mobilitazione?


SC: Mi sento di dire che in generale le facoltà di Ingegneria e i tre Politecnici italiani (Bari, Torino, Milano) furono fuori dal movimento. A Milano anche le umanistiche non parteciparono. Giurisprudenza non fece l’occupazione a Torino, un gruppo di militanti occupò la presidenza di giurisprudenza per una settimana ma ogni giorno si trovavano file di studenti che chiedevano di mettere ai voti la fine dell’occupazione. Ressero per una settimana. Molto spesso andavamo noi, che non eravamo iscritti a giurisprudenza, a ingrossare le fila di quelli che votavano per l’occupazione che quindi era portata avanti soprattutto dalle tre facoltà di cui dicevo prima, ma direi essenzialmente Lettere e Scienze Politiche. Magistero ebbe un nucleo abbastanza ampio ma non amplissimo. Nacquero interessanti collettivi a Torino nelle facoltà di Fisica, Agraria e Chimica, molti soprattutto dopo. Ci fu qualcosa ad Architettura che faceva parte del Politecnico ma anche lì poca roba. Per me contava più che la composizione sociale, la mentalità e la cultura se devo dirla tutta. Se mi affaccio da casa mia vedo quella che oramai è la più grande fabbrica di Torino, il Politecnico. Qui nel quartiere in cui vivo è pieno di studenti e studentesse che all’epoca erano una rarità, oggi sono tantissimi e vengono da tutto il mondo. Ѐ pieno di cinesi, uzbeki, iraniani, curdi e soprattutto di studenti che provengono dal Sud Italia, da lì sono sempre venuti. Il mio quartiere è pieno di 23-24enni della Campania, della Puglia, della Calabria e della Sicilia. Però sono molto diversi da quelli che frequentavano quella specie di scuola di addestramento e di inclusione di allora. Chi si iscriveva al Politecnico negli anni Ottanta prima di tutto aveva una carriera garantita nella grande industria, si «iscriveva» al management tecnico della grande-media impresa industriale. 2-3 anni dopo, cambia tutto. Questo è un aspetto torinese, discorso che non si può ampliare a tutta l’Italia e nemmeno a tutto il Nord.  Alcune facoltà di Torino, insieme a quella di Economia e Commercio, catturavano, già all’atto dell’iscrizione, studenti con quella predisposizione. Il mio sogno, anche all’epoca, restava quello di trasformare gli ingegneri del Politecnico in ordinati militanti della rivoluzione ma con capacità che erano quelle sviluppate dalle scuole tecniche. Questa però restava un’utopia. Nel dire che ci sentivamo ai margini non parlavo solo di noi militanti, penso che fosse un senso comune degli iscritti alle facoltà umanistiche che anche in seguito alla laurea cominciavano già a sperimentare forme di disoccupazione o di precariato. C'era una consapevolezza abbastanza diffusa di questo, almeno tra gli iscritti a Lettere, Scienze Politiche o Magistero. Attenzione però, queste erano le facoltà pensate per fornire i quadri alle strutture pubbliche, agli apparati dello Stato. Scienze Politiche nasce per creare il management della pubblica amministrazione e dei grandi apparati dello Stato. Erano le facoltà pensate per creare i quadri della pubblica amministrazione, così come Lettere e Filosofia. Voglio dire, non casualmente Luca fa l’insegnante, era lo sbocco più probabile di chi faceva Lettere. Certo, noi iniziavamo a vedere un uso, da parte di una certa nuova imprenditoria, della comunicazione, dei media e della creatività variamente denominata. Iniziavamo a vedere l’inclusione da parte delle imprese anche di profili che venivano da discipline artistiche o umanistiche, di gente che sapeva scrivere ed era in grado di fare il copywriter. Questo arruolamento, di quella che qualcuno qualche anno dopo provò a chiamare «classe creativa», c’era ma non era così su larga scala. La consapevolezza media di chi stava a Scienze Politiche, Lettere o Magistero così come nelle facoltà scientifiche di base come Fisica, Chimica o Matematica era che in qualche modo ci fosse un restringimento delle opportunità. Può darsi che questo spieghi la diversa predisposizione di chi si iscriveva a queste facoltà –  ci torno dopo –  e la loro diversa postura soggettiva nei confronti di una riforma che prometteva più autonomia e, pur non essendo presentata in questo modo anche se qualche editorialista lo scriveva (soprattutto su «La Repubblica», che era l’organo di stampa della riforma Ruberti ed infatti era molto ostile al movimento), di premiare maggiormente gli atenei meritevoli. Io non avevo la più pallida idea di quale dovesse essere la mia collocazione professionale. Non ce l’avevo veramente, non avevo un progetto e come me tantissimi con cui parlavo all’epoca. Larghi strati di studenti facevano un percorso di studio che piaceva, che trovavano coerente con quello che pensavano e che non aveva questo elemento di finalizzazione. Certo, le nostre erano facoltà orientate a creare soprattutto lavoro pubblico – banalizzo un po’ perché non era proprio del tutto così – e quindi vedevamo un po’ uno svantaggio. Avevamo un’idea molto torinese dell’aziendalismo, nella sua versione corporate e non nella versione della piccola-media impresa «creativa» tipica di altri tessuti produttivi. A Torino c’era ancora la Fiat: solo due anni dopo inizia quel processo di progressivo distacco, delocalizzazione, dimagrimento. Ma allora era ancora la città di Romiti e di quel tipo di management.


LP: Era davvero un’altra epoca, non solo perché noi non avevamo il computer o il cellulare. Torino non era ancora la Torino delle olimpiadi, del turismo e del centro storico rifatto. Anche se una delle poche iniziative di apertura della Pantera, in una Torino che stava costruendo lo stadio dei mondiali, fu proprio una contestazione – dove la polizia caricò – di un evento in una galleria del centro durante il quale doveva essere scelto il nome dello stadio. In particolare, si contestava il fatto che fossero morti degli operai, anche a Torino, per costruire degli stadi per i mondiali di Italia ‘90. Quello fu un tentativo di apertura sul sociale. Sul lato universitario, non coglievamo il processo di privatizzazione, mentre comprendevamo l’introduzione dell’autonomia. Un elemento di contesto che non abbiamo introdotto prima ma che per noi era stata importante: a partire dall’ ‘86-87 erano nati i Cobas nelle ferrovie. Erano le prime esperienze significative di sindacalismo alternativo che si sviluppavano dentro il processo di privatizzazione, di svendita e di smantellamento del pubblico. Infine, vorrei aggiungere che sposo in pieno quello che diceva Salvatore. Le persone che frequentavo e che andavano all’università non erano solo militanti. Erano tutte persone che non avevano finalizzato il loro percorso universitario all’ingresso nel mercato del lavoro. Quello sarebbe venuto inevitabilmente prima o poi nel corso della nostra vita, era dato per scontato. Oggi, parlando con i miei ex-studenti, ho l’impressione che l’università abbia una finalizzazione molto più stretta. Considerate anche che l’università dell’epoca non aveva la laurea breve, che è venuta dopo. C’era una liberalizzazione dei percorsi straordinaria a vederla oggi.

 


Note

[1] La trascrizione non è stata rivista dagli intervistati



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Salvatore Cominu svolge attività di ricerca, formazione e consulenza in collaborazione con centri di ricerca. Nel corso degli anni ha partecipato a numerosi progetti di livello locale, nazionale e internazionale su molteplici temi, dalle indagini sul mercato del lavoro allo sviluppo urbano e territoriale, dall’economia sociale ai problemi dell’azione collettiva e delle soggettività del lavoro, alla valutazione delle politiche pubbliche. Cura, insieme a Giuseppe Molinari, la sezione Transuenze di Machina.

 

Luca Perrone collabora con la rivista «Machina» di DeriveApprodi, per la quale, con M. Pentenero, ha curato il testo La riproduzione del futuro. Le ipotesi di Romano Alquati per una trasformazione radicale. Ha pubblicato Banditi nelle Valli valdesi. Storie del XVII secolo (Claudiana, 2021) e, con Enrico Lanza, Abbiamo fatto un sindacato. Enrico Lanza: una vita dalla parte dei lavoratori (DeriveApprodi, 2022)

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