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Un femminismo intersezionale ante litteram

Recensione a Il salario al lavoro domestico (ombrecorte, 2023) di Louise Toupin





Esce in questi giorni in traduzione italiana: Il Salario al lavoro domestico. Cronaca di una lotta femminista internazionale 1972-77 di Louise Toupin (ombre corte 2023, pp. 351, 27,00 euro), «la mirabile ricostruzione dell’esperienza di una parte del movimento femminista degli anni Settanta che, nonostante durante quel decennio fosse tra le più rilevanti sia a livello teorico che politico, negli anni successivi è stata dimenticata».



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«Dovresti intitolare il tuo libro Le desaparecidos del movimento femminista». Questa l’epigrafe al capitolo introduttivo del libro della storica canadese Louise Toupin Il Salario al lavoro domestico. Storia di un movimento femminista internazionale 1972-77 di recente pubblicato per i tipi di ombre corte. Questa frase, che Mariarosa Dalla Costa pronunciò durante un’intervista con l’autrice nel 1994, esprime chiaramente le ragioni all’origine della stesura del volume. Sebbene pubblicato diversi anni dopo lo scambio tra Dalla Costa e l’autrice (in francese nel 2014 e in inglese nel 2018) oggi, che finalmente arriva la sua traduzione in Italia, le cose non sono cambiate. Il tema continua a essere trascurato, soprattutto all’interno dell’Accademia e nella ricerca storica.

Il libro di Toupin è la mirabile ricostruzione dell’esperienza di una parte del movimento femminista degli anni Settanta che, nonostante durante quel decennio fosse tra le più rilevanti sia a livello teorico che politico, negli anni successivi è stata dimenticata, o meglio silenziata.

La campagna internazionale per il salario al lavoro domestico venne lanciata nei primi anni Settanta dal Collettivo internazionale femminista, gruppo costituitosi a Padova nel luglio 1972 ad opera di compagne che risiedevano in diversi paesi tra cui, Italia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Svizzera e Francia [1].

Nonostante la modestia dell’autrice, che nell’introduzione dichiara di aver riportato solo frammenti della storia di questa rete internazionale, il risultato della ricerca è più che soddisfacente: un resoconto dettagliato e affidabile che, a partire dalle origini dell’esperienza militante, ripercorre non solo le mobilitazioni dei gruppi femministi che intrapresero quella lotta, ma fornisce anche il quadro teorico in cui queste femministe si posizionarono. Questo libro, inoltre, risulta essere ad oggi la prima e unica ricostruzione storica presente sul tema, un lavoro organico e coerente.

L’arco cronologico preso in considerazione dall’autrice sono gli anni Settanta, periodo che coincide con la fase di attività del Collettivo internazionale femminista (almeno fino a quando mantenne questo nome, molte compagne infatti continuarono la lotta anche dopo il 1977 fondando nuovi gruppi con nomi diversi). All’inizio del decennio si fondano le basi teoriche della corrente del neofemminismo che diede vita al Cif. Nel 1972 uscì in Italia Potere Femminile e Sovversione Sociale di Mariarosa Dalla Costa con il contributo di Selma James, opera cardine di questa corrente femminista che presto venne tradotta e pubblicata anche in altri paesi. In quegli stessi mesi, a Padova, si riunirono per due giorni alcune compagne provenienti da vari paesi del nord globale per discutere le proposte contenute nel libro di Dalla Costa: il frutto di quelle giornate fu un manifesto che gettò le basi teoriche della futura campagna internazionale per il salario al lavoro domestico. Le firmatarie erano Mariarosa Dalla Costa, Selam James, Silvia Federici e Brigitte Galtier. Le idee che animavano il Cif non erano inedite, molte compagne già avevano lavorato durante i mesi precedenti nei rispettivi contesti e tutte avevano riflettuto sul ruolo del lavoro domestico nell’analisi dello sfruttamento delle donne. La vera innovazione fu dunque la proposta di un collettivo internazionale.

I primi anni di vita del Cif furono dedicati alla diffusione delle idee alla base della rivendicazione di salario, nel 1973 venne organizzato un tour politico di Dalla Costa e James in Nord America per promuovere le loro riflessioni. In numerosi paesi, nei due anni successivi, nacquero gruppi che andarono a formare la rete per il salario al lavoro domestico, tra i principali: Canada, Svizzera, Germania, Messico e Argentina. Furono anni di intensa attività politica che si concretizzò in modi variegati. Momenti fondamentali per l’organizzazione della lotta furono le conferenze internazionali , occasione di incontro e riunione per le femministe dei vari paesi. Durante questi momenti di condivisione e confronto si discuteva di teoria e organizzazione.

La prima conferenza, tenutasi a New York nell’ottobre del 1974, sollevò questioni sulla natura della lotta che vennero dibattute anche nella conferenza successiva a Montreal nel febbraio 1975. All’interno del Collettivo internazionale femminista emersero due tendenze distinte: alcuni gruppi teorizzavano la natura internazionale del capitale e conseguentemente credevano nella necessità di agire su un piano internazionale, condiviso e coerente tra tutti i paesi; altri collettivi vedevano la prospettiva del salario prima di tutto come uno strumento di sensibilizzazione, utile ad ottenere risultati a livello locale a seconda dei diversi contesti. Da questi ultimi, la prospettiva internazionale era intesa come un insieme di contatti, una forma di collegamento tra vari paesi in cui però ognuno avrebbe mantenuto la sua strategia di lotta. Al termine ella conferenza di Montreal, prevalse la prima corrente, più interessata alla dimensione internazionale, fatto che spinse le compagne che privilegiavano il lavoro sui territori a distanziarsi.

Altri argomenti al centro del dibattito furono legati, da un lato, al leaderismo assunto da alcune compagne più esperte (definite «punti di riferimento») e in secondo luogo alla posizione del Cif in relazione alle pratiche separatiste. Quest’ultimo argomento assunse particolare rilevanza, in quanto, nel corso del tempo, alcuni gruppi di donne nere e di donne lesbiche impegnati nella lotta per il salario giunsero a rivendicare la loro autonomia organizzativa. Questo aspetto fu accolto dal Cif sulla base del riconoscimento delle specifiche necessità che queste donne evidenziavano, inoltre rinforzò la dimensione più originale della prospettiva del salario al lavoro domestico e cioè la sua capacità di unire in un'unica lotta richieste che prima di allora erano state avanzate separatamente da gruppi femministi slegati tra loro.

Nel processo generale di de-strutturazione della protesta sperimentato da tutte le realtà militanti alla fine degli anni Settanta si iscrive anche la fine del Cif così come aveva agito fino a quel momento. Durante l’ultima conferenza, a Chicago nel 1977, venne infatti messa in discussione l’esistenza stessa del collettivo internazionale, che di lì a pochi mesi cessò di esistere.

All’interno del volume, è dedicato ampio spazio alla critica della società salariale che, insieme all’idea di un approccio cosiddetto «intersezionale ante litteram» della prospettiva del salario al lavoro domestico, costituiscono le due tematiche su cui l’autrice ritorna più volte per evidenziarne l’estrema attualità nel dibattito femminista contemporaneo. Pregio ulteriore di questo testo è infatti rendere fruibile una teoria femminista che potrebbe sembrare ostica ai non addetti ai lavori. D'altronde sembra che l’obiettivo di Toupin sia proprio questo: tracciare lo sfondo storico di un dibattito che oggi più che mai necessita di essere riscattato. Proprio a partire da questa considerazione un intero capitolo viene dedicato alla prospettiva politica avanzata dal Cif, che attraverso un’analisi globale della divisione sessuale e di genere del lavoro riproduttivo, arrivava a minare la struttura stessa della società capitalista. L’intuizione iniziale fu nell’attenzione dedicata al concetto di lavoro domestico: per la prima volta ne venne messo in luce il suo valore produttivo che fino a quel momento era stato negato. Venne esposta la relazione tra donne e capitalismo, le donne che svolgevano il lavoro di riproduzione producevano in realtà la merce più importante, la merce alla base dello stesso modo di produzione capitalista cioè la forza lavoro. Venne esplicitato il rapporto di potere che la mancanza di salario instaurava nel rapporto tra i sessi (e non solo).

In questa direzione la richiesta del salario al lavoro domestico era una strategia politica finalizzata ad attaccare l’organizzazione gerarchica tra salariati e non-salariati e per aprire la possibilità di negoziare le condizioni del lavoro di riproduzione, eliminando la dimensione di naturalità che in una visione essenzialista attribuiva il lavoro domestico ai soggetti femminili (è l’idea del «lavoro d’amore»). Secondo questa nuova prospettiva tutte le categorie di non-salariati divenivano parte del ciclo di produzione capitalistica e conseguentemente potenziali soggetti sovversivi.

A partire dal lavoro teorico di alcune di queste femministe, che analizzarono il ruolo della riproduzione nell’accumulazione del capitale, si giunse anche a una critica della divisione internazionale del lavoro. Tra i contributi più significativi in questo senso ci fu certamente quello di Selma James che già nel 1973 con il suo saggio Sesso, razza e classe, identificava una vera e propria fabbrica globale della riproduzione.

La disamina dell’elaborazione teorica del collettivo, la ricostruzione del contesto storico, così come il focus più centrato sull’articolazione delle lotte portate avanti dal Cif, contribuiscono all’esaustività dell’opera. Oltre alla ricostruzione degli eventi più salienti che caratterizzarono la parabola del Cif, Toupin ci offre una panoramica sulle mobilitazioni che più concretamente vennero portate avanti. La seconda parte del volume è dedicata infatti alle azioni deo vari gruppi, comitati e collettivi afferenti alla prospettiva del salario al lavoro domestico. Questa è forse la sezione più rilevante dal punto di vista storiografico; i dettagli qui contenuti sono il risultato dell’accurato lavoro d’archivio che l’autrice ha compiuto per la stesura del testo.

A questo lavoro prettamente storiografico, Toupin ha unito un intenso lavoro sul campo. Recandosi personalmente nei paesi attraversati da questa esperienza e conducendo interviste più o meno informali con le sue protagoniste, l’autrice ha modo di offrire al lettore uno sguardo inedito e completo sulle tematiche trattate. Due interviste in particolare, quella con con Silvia Federici e con Mariarosa Dalla Costa, sono incluse per intero nel volume. Il loro narrarsi permette anche al lettore «profano» di approcciare in modo esaustivo la tematica e di cogliere la portata dirompente della lotta per il salario al lavoro domestico nel dibattito femminista.

Negli ultimi anni sembra che parole come cura e riproduzione siano tornate all’attenzione del movimento femminista globale, a questo si aggiungono i recenti lavori di studiose sulla «femminilizzazione» del lavoro e sull’intensificarsi della precarizzazione come dispositivo di controllo. L’ascesa della Social Reproduction Theory di cui Namcy Fraser e Tithi Bhattacharya sono le principali esponenti (ma non le sole) è forse la principale ragione di questa rinnovata attenzione, così come l’emergere del transfemminismo di Ni Una Menos che partito dall’Argentina si è diffuso in numerosi paesi riscoprendo l’importanza della creazione di connessioni «inter-categoria».

In questo rinnovato clima di fermento politico e culturale sembra però che manchi una parte fondamentale di memoria. Intuizioni quali la dimensione internazionale e l’importanza di creare collegamenti tra lotte distinte (sex work, black power, lesbismo ecc) non sono una prerogativa del femminismo della «terza ondata», ma hanno un importante precursore nel «femminismo marxista della rottura», elemento che dovrebbe essere maggiormente riconosciuto.

Oggi le battaglie portate avanti negli anni Settanta sul lavoro domestico si sono estese: la cura non è più richiesta solo all’interno della famiglia o delle mura domestiche, ma in ogni ambito della vita di una persona e al contempo non è più possibile marcare una linea di demarcazione netta tra spazio della produzione e spazio della riproduzione, la vita stessa è diventata fonte di profitto. O si è consumatori o si è produttori, «creator» (si pensi all’avvento dei social e alle nuove tecnologie), ma in entrambi i casi si è parte dell’ingranaggi di un neoliberismo sfrenato in cui si attua un processo di espropriazione senza precedenti del vivente. Tutto ciò è favorito, come suggerisce Sarah Jaffe, dalla nuova etica del lavoro a cui tutti siamo soggetti, per cui a patto di fare il «lavoro dei sogni» siamo disposti ad accettare mestamente qualunque cosa: precarietà, sfruttamento e solitudine.

Nelle conclusioni Toupin ci ricorda che la strategia che ha prevalso nel movimento delle donne, ovvero aggirare il problema del lavoro domestico e della riproduzione sociale, concentrandosi su questioni posticce e proponendo soluzioni private come la riconciliazione tra lavoro e famiglia e la suddivisione dei compiti tra i generi limitatamente all’interno del nucleo familiare, è risultata fallimentare. Il capitale si è ristrutturato creando nuove relazioni di potere e istituendo il business della riproduzione e della cura. Sempre più, il presente globalizzato ci costringe a domandarci se produzione e riproduzione siano ancora da intendersi come sfere separate o al contrario siano oggi entrambe capaci di generare valore di scambio.

Alcune studiose si stanno interrogando in questo senso e se così fosse bisognerebbe ripensare la lotta proprio a partire dalla fine del dualismo produzione-riproduzione. Nel dibattito attuale sulla crisi della riproduzione sociale questo volume svolge una funzione importante, regalandoci un quadro storico ricco di stimoli da cui (ri)partire.





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Martina Gabrielli, dottoranda in studi storici presso l’Università degli studi di Milano la Statale, ha conseguito un master in Gender Studies, con una tesi su Lotta femminista. Si occupa di storia del femminismo con particolare attenzione al movimento degli anni Settanta. Occasionalmente collabora con l’archivio di storia delle donne di Bologna per progetti sui femminismi contemporanei.

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