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Capitalismo razziale, sfruttamento nelle campagne e insediamenti informali in provincia di Foggia


Borgo Mezzanone, un lavoratore agricolo nella baraccopoli
Borgo Mezzanone, un lavoratore agricolo nella baraccopoli

Una fotografia del lavoro migrante nelle campagne in Italia, visto attraverso i «ghetti», gli insediamenti informali che ospitano, in condizioni di massima precarietà, lavoratori e lavoratrici migranti impegnati nella raccolta dei pomodori o delle arance. Coniugando gli studi del pensiero radicale nero con un lavoro sul campo, a metà strada tra la ricerca socio-etnografica e l’impegno politico, il saggio offre una lettura inedita della natura e della funzione dei «ghetti», al di là degli stereotipi veicolati dai media: non «un’eccezione, un residuo di relazioni lavorative arcaiche» - magari tipiche del Mezzogiorno [Ndr] - ma l’«espressione emblematica della flessibilità e della precarietà che contraddistinguono il lavoro contemporaneo» e che con il lavoro migrante raggiunge la sua acme.

 

 ***


 Negli ultimi anni, il tema del caporalato e dello sfruttamento dei lavoratori migranti nel settore agricolo è riemerso ciclicamente nel dibattito pubblico, spesso in risposta a drammatici fatti di cronaca. Ciononostante, raramente sono stati indagati gli elementi strutturali che determinano le condizioni di vita e di lavoro di migliaia di braccianti in Italia. Lo sfruttamento dei braccianti migranti nell’agricoltura italiana viene spesso evocato come esempio paradigmatico di una forma di schiavitù contemporanea, in cui i moderni schiavisti – siano essi datori di lavoro o «caporali» – esercitano un controllo capillare e totalizzante sui lavoratori, assoggettandoli non solo nei luoghi di produzione ma nell’intera sfera della loro esistenza. Il parallelo con la schiavitù, ampiamente diffuso nei mezzi di informazione, non viene però tematizzato in chiave storica per mettere in luce la persistenza di un sistema di sfruttamento fondato sulla divisione razziale del lavoro, quanto piuttosto per sottolineare il carattere arcaico o pre-moderno di tali pratiche. Esempi di questa narrazione si ritrovano diffusamente nelle pubblicazioni giornalistiche e divulgative che, da oltre vent’anni, affrontano la questione secondo modalità pressoché invariate[1]. Tale lettura contribuisce a rappresentare lo sfruttamento nel settore agricolo come un’eccezione, un residuo di relazioni lavorative arcaiche, anziché come espressione emblematica della flessibilità e della precarietà che contraddistinguono il lavoro contemporaneo.

 

All’interno di questa narrazione, un ruolo particolarmente rilevante è attribuito agli insediamenti informali – i cosiddetti «ghetti» – presenti soprattutto nel Sud Italia, in particolare in Puglia (provincia di Foggia), in Basilicata, in Calabria (Rosarno) e in Sicilia (Cassibile e Campobello di Mazara). Tali insediamenti e le precarie condizioni di vita che li caratterizzano vengono assunti come massima espressione dello sfruttamento dilagante nel settore agricolo, la cui esistenza sarebbe riconducibile alla presunta arretratezza strutturale del Mezzogiorno e alla necessità, da parte delle aziende agricole, di disporre di un bacino di manodopera a basso costo. Questa lettura, sebbene contenga elementi parzialmente fondati, risulta limitata: da un lato, non è in grado di spiegare compiutamente le specifiche dinamiche che caratterizzano gli insediamenti informali; dall’altro, tende a produrre un’equazione tra caporalato, insediamenti e sfruttamento, implicando che l’eliminazione dei primi due comporterebbe automaticamente la scomparsa del terzo. L’enfasi, da parte dei media e delle istituzioni, sugli insediamenti informali come rappresentazione estrema delle condizioni «disumane» cui sono sottoposti i braccianti migranti a causa dello sfruttamento lavorativo finisce così per oscurare le motivazioni strutturali che ne alimentano l’esistenza, nonché i processi di ghettizzazione e marginalizzazione che colpiscono le persone migranti razzializzate in Italia. Questa narrazione, spesso associata al ruolo delle organizzazioni criminali, contribuisce a rappresentare lo sfruttamento agricolo come un fenomeno eccezionale, eludendo l’analisi delle dinamiche sistemiche che rendono possibile il super-sfruttamento.

 

Di seguito cercherò di argomentare perché, dal mio punto di vista, gli insediamenti informali andrebbero interpretati come esito di un processo di ghettizzazione e segregazione a danno delle persone migranti razzializzate in Italia, attuato attraverso l’implementazione di normative e pratiche discriminatorie, piuttosto che come meri dispositivi funzionali allo sfruttamento lavorativo nel settore agricolo. Questa prospettiva consente di mettere in luce i fattori strutturali alla base della segregazione e di offrire una lettura degli insediamenti informali più aderente all’esperienza di chi li abita, anziché alla rappresentazione che ne restituisce la società maggioritaria. Inoltre, tale inquadramento permette di evidenziare come lo sfruttamento lavorativo – pur presente e rilevante – non costituisca l’unico tratto distintivo della condizione di oppressione vissuta dalle persone migranti razzializzate che vivono negli insediamenti della provincia di Foggia. Al contrario, questa condizione si comprende meglio come effetto dell’intreccio tra molteplici forme di oppressione, tra cui rivestono un ruolo centrale la razzializzazione e la precarietà giuridica.

 

L’analisi che propongo nasce dalla mia esperienza come ricercatrice e attivista nella provincia di Foggia, attiva dal 2019. In questi anni ho avuto modo di entrare in contatto con centinaia di persone, prevalentemente originarie dell’Africa occidentale, che, per ragioni differenti, si sono trovate a vivere in due dei principali insediamenti informali della zona: Borgo Mezzanone e Torretta Antonacci. Attraverso un lavoro di supporto socio-legale costruito insieme agli abitanti di questi insediamenti, ho potuto osservare direttamente le molteplici forme di oppressione che colpiscono i lavoratori razzializzati e comprendere in profondità la natura e la funzione di questi luoghi, al di là degli stereotipi veicolati dai media.

 

 

Migrazioni e razzismo nel panorama italiano: classe, razza e status giuridico.

 Per comprendere le ragioni per cui la narrazione dello sfruttamento dei lavoratori migranti nel settore agricolo come forma di schiavitù contemporanea risulta inadeguata a cogliere pienamente le condizioni e le motivazioni che spingono migliaia di persone ad abitare negli insediamenti informali del Sud Italia e a lavorare in agricoltura, è necessario innanzitutto compiere un passo indietro. Occorre cioè approfondire i limiti strutturali che connotano il discorso pubblico sulle migrazioni e sull’oppressione delle persone migranti razzializzate in Italia.

 

Ciò che spesso manca nelle analisi sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti migranti in Italia è la dimensione razziale. Sebbene lo status di «migranti» venga frequentemente invocato come causa della condizione di sfruttamento e marginalizzazione, raramente si approfondisce il ruolo della razzializzazione e la sua intersezione con i processi di illegalizzazione. Questo limite analitico riflette una carenza strutturale dell’antirazzismo italiano, che ha storicamente concentrato l’attenzione sul carattere intrinsecamente discriminatorio della normativa in materia di immigrazione, trascurando l’intreccio tra discriminazione giuridica e forme di razzismo – istituzionale e non – radicate in un più ampio processo storico-sociale di gerarchizzazione della specie umana in razze. Negli ultimi anni, fortunatamente, diverse autrici hanno evidenziato questa lacuna, sottolineando la necessità di analizzare le intersezioni tra discriminazioni fondate sulla razza e quelle fondate sulla cittadinanza (Obasuyi 2020; Hawthorne 2023; Pesarini 2020).

 

Di grande utilità, nell’elaborazione di una prospettiva critica sulle condizioni dei braccianti migranti razzializzati, è il ricorso alle analisi sviluppate da autori e autrici che hanno analizzato in profondità l’intersezione tra oppressione di razza e oppressione di classe. La prospettiva storicamente prevalente nei movimenti sindacali e antirazzisti in Italia – definita da alcuni come «marxismo bianco» (M. Mellino – A. R. Pomella, a cura di, Marx nei margini, Edizioni Alegre, Roma 2020) – tende a leggere il razzismo, spesso inteso più come xenofobia che come dispositivo razziale vero e proprio, come elemento sovrastrutturale, funzionale alla riproduzione dell’oppressione di classe attraverso la divisione della classe lavoratrice[2].

In discontinuità rispetto a tale impostazione, numerosi autori e autrici riconducibili al cosiddetto «marxismo nero» hanno invece messo in luce l’autonomia storica e politica dell’oppressione razziale rispetto a quella di classe. La definizione di «marxismo nero», sebbene dibattuta e non univoca, nasce con l’intento di sottolineare il ruolo centrale della razza nelle analisi di autori che, pur criticando il marxismo ortodosso, non ne abbandonano completamente il lessico e l’impianto teorico. Tra questi, è esemplare il contributo di F. Fanon che, nel suo I dannati della terra, sostiene la necessità di «distendere» le categorie marxiste nell’analisi dei contesti coloniali, poiché in quei contesti «la razza è parte della struttura» stessa:

 

Quando si scorge nella sua immediatezza il contesto coloniale, è evidente che ciò che fraziona il mondo è innanzitutto il fatto di appartenere o meno a una data specie, a una data razza. In colonia, l’infrastruttura economica è anche superstruttura. La causa è la conseguenza: si è ricchi perché bianchi, si è bianchi perché ricchi. Perciò le analisi marxiste devono essere sempre leggermente ampliate ogni volta che si affronta il problema coloniale[3].


La prospettiva proposta da Fanon si rivela estremamente preziosa non solo per l’analisi dei contesti coloniali, ma anche per l’interpretazione delle realtà post-coloniali contemporanee, le quali continuano a essere caratterizzate dalla centralità della questione coloniale e razziale nella definizione dei rapporti sociali ed economici. Nelle nostre società, infatti, la razza – intesa come costrutto sociale – continua a incidere profondamente sulle possibilità di ascesa sociale ed emancipazione, rendendo l’intuizione di Fanon più attuale che mai.

La centralità della dimensione coloniale-razziale all’interno del capitalismo contemporaneo è stata evidenziata attraverso l’elaborazione del concetto di capitalismo razziale, divenuto negli ultimi anni di uso comune tanto in ambito accademico quanto nei discorsi e nelle pratiche dei movimenti antirazzisti globali, come nel caso del movimento Black Lives Matter.

Tale concetto, reso noto da C. J. Robinson attraverso il suo ormai celebre Black Marxism. The Making of the Black Radical Tradition (The University of North Carolina Press, Chapel Hill – London 2000, ed. orig. 1983), mira a mettere in luce il carattere intrinsecamente razziale del capitalismo globale, criticando una serie di assunti fondativi del pensiero marxista e ponendo al centro dell’analisi il ruolo delle lotte delle popolazioni afrodiscendenti e del pensiero della tradizione radicale nera nella critica del capitalismo. Una delle tesi più rilevanti del lavoro di Robinson consiste nell’affermazione secondo cui il capitalismo non tende all’omogeneizzazione delle differenze, bensì alla loro differenziazione e cristallizzazione: le differenze culturali, regionali e linguistiche vengono convertite in differenze razziali, funzionali alla riproduzione delle gerarchie del sistema.


La prospettiva del capitalismo razziale proposta da Robinson è stata recentemente ripresa da diversi autori, tra cui la studiosa britannica G. Bhattacharyya, che in Rethinking Racial Capitalism. Questions of Reproduction and Survival (Rowman & Littlefield International, London – New York 2018) propone di rileggere l’analisi robinsoniana alla luce delle trasformazioni del capitalismo razziale contemporaneo. In particolare, l’autrice pone l’accento sul ruolo svolto dal regime dei confini, inteso come meccanismo di differenziazione e come incarnazione attuale della logica razziale del capitalismo.

Bhattacharyya suggerisce di andare oltre la nozione di sfruttamento, interpretando il funzionamento del capitalismo razziale come un dispositivo che opera attraverso processi interconnessi di sfruttamento, espropriazione ed espulsione, i quali costituiscono al contempo pratiche di razzializzazione. In questa prospettiva, il capitalismo razziale non produce soltanto una divisione razziale del lavoro, ma determina anche l’esclusione strutturale di una parte della popolazione razzializzata dall’accesso alle risorse – sempre più scarse – tra cui lo stesso lavoro salariato.

Le riflessioni sviluppate nell’ambito del «marxismo nero» e la prospettiva del capitalismo razziale appena delineata risultano particolarmente utili per comprendere a fondo il contesto di oppressione vissuto dalle persone migranti e razzializzate che abitano negli insediamenti informali della provincia di Foggia e sono impiegate nel lavoro agricolo.

 


Al di là dello sfruttamento: la condizione di oppressione delle persone migranti razzializzate nella provincia di Foggia.

 Gli insediamenti informali della provincia di Foggia nascono alla fine degli anni Ottanta come strutture temporanee destinate ad accogliere i lavoratori stagionali impiegati nella raccolta del pomodoro, i quali – una volta terminata la stagione – facevano ritorno alle loro abitazioni sparse sul territorio nazionale oppure proseguivano il proprio percorso migrante, spostandosi tra i diversi poli della produzione agricola, secondo il ritmo della stagionalità. Nel corso degli ultimi trent’anni, tali insediamenti hanno subito numerose trasformazioni, assumendo progressivamente la forma attuale. Oggi sono abitati prevalentemente da persone migranti razzializzate provenienti dall’Africa occidentale (in particolare Burkina Faso, Gambia, Guinea, Mali, Nigeria, Senegal), che vi risiedono in modo pressoché stanziale. Per la maggior parte di queste persone, la provincia di Foggia rappresenta una tappa nel percorso migratorio all’interno dell’Italia, raggiunta a seguito di una serie di processi di espulsione da aree urbane e industriali del Nord, legati sia alla condizione giuridica derivante dallo status migratorio, sia alle forme di discriminazione razziale subite in quanto «persone nere».

Nei resoconti giornalistici, gli insediamenti informali vengono spesso descritti come un «inferno», e la presenza di migliaia di abitanti è frequentemente attribuita a una qualche forma di coercizione esercitata dai caporali. Queste narrazioni, dal forte carattere sensazionalistico, insistono sugli aspetti più evidenti della precarietà abitativa e lavorativa, identificando come principali responsabili della situazione proprio i caporali – anch’essi migranti e razzializzati – il cui operato viene talvolta ricondotto all’attività di organizzazioni criminali. Tuttavia, i racconti delle persone che vivono in questi insediamenti restituiscono una prospettiva diversa, nella quale le prime forme di oppressione vengono associate alla normativa italiana in materia di immigrazione, che costringe a una vita segnata dalla precarietà giuridica ed esistenziale, nonché al razzismo sistemico presente nella società italiana. I caporali – o cosiddetti «capi neri» – che nella maggior parte dei casi abitano anch’essi negli insediamenti e condividono molte delle condizioni di marginalità e discriminazione, possono certamente assumere un ruolo di sfruttatori, ma rappresentano solo l’ultimo anello di una catena ben più ampia di dominio e oppressione.

 

La stretta connessione tra razzismo istituzionale e insediamenti informali è divenuta particolarmente evidente nel periodo successivo all’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari e all’espulsione dei suoi titolari dai centri di accoglienza, attuata attraverso i cosiddetti Decreti Sicurezza (2018–2020). Tale misura ha spinto migliaia di persone, espulse dai centri urbani in varie zone del Paese, a cercare rifugio negli insediamenti informali della provincia di Foggia. In quel periodo, l’insediamento informale di Borgo Mezzanone – sorto nei pressi dell’omonima frazione del comune di Foggia, accanto al Centro per richiedenti asilo (Cara) – ha registrato una crescita esponenziale. Da qualche centinaio di presenze nei periodi di raccolta, si è arrivati a oltre 4000 abitanti, tanto da essere etichettato come «il ghetto più grande d’Europa».

All’origine di questa espansione vi sono due dinamiche principali: da un lato, lo sgombero del Gran Ghetto di Rignano, fino ad allora il più grande insediamento informale della provincia; dall’altro, l’inasprimento normativo che ha prodotto nuove ondate di espulsione dai contesti urbani. Tra le persone coinvolte, vi erano richiedenti asilo esclusi dai centri in seguito al rigetto della domanda e titolari di protezione umanitaria che, nell’imminenza della sua abolizione, si spostavano nella provincia di Foggia nella speranza di ottenere un contratto di lavoro utile alla conversione del titolo di soggiorno in permesso per motivi di lavoro.

Sebbene possa apparire paradossale cercare un contratto proprio in un luogo simbolo dello sfruttamento e del lavoro nero, questa apparente contraddizione rivela i limiti della narrazione dominante sulla funzione della provincia di Foggia nel sistema migratorio nazionale. A partire dall’entrata in vigore della legge 199/2016 contro il caporalato, ottenere un contratto di lavoro agricolo in zona non è difficile; tuttavia, le tutele offerte da tali contratti restano deboli, e in molti casi i documenti sottoscritti hanno scarso valore effettivo.

Dopo l’abolizione del permesso umanitario, molte persone riuscirono a ottenere un contratto, ma si videro comunque rifiutare la conversione del permesso a causa della mancanza di un contratto di affitto. Infatti, se trovare un lavoro può risultare relativamente più accessibile nella provincia di Foggia, accedere a un alloggio in affitto si rivela estremamente difficile, soprattutto per le persone nere, a causa del razzismo sistemico che pervade il mercato immobiliare.

 

A partire dal 2018, dunque, centinaia di richiedenti asilo diniegati e di ex titolari di permesso umanitario impossibilitati a convertire il proprio titolo hanno cominciato ad abitare stabilmente negli insediamenti informali, non avendo altro luogo dove andare.

L’irregolarità giuridica è uno degli elementi strutturali che alimentano l’esistenza degli insediamenti informali, i quali rappresentano un rifugio per coloro che, a causa del proprio status, non possono più vivere nei centri urbani senza esporsi continuamente a controlli. In questo senso, tali insediamenti possono essere considerati come spazi relativamente più sicuri, all’interno dei quali soggetti sottoposti a processi di illegalizzazione riescono a ricostruire una parvenza di normalità e una dimensione di autonomia, attraverso la costruzione di abitazioni informali e la creazione di una vita sociale parzialmente sottratta al controllo istituzionale.


Un altro elemento centrale da considerare per comprendere l’esistenza degli insediamenti informali – abitati, come già accennato, prevalentemente da persone provenienti dall’Africa occidentale, sebbene la manodopera agricola migrante della provincia di Foggia includa anche numerosi cittadini europei (soprattutto di origine rumena e bulgara) e nordafricani (in particolare provenienti dal Marocco) – è il razzismo.

Se la formazione degli insediamenti informali dipendesse esclusivamente dallo sfruttamento lavorativo, dal caporalato o dallo status di «migranti» di chi vi abita, tali insediamenti non risulterebbero etnicamente così connotati, poiché anche lavoratori migranti appartenenti ad altri gruppi vivono condizioni di lavoro analoghe. La differenza va quindi ricondotta all’azione differenziale del razzismo, che non colpisce in modo omogeneo tutti i soggetti migranti, ma struttura gerarchie interne alla popolazione migrante stessa.

Nel contesto della provincia di Foggia, i cittadini rumeni e bulgari, in quanto cittadini europei e identificati come bianchi, incontrano meno ostacoli nell’integrazione all’interno delle comunità locali. Lo stesso vale, seppure con specificità proprie, per i cittadini di origine marocchina che, pur affrontando difficoltà legate al riconoscimento giuridico del proprio status, risultano meno colpiti dalla discriminazione razziale e riescono più facilmente ad accedere al mercato degli affitti. Ne derivano forme insediative diverse: le comunità marocchine risultano ben radicate in diversi centri della provincia – tra cui Torremaggiore e Lesina – e sono presenti anche nella stessa frazione di Borgo Mezzanone.

 

Come evidenziato dalla testimonianza di Mamadou (pseudonimo), un cittadino senegalese che vive nell’insediamento di Borgo Mezzanone, la questione razziale costituisce un fattore cruciale per comprendere le forme di discriminazione, segregazione e marginalizzazione vissute dai lavoratori migranti originari dell’Africa occidentale nella provincia di Foggia:

 

Lo sai, per noi è davvero difficile trovare una casa in affitto. Non è impossibile, ma molto difficile. La maggior parte delle volte, se vedono una persona nera trovano una scusa, dicono che il tuo salario è troppo basso, oppure ti chiedono una serie di documenti che non potrai mai avere. Non ti diranno mai direttamente «Non ti affitteremo la casa perché sei nero» ma te lo faranno capire. A Borgo, ci sono molte case vuote, non sono affittate a nessuno, ma non le affitteranno mai a noi. I marocchini vivono lì, ma a noi no, non le affittano.

 

La discriminazione razziale rappresenta un elemento centrale nell’esperienza quotidiana dei lavoratori migranti originari dell’Africa occidentale in provincia di Foggia, i quali si trovano a dover affrontare il razzismo ogni volta che interagiscono con gli uffici pubblici cui sono obbligati a rivolgersi per ottenere la documentazione necessaria a vivere e lavorare: l’Ufficio immigrazione della Questura, le Poste, l’Agenzia delle entrate, l’Asl, il Comune, ecc.

In particolare, l’Ufficio immigrazione della Questura, in quanto organo attuatore delle politiche discriminatorie in materia di immigrazione e cittadinanza, incarna in modo emblematico il razzismo istituzionale. Anche in questo caso, tuttavia, alle discriminazioni legate allo status giuridico si affiancano forme di discriminazione che affondano le proprie radici nella razzializzazione. Questa distinzione è emersa con particolare evidenza nel periodo successivo allo scoppio della guerra in Ucraina, durante il quale sono state predisposte file separate riservate esclusivamente ai cittadini ucraini.

Al di là del contesto emergenziale, il trattamento riservato alle persone razzializzate da parte del personale dell’Ufficio immigrazione appare sistematicamente più degradante e vessatorio rispetto a quello rivolto ai cittadini «bianchi»[4].

Emblematica della violenza prodotta da questa ulteriore forma di discriminazione è stata, nel luglio 2022, la reazione di Lamin (pseudonimo), un cittadino originario del Gambia che – dopo mesi di chiusura dell’Ufficio motivati dall’«emergenza ucraina» e di fronte all’ennesimo rifiuto, da parte degli operatori, di accogliere la sua richiesta di protezione internazionale a causa di presunti problemi tecnici – ha affermato:

 

Noi neri siamo tutti fuori, ma i bianchi sono entrati. Come è possibile? Se le macchine non funzionano, non funzionano per nessuno. Se facciamo casino poi dite che noi, i neri, siamo pazzi. Ma non siamo pazzi. Questa è violenza psicologica.

 

Ad aggiungersi alle discriminazioni quotidiane vissute nell’accesso ai servizi di base, la specificità della condizione di oppressione vissuta dalle persone nere nella provincia di Foggia si manifesta nella preoccupante ricorrenza di attacchi violenti, nonché in un tasso di mortalità significativamente elevato tra gli abitanti razzializzati degli insediamenti informali. A questo proposito, risulta utile richiamare la definizione proposta dalla geografa abolizionista R. W. Gilmore, secondo cui il razzismo consiste nella «produzione e nello sfruttamento, legittimati dallo Stato, di diversi gradi di vulnerabilità a morte prematura tra diversi gruppi sociali» (Golden Gulag. Prisons, Surplus, Crisis, and Opposition in Globalizing California, University of California Press, Berkeley – Los Angeles – London 2008, p. 28).

Negli ultimi anni, le persone nere residenti negli insediamenti informali della provincia sono state bersaglio di attacchi razzisti sistematici: dalle sassaiole contro lavoratori in bicicletta, verificatesi ripetutamente tra il 2019 e il 2023, alla sparatoria che nell’aprile del 2021 ha colpito Sinayogo Boubakar, lavoratore maliano residente nell’insediamento di Torretta Antonacci. Si tratta di aggressioni rivolte a persone razzializzate in quanto nere – come già accaduto in altri episodi analoghi sul territorio nazionale: a Firenze nel 2011 e nel 2018, a Macerata nel 2018, a Civitanova Marche nel 2022.

 

A questi attacchi si aggiunge una forma più silenziosa ma altrettanto letale di violenza razziale: la morte per negligenza, per mancanza di assistenza sanitaria, per indifferenza istituzionale. Negli ultimi cinque anni, oltre venti persone residenti negli insediamenti informali della provincia di Foggia hanno perso la vita in seguito a incendi, intossicazioni, incidenti stradali, o a causa del ritardo nei soccorsi. Mohammed Ben Ali, Oyedele Tobi, Baye Diouf, Fatoma, Yusupha Joof, Queen, Ibrahim Sowe, Cheikh, Famakan Dembele, Doris, Anthoine: sono solo alcuni dei nomi di chi ha pagato con la vita il prezzo del razzismo in Italia.

L’elevato tasso di mortalità che colpisce i lavoratori migranti razzializzati che abitano negli insediamenti informali costituisce un tragico indicatore della natura del razzismo come dispositivo di esposizione strutturale alla morte prematura, secondo la definizione proposta da Gilmore.

 

I fattori sopra analizzati descrivono un panorama in cui l’esistenza degli insediamenti informali, piuttosto che essere ricondotta unicamente allo sfruttamento lavorativo nel settore dell’agricoltura e alla coercizione di caporali, rappresenta il punto di arrivo di una catena di discriminazione, marginalizzazione e oppressione che ha inizio nel momento stesso in cui le persone arrivano in Italia, se non prima, basata sull’intersezione tra forme di razzismo e processi di illegalizzazione. In questo senso, gli insediamenti informali non possono essere letti solo come luoghi di sfruttamento funzionali alla filiera agricola, ma vanno compresi come dispositivi ambivalenti: spazi di sopravvivenza costruiti dal basso, attraverso pratiche quotidiane di resistenza, e al tempo stesso strumenti di segregazione, che consolidano le gerarchie razziali e giuridiche che strutturano il lavoro migrante in Italia.



Note

[1] G. Gatti, Bilal. Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi, Rizzoli, Milano 2006; L. Sagnet – L. Palmisano, Ama il tuo sogno. Vita e rivolta nella terra dell’oro rosso, Fandango, Roma 2015; F. Pernice, Sotto padrone. Uomini, donne e caporali nell’agromafia italiana, Laterza, Bari 2024

[2] Sulla differenza tra razzismo e xenofobia risulta particolarmente utile richiamare il contributo di K. Andrews che, nel suo Back to Black. Retelling Black Radicalism for the 21st Century (Zed Books, London 2018), mette in luce una distinzione fondamentale tra le forme di discriminazione vissute dagli immigrati bianchi irlandesi e quelle subite dalle persone nere negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.

Nel testo, Andrews scrive: «È fondamentale operare una distinzione, dal punto di vista analitico, tra razzismo e xenofobia. Gli irlandesi sono stati senza alcun dubbio vittime di xenofobia, sia in America che in Gran Bretagna. In quanto stranieri, sono stati derisi, disprezzati e hanno subito discriminazioni. Nella competizione per l’accesso alle risorse con coloro che erano già residenti nel Paese hanno subito marginalizzazione e hanno dovuto superarla per divenire parte delle rispettive società. Questo è un processo che qualsiasi comunità migrante deve affrontare ed è diverso dal razzismo, che opera in un diverso sistema di valori. I gruppi che non sono bianchi subiranno xenofobia in quanto stranieri, ma il razzismo è più essenziale. È connesso e inscritto nel corpo, è un rifiuto basato su una differenza radicata nella biologia. Il razzismo non può essere superato attraverso l’integrazione in un sistema sociale. Mentre gli irlandesi si sono assimilati negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, le persone nere in entrambi i Paesi sono nella maggior parte dei casi rimaste marginalizzate. Sebbene io sia nato in Gran Bretagna, e nonostante io abbia avuto un percorso discretamente di successo, i miei figli saranno sempre Black British, e non gli sarà mai garantita la parità a livello nazionale. Dal punto di vista strutturale, ad oggi gli irlandesi sono indistinguibili dalle persone bianche in generale, mentre le persone nere continuano a essere soggette a condizioni di grave svantaggio. L’idea che gli irlandesi non fossero bianchi prima di arrivare in America è anch’essa particolarmente astorica. C’è un motivo per cui gli irlandesi sono arrivati volontariamente in America attraverso un processo di emigrazione, mentre gli africani sono stati rapiti e portati in catene». (Traduzione dell’autrice dall’inglese, K. Andrews, op. cit., p. 197).

[3] F. Fanon, I dannati della terra, trad. di C. Cignetti, Einaudi, Torino 1962, cap. 7.

[4] A questo proposito, è rilevante considerare che, per la maggior parte delle persone provenienti dall’Africa occidentale che vivono negli insediamenti informali della provincia di Foggia, le persone originarie del Nord Africa – comunemente identificate come «arabe» – sono percepite, nella maggior parte dei casi, come «bianche» e considerate parte attiva nei meccanismi di discriminazione razziale agiti nei confronti delle persone nere. Questa percezione è rafforzata dall’esperienza concreta di razzismo vissuta nei Paesi di transito prima dell’arrivo in Italia – Libia, Tunisia, Algeria e Marocco – contesti nei quali molti migranti subsahariani subiscono violenze, detenzioni arbitrarie e sistematiche pratiche discriminatorie da parte delle autorità locali e della popolazione civile.



Riferimenti bibliografici

  • K. Andrews, Back to Black. Retelling Black Radicalism for the 21st Century, Zed Books, London 2018.

  • G. Bhattacharyya, Rethinking Racial Capitalism. Questions of Reproduction and Survival, Rowman & Littlefield International, London – New York 2018.

  • F. Fanon, I dannati della terra, trad. di C. Cignetti, Einaudi, Torino 1962.

  • F. Gatti, Io schiavo in Puglia, «l’Espresso», 1° settembre 2006. Disponibile a questo link.

  • R. W. Gilmore, Golden Gulag. Prisons, Surplus, Crisis, and Opposition in Globalizing California, University of California Press, Berkeley – Los Angeles – London 2008.

  • C. Hawthorne, Razza e cittadinanza. Frontiere contese e contestate nel Mediterraneo nero, Astarte Edizioni, Pisa 2023.

  • M. Mellino – A. R. Pomella, a cura di, Marx nei margini. Dal marxismo nero al femminismo postcoloniale, Edizioni Alegre, Roma 2020.

  • O. Q. D. Obasuyi, Corpi estranei. Il razzismo rimosso che appiattisce le diversità, People, Gallarate 2020.

  • C. J. Robinson, Black Marxism. The Making of the Black Radical Tradition, The University of North Carolina Press, Chapel Hill – London 2000 (ed. orig. 1983).

  • Y. Sagnet – L. Palmisano, Ghetto Italia. I braccianti stranieri tra caporalato e sfruttamento, Fandango Libri, Roma 2015.

  • L. M. Pernice, Schiavi d'Italia. Caporalato, diritti negati e speranze in uno dei ghetti più grandi d’Europa, Paoline, Roma 2024.

  • A. Pesarini, Siamo tutti scimmie? Antirazzismo made in Italy, «Razzismo Brutta Storia», 12 giugno 2020. Disponibile a questo link.




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Camilla Macciani ricercatrice e attivista, si occupa da diversi anni di migrazioni e lavoro in agricoltura attraverso l’analisi sociologica e l’impegno diretto sul campo nella provincia di Foggia, dove porta avanti attività di supporto legale gratuito insieme ai lavoratori migranti che abitano negli insediamenti informali. 

2 Kommentare


Il paragone con la schiavitù è spesso retorico e privo di profondità storica: il saggio sembra invece riuscire là dove il discorso pubblico fallisce. E forse è proprio come nel vecchio Snake Game: più si cresce, più diventa difficile muoversi senza scontrarsi coi propri limiti, se non si cambia radicalmente il modo di guardare alla mappa.

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