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Spettri: lacerazioni alla struttura del presente


Imre Bukta, La ragazza della fattoria, 1992
Imre Bukta, La ragazza della fattoria, 1992

Dopo gli articoli su Siegfried Kracauer nella luce del Meridione e Marx, Foucault. Un sintomo, riprendono le pubblicazioni di Spettri, la sezione da poco inaugurata e diretta da Pierpaolo Ascari e Claudio Cavallari. Oggi un articolo che espone le linee programmatiche della sezione.


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Ciò che si realizza nella mia storia non è il passato remoto di ciò che fu, perché non è più. E nemmeno il perfetto ciò che è stato in ciò che sono. Ma il futuro anteriore di ciò che sarò stato per ciò che sto per divenire. J. Lacan
Formate in voi un’immagine cui il futuro debba corrispondere, e dimenticate la superstizione di essere degli epigoni. Avete abbastanza da ideare e da inventare, meditando su quella vita futura; ma non chiedete alla storia di indicarvi il modo e il mezzo. Se invece rivivrete in voi la storia dei grandi uomini, imparerete da essa il supremo comandamento di diventare maturi e di sfuggire al fascino paralizzante dell’educazione del tempo, che vede la sua utilità nel non lasciarvi maturare, per dominare e sfruttare voi, gli immaturi. F. Nietzsche

 

 

 

L’essere lineare è la fantasia di un tempo corporeo.

La successione contaminante degli istanti, che si trasfondono l’uno nell’altro, istruisce di sé lo sviluppo di una traiettoria che si possa definire come accrescimento, come moto evolutivo, finalismo. Ma anche come curvatura, flessione, declino. È sempre la durata a imporre sul fluire del corso l’impressione della direzione. Anche quando, per preservarla, bruscamente o con lentezza erosiva, la si distrugge. Ma il tempo-corpo presuppone sempre una quantità di moto costante, in continuo bilanciamento di annientamento e creazione, conservazione e perdita. Anche la traccia di ciò che si cancella è afferrata, resa significante, serva di un avvenire retto da cause e selezioni che si proiettano, sempre retroattivamente, nella sua forma giustificata. Qui e ora. Il tempo lineare è il tempo della necessità di un corpo determinato. Regno inconcusso della pura determinazione, cui anche l’alea è fatalmente sottomessa. In cui anche l’irruzione del gesto è ricordo, e ogni creazione spontanea, memoria. E al tempo stesso, in un certo modo, profezia.

Ecco che la diagnosi di ciò che siamo, vuole spiegare da dove veniamo, indicando l’orizzonte. E il tempo corporeo della linearità non può che postulare l’orrore di un divenire necessario, elaborazione epigona dell’esaustione del reale nel razionale. Poiché anche la santa razionalità, se si pretende organica, è linea, sviluppo e cumulazione selettiva. Se procede per acquisizioni crescenti, lo fa celando di clausole d’esclusione; scarta ciò che non digerisce, mastica ciò che resiste. E poi assimila, rendendo tutto a sé compatibile. Schematismi trascendentali tra le fauci di Kronos.

Così, nell’idea moderna di progresso, come un parassita, quella di processo di razionalizzazione traccia la sua voluta, per nulla eterea, nel regime della produzione, e incatena il tempo alle teleologie del valore. Non conosciamo progresso umano. Il progresso è capitalistico. Celebrazione della messa al lavoro come conquista di una ragione asservita al dogmatismo dell’utile. Forza-utile, corpo-utile, ragione-utile. Utilità-tempo. L’istante catturato nella germinazione dell’utile futuro. Saturo di una pienezza stabilita, che lo svuota di sé, e lo inchioda alla ripetizione eterna del già stato che sarà. Perché – si dice – vi proviene. Figlia anch’essa della modernità, la razionalità è un setaccio, non trattiene senza lasciar andare. Inventa l’idea di un tempo eternamente finalizzato in se stesso, proprio grazie a ciò che trattiene, perché ciò che trattiene è funzione di mantenimento del proprio principio. Così si garantisce una durata, per mezzo di un’elisione sistematica, di una potatura selvaggia. E cresce esponenzialmente per duplicazione ostinata di sé. Come un dominio coloniale, la ragione produttiva, riproducendo se stessa, causa un divenire bloccato, una vita paralizzata dalla sua forma futura. Un’attesa messianica di ciò che è da sempre, nello stesso modo. Quando il tempo diviene articolazione logica del fine, la storia si chiude nello spazio geometrico della sua necessità destinale, e la vita intristisce, rinuncia alla sua potenza codificandosi in una disposizione algoritmica. Le esistenze si sincronizzano nell’eterno presente della valorizzazione, e il pensiero insterilisce la sua natura feconda, diviene citazione della grande narrazione dello sfruttamento, senza aggredirla. Semplicemente diventandola.

All’idea di un tempo-corpo-lineare contrapponiamo la realtà incorporea e ubiqua dello spettro. Al paradigma dell’utile e della produzione, quello di una scabrosa infestazione. All’estensione del presente, l’intensificazione delle presenze. Contro la ripetizione dell’uno identico a se stesso, lo sciamare di fantasmi esplode i possibili in un futuro informe, invenzione abissale del non totalizzabile. Uno spettro infatti è inafferrabile, non lo si capta nelle funzioni-obiettivo del valore. Poiché non produce e non significa. Piuttosto suscita, evoca senso in eccesso. Sconvolge la mente perché ne annienta la forma storica sedimentatasi nelle processioni inquisitorie della ragione. Vogliamo allora rivendicare l’effetto di terrore di un’epifania fantasmatica, capace di rivelare costellazioni di crepe e forzature sulla presunta linearità di un tempo che proietta il passato sul futuro, a detrimento del presente, affinché ci sia tolto, affinché siano neutralizzate le nostre capacità di presa e trasformazione.

Abbiamo bisogno di cambiare sguardo rendendolo sensibilmente multiplo, per vedere spettri. Una realtà positivamente allucinata, deturpata nella sua trasparenza tutta immaginaria e mistificante. Non per vedere ciò che nella parabola storica del capitale è occultato, ma per cogliere nella distorsione anamorfica del reale il meccanismo stesso dell’occultamento, che svelandosi sovverta la propria articolazione logica. Come avviene per marxismo e psicoanalisi che, nel loro stesso darsi, non possono che modificare e trasformare le condizioni di accesso a un reale che prima del loro accadere non poteva manifestarsi se non occultando una porzione decisiva di sé, così immaginiamo l’agire di un’analisi spettrologica. La critica dell’economia politica di Marx, non è infatti la semplice confutazione polemica della dottrina economica neoclassica. È la sua sovversione. La fisionomia del rapporto sociale capitalistico che Marx porta in superficie altera definitivamente questa superficie. Ne promuove un effetto di capovolgimento che ci consente, nel suo rovescio, di vedere con chiarezza la trama che la costituisce. Tanto vale per l’atto psicoanalitico, laddove indica l’accadere del soggetto promuovendo la crisi della sua forma compiuta, e mettendola in dissonanza da sé. Il soggetto inconscio, così, non è suscitato da un qualche contenuto rimosso, ma agitato dal costante ritornare di un perturbante che l’essere sempre in atto della rimozione promuove. Allo stesso modo, gli spettri del nostro presente, eternamente vivi, eternamente ritornanti, possono portare fuori di latenza il meccanismo occultante che tradisce la portata universalizzante e unitaria della storia nel capitalismo. Come per la psicoanalisi, il fantasma è irreale e senza tempo. Sfugge alle catalogazioni di un immaginario coerente e rigorosamente cronologico, ma fabbrica l’illusione di una forma radicalizzando l’essere informe della struttura che regge il presente, nei suoi punti di cedimento. Gli spettri sono allora lacerazioni, porte d’accesso a una soggettività non colonizzata dall’immaginario del funzionalismo capitalista. Intersecano temporalità multiple e divergenti che dissociano la fase del soggetto nella produzione di sé come utile. Gli spettri non sono il portato di un contenuto di pensiero che chiede di tornare ad essere corpo. Al contrario, si pongono come indefinita disgregazione dell’unità tempo-corporea, che sgancia il divenire dal suo fine, poiché mettono in scena la latenza del possibile, dentro al tessuto omogeneo e statico di una necessità produttivamente orientata. Non intendiamo dunque la spettralità come il ritorno di un pensato, sepolto dall’oblio storico, che torni a rivendicare una funzionale cittadinanza nelle articolazioni di un presente dato. Spettrale è l’incessante ritornare del futuro possibile, che curva la linearità del tempo evolutivo, mandando in diaspora l’istante presente. Non ci interessa allora dissotterrare cadaveri filosofici, artistici o politici per restituirli alla gloria di un nuovo riconoscimento. Vogliamo piuttosto profanare le necropoli che ancora non ci siamo accinti a costruire, ma il cui progetto si dispone con fin troppa chiarezza sotto ai nostri occhi. Solo come architetti del futuro, come sapienti del presente esploreremo il passato, e guarderemo all’eterno ritornare, gioiosamente spettrale, di ciò che diviene.

Leggendo Lacan con Nietzsche, immaginiamo allora il movimento di una storicizzazione inattuale. Non un’ontologia dell’attualità, ma un essere contro il tempo presente, e la sua derivazione dogmatica. Avere in odio ogni destino deducibile, facendo proliferare le infinite contraddizioni possibili della contemporaneità. Non ricondurre ciò che è stato ai nostri sistemi d’archivio attuali, ma farne saltare le unità concettuali per appropriarci di una ars combinatoria radicalmente altra, sontuosamente dispersa, rarefatta e spettrale, ma aperta, irrealizzata e ancora possibile. Né morto né vivo, lo spettro insiste in un già stato che emerge, nuovamente coniato, nelle incrinature della distruzione rituale delle nostre strutture cogitanti di ora. Ma questo già stato da sempre, nella sua organizzazione fantasmatica, non traduce altro se non il nostro indistruttibile desiderio, residuo resistente della nostra umanità nelle spire avvolgenti della più consunta delle logiche. Anche il desiderio, infatti, non ha temporalità, o ne ha infinite. Per questa ragione arma il continuo ritornare degli spettri con cui intendiamo rendere gravido questo spazio di riflessione. Poiché tutte le asincronie e le dissociazioni, le frammentazioni infinitesimali e le vertiginose discontinuità, nei cui attriti scintilla il fuoco in potenza di un pensare che si voglia rivoluzionario, esprimono l’inesauribile ostinazione del desiderio, nell’impossibile mappatura finale del territorio umano.


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Claudio Cavallari coordinatore pedagogico, formatore e docente di Storia della Filosofia, Sociologia della Devianza e Pedagogia Interculturale. Si occupa del rapporto tra filosofia politica e psicoanalisi, produzione di soggettività e metamorfosi del contemporaneo. Per Derive Approdi ha pubblicato Pensare l’abisso. Jacques Lacan e la sovversione del soggetto (2021).

 

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