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Siegfried Kracauer nella luce del Meridione



Stano Filko, z serii Transcendencje, 1978
Stano Filko, z serii Transcendencje, 1978

Inauguriamo oggi una nuova sezione di Machina, «spettri», diretta da Pierpaolo Ascari e Claudio Cavallari, pubblicando un estratto di Siegfried Kracauer. Per una decifrazione estetica della città (Mappæmundi, Ventura Edizioni 2024), il libro che Ivano Gorzanelli ha discusso al Punto Input il 9 maggio scorso insieme a Maurizio Guerri e Manlio Iofrida. Kracauer coglie nella luce delle città meridionali una possibile chiave d’accesso al carattere fantasmatico del moderno, assegnando così una funzione cognitiva (e di una cognizione peculiare, difficilmente acquisibile per altre strade) ai giochi e all’analisi delle apparenze. Nella luce del meridione, la città non è meno fantasmagorica che reale, colta in una dimensione di continuo e concreto rovesciamento di un termine nell’altro che ne libera i potenziali, soprattutto trasformativi. E sono questi potenziali che vengono occultati dalla conformazione per così dire illuministica delle città del nord e dalla loro luce, il rischio anche politico di riconnettere il lavoro dell’intelletto agli sfondamenti prospettici creati dalle derive dell’immaginazione.

 

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È noto che Siegfrid Kracauer, giornalista, studioso di fenomeni sociali e critico cinematografico, visitò verso la metà del 1925 Parigi e nel settembre del 1926 Marsiglia, mentre nel settembre del 1925, assieme all’amico e allora studente di composizione Theodor Wiesengrund, non ancora pubblicamente Adorno, visitò Genova, Napoli e Positano, in quello che fu un vero e proprio Grand Tour italiano. Ad accoglierli sono Alfred Sohn-Rethel e Walter Benjamin, che con Asja Lācis nell’agosto del 1925 aveva pubblicato Napoli, un testo centrale per la comprensione del concetto di porosità e per le modalità di decifrazione delle immagini da parte di Kracauer.

 Sono importanti gli esiti teorici di questo soggiorno. Certamente in comune a questi studiosi c’è il considerare esaurita l’esperienza della società borghese e la messa in discussione dell’eredità del conflitto mondiale in uno dei periodi di massima espansione dell’innovazione tecnologica e della corrispondente meccanizzazione della vita. Le letture come quella che Benjamin fece della recensione di Storia e coscienza di classe di Luckács, pubblicata da Bloch, inducono a vedere in questi profughi dell’inflazione e del mondo civilizzato nordeuropeo persone capaci di ripensare il tema della forma. Perché il concetto chiave della loro Napoli, la porosità, è una variante della diagnosi della reificazione ma volta in positivo, come ha sottolineato Martin Mittelmeier. In termini politici e di decifrazione degli spazi, niente può essere più sé stesso, tutto è scambiabile e deve poter significare qualunque altra cosa.

 La porosità diventa idea-guida che si estende ben oltre le cavità delle rocce, andando a intaccare, nelle parole di Benjamin e Lācis, i muri stessi delle abitazioni e i cordoli delle strade, finendo per descrivere la natura dei napoletani e non solo gli aspetti architettonici della città, in quella particolare commistione di descrizione dei luoghi e del pensiero mimetico che certamente si può ritrovare anche in Kracauer. Con le parole di Benjamin e Lācis:


L’architettura è porosa quanto questa pietra. Costruzione e azione si compenetrano in cortili, arcate e scale. […] Si evita ciò che è definitivo, formato. Nessuna situazione appare come essa è, pensata per sempre, nessuna forma dichiara il suo «così e non diversamente». È così che qui si sviluppa l’architettura come sintesi della ritmica comunitaria: civilizzata, privata, ordinata solo nei grandi alberghi e nei magazzini delle banchine – anarchica, intrecciata, rustica nel centro in cui appena quarant’anni fa si è cominciato a scavare grandi strade. Ed è solo in queste che la casa costituisce il nucleo dell’architettura urbana in senso nordico.


Passaggi come questo hanno profondamente organizzato la fantasia architettonica e plastica di Kracauer, inducendolo a sovrapporre al negativo della sparizione del senso del sacro ritiratosi nelle hall d’albergo, gli elementi della frammentazione dei piani urbani e della pianificazione rappresentata dalla città fatta di rifiuti e masse di disagiati premuti contro la necessità dalla vita. La forma-mondo si estrania dal complesso delle sue rappresentazioni spirituali per ritrarsi, almeno in Kracauer, e divenire informe. Nelle parole di Benjamin nulla appare e rimane ciò che è. È probabile che il periodo napoletano e la riflessione sulle strade di Parigi portino Kracauer a una diversa considerazione della stessa rappresentabilità del reale in termini estetici - un tema che, va ricordato, appartiene ancora alla riflessione del Lukács di Teoria del romanzo.

 Nel frattempo, almeno agli occhi di Kracauer, il mondo è divenuto una strada metropolitana intrisa di spettri e mito, ed è questa immagine che lo guida nella comprensione del ruolo dell’artista nella modernità rappresentato dalla relazione con le macerie e con i rifiuti. Scrive infatti in Der Künstler in dieser Zeit: «forse gli stessi uomini che prendono sul serio la realtà sentono due volte più profondamente il potere delle forze che sfigurano il mondo e lo trasformano in una strada metropolitana. Si possono cogliere i riferimenti alle forze che sfigurano il mondo in termini simili a quelli che Simmel aveva notato nel saggio sulla moda o nella parte finale de La filosofia del denaro: l’intellettualismo, l’economia monetaria, la trasformazione della vita in calcolo numerico, l’oggettivazione della vita culturale negli schemi dell’economia capitalistica, ma oltre a questa dimensione Kracauer sente l’emergere nella modernità del mito avvolto nelle forme dell’estetizzazione della vita. La riflessione di Kracauer sembra essere migrata nel linguaggio e nelle categorie verso la potenza delle immagini, non un esercizio di sottomissione al realismo, ma un intento critico volto a decifrare la potenza di una società di specchi, riflessi, luci e proiettori che illuminano alcune parti della realtà oscurandone altre organizzando spettrali rappresentazioni della vita escludendo così parti intere della realtà nel suo frantumarsi.

 Nella seconda metà degli anni Venti Kracauer si propone di fare i conti con questa realtà senza cedere al potere assoggettante delle immagini, salvaguardandone però il potere trasfigurativo e mimetico. Qui emerge la luce. Non una semplice metafora, ma ciò che indica, circoscrive e trasfigura pezzi di realtà. Nel pensiero di Kracauer irrompe il montaggio come arte della trasformabilità che, incurante delle epoche storiche, dona un senso a una realtà che l’ha smarrito, perché smarrite sono le categorie e coordinate stesse delle forme atte a rappresentarla.

 La luce sarà per Kracauer la cifra della profonda ambiguità della modernità: liberazione e trasfigurazione dai lacci della tradizione e dai gusci mitologici della società guglielmina e allo stesso tempo come scrive ne Gli Impiegati, sarà illusione, mito. Le immagini dei grandi magazzini, inondati di luci sfavillanti, diventano spettri che costringono dentro forme sociali alienanti; immagini che nulla restituiscono della dimensione sociale reale e che incidono profondamente sulla rappresentazione delle classi sociali. È la piccola borghesia, oggetto costante delle attenzioni di Kracauer, a rappresentare meglio questi cambiamenti stretta com’è tra la miseria del declassamento dell’inflazione quotidiana e lo sfavillio delle rappresentazioni dei cinema, delle merci. La vita degli impiegati diventa la vita di spettri che si aggirano come senzatetto dentro metropoli ormai irrimediabilmente compromesse dalle spaccature urbane e economiche insieme, quasi la città restituisse in forma spaziale le immagini dominanti.

 È nel Sud Europa che Kracauer può osservare luoghi caratterizzati da una diversa luce. Delirio rupestre a Positano (Felsenwahn in Positano) inizia con un preambolo introduttivo: l’abitare dell’uomo, in caverne, torri, tende o case, possiede sempre un inizio e una fine; le case sono fatte di soffitti e stanze e, dove pur sottoposte alla spesso artificiosa volontà dell’uomo, trovano un proprio concatenarsi in un progetto. Positano non assomiglia a un progetto, ma a un luogo dove si addensano «forze elementari» che nell’antico paesaggio si sono incontrate e «vi appaiono personificate». Il testo mira esplicitamente a contrapporre alla città moderna, razionale e progettata, la cavità delle forze elementari presenti a Positano, il suo essere cangiante e senza un inizio e una fine. Scrive Kracauer:


Le nostre grandi città, sono ridotte a spauracchi per bambini; persino agli anditi e alle cripte più oscure fa difetto la magia. Tuttavia, soltanto una luce che irrompa dall’alto potrebbe indurre la natura a smascherare il fatto che, grazie al suo risplendere, è la magia ad essere addomesticata. Dinnanzi all’intelletto dell’uomo civilizzato, il quale, anziché mettere al bando le manifestazioni di quest’ultima, le rinnega, il terrore non ne vuole sapere di arretrare.


Positano è un luogo dove le macerie prendono vita pervase dagli spettri dei morti, da forze mitologiche che si oppongono alla civilizzazione in quella che è leggibile come una ripresa del tema che Simmel trattò nel VI capitolo de La filosofia del denaro, Lo stile della vita. Sviluppando una dialettica dell’illuminismo ante litteram, Kracauer si focalizza sul rapporto tra le forze elementari e l’intelletto, su come il mito penetri le forme della civilizzazione: è attraverso l’acqua marina che scava e corrode da dentro la malta dell’impasto delle case e nelle forme e grazie agli effetti ottici generati dal mare oltre al gioco di «luci iridescenti», che tutto «muta ad ogni ora». Mandare in frantumi l’ordine delicato dell’uomo civilizzato appare a Gilbert Clavel, l’eccentrico padrone di casa, come un gioco da ragazzi: sono infatti le forze elementari a scatenare desideri e istinti che credevamo sopiti, potenze «dell’ombra che oscurano ogni luce».

 L’opposizione tra una luce di ordine naturale, elementare e mitologica, e una luce di ordine razionale e geometrica porta con sé l’analogia con le forze mitologiche che si trasformano in divertimento cui fa esplicito riferimento Kracauer nel saggio del 1926, Mondo di cartapesta, e sarà un motivo costante della produzione successiva a questo viaggio. Se qui, a Positano, le macerie sono depositarie di un universo di tipo arcaico e allo stesso tempo indispensabile al mondo dell’uomo civilizzato, nel mondo del cinema si daranno appuntamento le stesse forze mitologiche tenute insieme dalla metamorfosi che permette di combinare «le macerie dell’universo [che] sono depositate nei magazzini dei materiali scenici, copie d’obbligo di tutte le epoche, i popoli, gli stili», quasi a voler significare che la possibile relazione tra l’universo sommerso delle forze ctonie e la civilizzazione debba passare da un medium estetico.

 Il testo su Positano offre la possibilità di sviluppare, sempre in relazione a questa dialettica tra forze elementari e forma della civilizzazione, un’ulteriore analogia, quella con l’atmosfera. E proprio riferendosi a tale tema è possibile interpretare una cartolina illustrata che è anche contestualmente un confronto con Benjamin e con il tema della rappresentazione. Kracauer cita il tema dell’atmosfera nel testo su Positano una sola volta, ma propriamente per distinguerlo dall’idea che sia appunto una visione estetica:


È l’atmosfera, si dice, a cagionare spossatezza, ma altro non è invece, che il luogo, demoniacamente rigurgitante di prede divorate in un sol boccone, la cui prossimità e la cui reale esistenza conducono a un vero e proprio sconvolgimento.


Non di atmosfera, ma di prossimità a luoghi e architetture. Prossimità alle forze mitologiche che si trattengono nelle cavità e investono l’anima di un uomo, quello moderno e civilizzato, incapace di dominarle perché «debole in quanto a facoltà immaginativa». Quest’anima incapace di rapportarsi alle forze primordiali è destinata ad aggirarsi radente le coste come la carcassa di una nave naufragata verso quella che metaforicamente è una condizione patologica della civiltà moderna e, allo stesso tempo, è un’immagine che richiama i rifiuti.

 Del resto, se «tutto a Positano è in rovina», esso diventa una sorta di luogo originario/originante in senso goethiano che permette di comprendere come questa relazione tra forze e correnti della vita possa e debba trovare una rappresentazione di tipo estetico attraverso il medium del cinema. All’immaginazione come forza trasfigurante è chiesto di mantenere viva la memoria della relazione con l’elementare. Positano è certamente per Kracauer un modello teorico di confronto con Benjamin, ma anche un luogo dove prende forma la relazione tra forze antagoniste di cui scriveva Simmel, e allo stesso tempo un luogo fisico di esplorazione. Da questa relazione, dall’individuazione di questa dialettica che è innervata di contenuti marxisti – seppur genuinamente simmeliana – possono nascere altre rappresentazioni e costruzioni della realtà. L’immagine del mosaico trova qui una sua parziale spiegazione: come un mosaico organizza frammenti, accostandoli e tenendoli insieme nella relazione, così la realtà è questa relazione tra forze e forme in perenne rigenerazione. Il mosaico può essere interpretato come un medium estetico di costruzione del reale, ricerca e accostamento di pezzi di realtà tra loro irrelati, spesso dimenticati o marginali. La modernità è quindi paradossalmente ritrovata nella sua disgregazione nella luce del Sud Europa.

 Ancora di città, cavità e sogni, Kracauer scriverà nell’ottobre del 1926 in Bar nel meridione (Stehbars im Süden). Il testo segue di poco un altro testo molto significativo, Due superfici (Zwei Flächen), del settembre dello stesso anno. Si tratta di testi scritti a distanza di un anno dall’esperienza nell’Italia meridionale, ma di grande importanza per comprendere l’argomentazione relativa alla luce come decifrazione della modernità e il tema della rappresentazione. A entrare in scena stavolta è però la Francia meridionale, in particolare le città di Marsiglia e Nizza. Se già nel marzo del 1926 Kracauer sosteneva che «non di rado per le strade di Berlino si viene colti per qualche attimo dalla sensazione che tutto debba spaccarsi improvvisamente in due», questa sensazione abita le strade e gli agglomerati delle città del meridione e, come a Positano le fessure create dall’acqua contribuivano a determinare la porosità della materia, qui è la luce del sole mediterraneo che «crea delle lacune all’interno del tessuto urbano»; l’intero sistema appare smembrato e «sorge qualche sospetto nei confronti della sua unità». «Non vi è alcun luogo in cui le zone demolite siano così frequenti come nelle città meridionali», e in effetti a mancare non sono certo le architetture da radere al suolo. I bar del meridione sono squarci all’interno della presunta perfezione formale urbana, ma sono soprattutto gli specchi, le luci, i riflessi e gli effetti cromatici a interessare a Kracauer poiché qui si amplificano le luci fioche, trasformando i bar in «una pubblica tana del tesoro: gli stessi luoghi traboccano di riflessi in cui gli oggetti presenti vengono sconquassati alla rinfusa e squartati» perché sia metaforicamente che fisicamente essi hanno il senso della città metropolitana, dove tutto è «a tempo determinato» – una totalità irrelata come «le parole di un cruciverba» perché nessuna funzione è stabilmente riconosciuta e nessuna posizione mantenuta troppo a lungo.

 In queste città dove i palazzi non reggono il «gioco deformante degli specchi», abbandonare il porticciolo e salpare significa aver perduto le coordinate della visibilità e il senso della propria esperienza: «crolla in mille pezzi sparsi con i quali può improvvisare frammenti di una vita altra». Alla luce è dato il compito di illudere, deformare e mostrare quanto è ingannevole la vita e, seppur consci che non saranno gli specchi e le luci a testimoniare qualcosa di maggiormente reale, rimane il nodo critico indagato da qualche pagina: la relazione tra apparenza estetica, rappresentazione e realtà. Qui Kracauer introduce una dimensione critica nello spazio tra le macerie della civilizzazione, l’illusione e l’improvvisazione. Lo spazio sociale-architettonico dell’improvvisazione è una costruzione che, mentre liquida gli stili architettonici e sconquassa posizioni e gerarchie del reale, apre a nuove vite.

 Ancora a Marsiglia sarà possibile seguire il senso dello specchiarsi, la relazione tra architettura e luce, per poi provare a comprendere come queste immagini siano portate da Kracauer al cospetto di quelle città nordiche di cui scrisse che «sembrano sognare» solo per poterle distinguere da quelle meridionali che invece «hanno qualcosa del sogno». Si vedrà come la relazione tra rifiuti e rappresentazione della città trovi proprio nella luce un punto di contatto visibile nell’argomentazione kracaueriana. Il tema dell’improvvisazione e delle cavità si insinua nella progettazione della linea retta, che contraddistingue il paesaggio urbano nordeuropeo a confronto con quello meridionale.


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Ivano Gorzanelli è docente a contratto all'Istituto Toniolo di Modena e presso il Dipartimento di Architettura dell'Università di Bologna. Le sue ricerche e le sue pubblicazioni hanno riguardato Hölderlin, Nietzsche, Kracauer, Tim Ingold e altri, approfondendo lo studio dei rapporti tra estetica e antropologia. Fa il commerciante ambulante di scarpe.

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