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La confusione dei tempi: intervista a Jacques Rancière


Kay Sage, No Passing, 1954
Kay Sage, No Passing, 1954

Più che un’intervista, quella che presentiamo si potrebbe definire una specie di catastrofe, perché quasi tutte le piste che ho ritenuto di poter sottoporre al giudizio informato di Jacques Rancière (piste che riguardavano lui e il suo lavoro) si sono rivelate tendenzialmente scorrette. A dirla tutta, ci potrei rimediare la parte del massmediologo di Woody Allen che in fila alla biglietteria del cinema viene platealmente smentito da Marshall McLuhan («Lei sostiene che ogni mia topica è utopica. Come sia arrivato a tenere un corso alla Columbia è cosa che desta meraviglia!»). Ciò nonostante, mi pare che anche l’esplicitazione di una ragguardevole serie di cantonate come quella che segue, possa risultare interessante per almeno due ragioni, una di carattere generale e l’altra che ci riguarda più da vicino. Perché da un lato, nel precisare qual è la prospettiva filologicamente adeguata in cui comprendere la sua opera, Rancière propone alcune tesi relative ad altri autori che una volta discusse potrebbero rappresentare ulteriori motivi di approfondimento e di investigazione. Solo per fare un esempio, non è affatto pacifico stabilire che nell’estetica di Walter Benjamin sia la trasformazione tecnica a giocare d’anticipo rispetto al cambiamento sociale e alla storia della percezione e se Rancière non ha dubbi a riguardo, al contrario, vorrà pure dir qualcosa. Qualcosa che d’altro canto non investe solo il piano della storia della filosofia, ma entra direttamente in rapporto con lo spazio di manovra politica che stiamo tentando di creare attraverso l’attività di «Spettri», il cui riferimento alla prolungata riflessione di Jacques Rancière sul tema dell’anacronismo e le corrispondenti lotte contro la gerarchia dei tempi non è affatto accidentale. Proprio da qui, allora, dovrà prendere le mosse la strana vicenda della quale adesso desideriamo informare la lettrice e il lettore. (P.A)


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 Pierpaolo Ascari: Professor Rancière, mi permetta innanzitutto di chiederle se può condividere un ricordo del suo rapporto con il programma di ricerca interdisciplinare «Modern Uses of Antiquity» (1991-1992), programma diretto da Nicole Loraux al quale lei avrebbe dato un contributo decisivo con la distinzione tra il concetto di anacronismo e quello di anacronia. Quali sono state le motivazioni storiche e politiche di questo lavoro? Come si è sviluppato?

 

Jacques Rancière: In realtà non facevo parte del programma di ricerca di Nicole Loraux all’EHESS. Il mio intervento si è svolto nell’ambito di un gruppo informale che lei aveva creato con alcuni colleghi ai margini del suo seminario istituzionale. Ci eravamo conosciuti quando mi ero iscritto all’EHESS, eravamo rimasti in contatto amichevole e lei mi aveva proposto di partecipare a questo gruppo informale. Non c’era quindi un legame organico tra le nostre ricerche, ma la mia riflessione sull’anacronismo si poteva inserire nel lavoro che lei stava conducendo perché gli storici dell’antica Grecia (Vernant, Vidal-Naquet e lei stessa) avevano una sensibilità filosofica e politica e un approccio al rapporto tra tempo e verità che li differenziavano dagli altri storici moderni. In particolare dall’École des Annales, che era molto influenzata dalla tradizione sociologica durkheimiana (come si può vedere nel libro di Lucien Febvre su Rabelais, che mostra come Rabelais potesse pensare solo ciò che il suo tempo gli permetteva di pensare). E gli stessi motivi avevano posto questi storici all’avanguardia nella lotta contro il negazionismo. La mia riflessione sull’anacronismo che segnava la base comune della storia seria delle Annales e della storia falsificata dei revisionisti era quindi in linea con la particolare sensibilità di Vernant, Vidal-Naquet e Nicole Loraux, ma questo non significa che abbiamo lavorato insieme.

 

P.A.: La mia curiosità su questo periodo riguarda anche l’eventuale rapporto del suo contributo alla definizione dell’anacronismo con le analisi che Jacques Derrida svilupperà di lì a poco in Spettri di Marx: sono temi che lei e Derrida avete avuto modo di discutere insieme?

 

J.R.: No, non avevo un rapporto di lavoro con Jacques Derrida, che era stato mio professore un quarto di secolo prima all’ENS. La mia riflessione sull’anacronismo nasce dal lavoro sulla storia che avevo svolto da La nuit des prolétaires a Le parole della storia. Inoltre, avevo riletto il Manifesto e riflettuto sulla questione degli spettri all’epoca de Le philosophe et ses pauvres (1983), ma questo non era collegato alla riflessione che Derrida ha svolto molto più tardi in Spettri di Marx. Tra l’altro, sebbene il mio intervento sull’anacronismo sia stato pubblicato nel 1996, risale a una data molto precedente. Devo aggiungere che non ho mai trovato stimolante il commento di Derrida a «the time is out joint», una frase che a mio avviso ha un significato piuttosto banale in Shakespeare (l’inversione del rapporto tra giovani e vecchi) e che non giustifica le speculazioni filosofiche alle quali ha dato luogo. E sono sempre rimasto estraneo al tema messianico che gioca un ruolo così importante nel rapporto di Derrida con la storia.

 

P.A.: Forse, allora, si potrebbe ipotizzare che lei stesse sviluppando alcune intuizioni emerse e condivise nel cantiere di Leggere il Capitale? Glielo chiedo perché si direbbe proprio una dimensione critica dell’anacronismo quella introdotta da Étienne Balibar nelle pagine relative alla teoria della transizione.

 

J.R.: No, a quel tempo non pensavo affatto a Leggere il Capitale e per me quell’impresa era davvero un ricordo del passato. Inoltre, non si era trattato di un vero e proprio lavoro collettivo e le preoccupazioni di Balibar per la questione della transizione tra i modi di produzione non erano le mie all’epoca del seminario [di Althusser].

 

P.A.: Eppure, a differenza dell’articolo del 1996 (Le concept d’anachronisme et la vérité de l’historien), nel lavoro pubblicato su «Diacritics» nel 2020 (Anachronism and the Conflict of Times) lei torna a fare un esplicito riferimento a Marx: accade qualcosa nel passaggio da un testo all’altro?

 

J.R.: In realtà il riferimento a Marx non è necessario in nessuno dei due testi. Il mio testo del 1996 era rivolto alla concezione del tempo – e del rapporto tra tempo e verità – degli storici dell’École des Annales. E la mia critica non necessitava di un riferimento a Marx per il semplice motivo che la concezione delle Annales non è molto diversa da quella del marxismo classico. La conferenza pronunciata nel 2017 e pubblicata nel 2020, invece, si colloca in un altro contesto in cui il mio oggetto non è tanto il rapporto tra tempo e verità quanto la questione della gerarchia delle forme di temporalità. È un contributo contemporaneo al mio lavoro sui «margini della finzione» e riprende infatti l’esame dei testi degli storici dal punto di vista del rapporto tra due modelli di finzione, il modello causalista aristotelico e il modello di coesistenza proprio della finzione moderna, proponendo quello che per me è il cuore della questione, cioè la gerarchia dei tempi. È però vero che in Les bords de la fiction ho proceduto a una rilettura del Capitale in cui analizzavo la tensione tra due modalità di narrazione. D’altra parte, non avevo bisogno di Marx per ripensare la questione dell’anacronismo perché, come ricordo nella prefazione dello stesso libro, il pensiero marxista sulla storia rimane fedele alla gerarchia platonica dei tempi. Marx interviene quindi nel testo newyorkese solo in modo molto laterale, quando voglio opporre la mia concezione di anacronia come coesistenza di tempi all’anacronismo concepito come sopravvivenza (Georges Didi-Huberman) o anticipazione. È qui che incontro Benjamin e la sua costruzione del conflitto di temporalità, ispirata sia a Proust che a Freud, e che avvicino la sua visione del sogno a quella espressa da Marx nelle lettere ad Arnold Ruge, ma il ruolo di Marx nel testo si limita a questo.

 

P.A.: Tornando alla nozione di anacronia, mi pare evidente come la si possa considerare operativa anche nelle sue riflessioni sulla partizione del sensibile, dove la critica all’idea di modernità, per esempio, parte dalla constatazione che la temporalità specifica del regime estetico delle arti è quella di una globalità di temporalità eterogenee. E qua mi pare che un ruolo importante lo giochi la sua lettura di Balzac.

 

J.R.: La questione del tempo è ovviamente centrale nella partizione del sensibile. La tradizionale divisione gerarchica oppone il tempo degli uomini attivi, che si propongono dei fini e li realizzano oppure si godono il tempo libero, al tempo ripetitivo degli uomini passivi, dediti alle attività quotidiane. Questa prima divisione è stata ricoperta – e forse dissimulata – nell’età moderna dall’affermazione del tempo omogeneo dell’evoluzione, che ridistribuisce la gerarchia in altri modi: l’obbligo di appartenere al proprio tempo, l’esistenza dei ritardatari, la proscrizione dell’anacronismo ecc. Ho insistito sul modo in cui la sovrapposizione di diverse temporalità ha giocato un ruolo nella ridistribuzione egualitaria del sensibile. Questo è vero, su larga scala, con la reinvenzione al tempo di Winckelmann di un’antichità diversa da quella che l’ordine classico aveva assimilato e superato secondo la logica evolutiva, o al tempo della Rivoluzione francese con la resurrezione di antichi simboli politici. Ciò è ancora vero, su scala più modesta, con le commistioni di tempi e le eterogenee esibizioni di oggetti, testi e immagini che hanno costituito la cultura degli autodidatti. Questi testi e queste immagini, spesso antiquati, hanno fornito loro gli strumenti intellettuali per lottare contro la gerarchia delle temporalità che li rinchiudeva nell’unico tempo della ripetizione. Il confondersi del vecchio e del nuovo che rompe la logica evolutiva è quindi al servizio della lotta contro la gerarchia delle temporalità vissute, ma le due cose possono anche essere separate. Nel negozio di antiquariato di La pelle di zigrino, Balzac presenta un modello estetico della confusione dei tempi che avrà un futuro, soprattutto all’epoca del surrealismo, ma separa questa poetica della confusione dei tempi dall’uso che ne fa l’autodidatta, di cui denuncia gli effetti socialmente perniciosi con Il curato del villaggio: lo sradicamento dei figli del popolo dalla loro condizione. E se anche i surrealisti, come Benjamin, sono lontani dai presupposti di Balzac, favoriranno comunque la promessa di un futuro sigillato nei passages parigini piuttosto che quella comportata dalle irruzioni degli autodidatti.

 

P.A.: A questo riguardo, mi pare che tanto nella sua riflessione sull’anacronismo (mi riferisco all’articolo del 2020) quanto nei lavori dedicati alla partizione del sensibile, lei prenda le distanze da Benjamin. La definirei anzi una doppia distanza: relativa al modo in cui Benjamin concepisce le temporalità multiple e relativa al conseguente rapporto che Benjamin istituisce tra estetica e politica, in particolare per quanto riguarda il ruolo della tecnica e delle macchine: può riassumere ed eventualmente articolare queste divergenze?

 

J.R.: Ciò che separa il mio pensiero dal modello benjaminiano è l’articolazione della critica del modello evolutivo con la questione della gerarchia delle forme di temporalità che differenziano gli uomini «attivi» da quelli «passivi» o «meccanici». Nel mio vecchio articolo The Archeomodern Turn, ho commentato il passaggio di Infanzia berlinese in cui Benjamin esprime il rammarico di non aver mai trascorso la notte sui marciapiedi della città, cioè, dal mio punto di vista, per non aver sperimentato la vita di coloro che in quel momento sono «uomini passivi». Benjamin concentra la sua critica sul rapporto tra passato e presente, ma senza collegarla alla lotta contro la gerarchia delle temporalità.  L’architettura dei passaggi è custode di una promessa che non può passare attraverso le notti reclamate dai proletari emancipati. Di conseguenza, la sua critica alla storia evolutiva è, a mio avviso, semplificata (si veda il modo in cui dà credito alla favola dell’uomo che sparava agli orologi) e lo porta a privilegiare, più che la molteplicità delle linee temporali presenti in un dato momento, l’emergere nel presente di un tempo che viaggia sotterraneo, alla maniera di Freud o di Proust. Così Benjamin rimane prigioniero della concezione della storia che la destinerebbe a realizzare una promessa di emancipazione. Forse è anche questo che rende la tecnica così importante per lui, come espressione del tempo e del rapporto tra i tempi. Secondo Benjamin, la tecnica è l’efficienza del tempo, il modo in cui il tempo diventa una realtà sensibile che porta a un altro mondo. A volte è vista come il sogno congelato – da risvegliare – del futuro (l’architettura di ferro dei passaggi), a volte è interpretata secondo una logica storica lineare del «disincanto del mondo»: la riproduzione meccanica che scaccia l’aura (visione di Adorno) e produce una nuova estetica (visione di Brecht). Per quanto riguarda invece il mio percorso, ho affrontato la questione delle arti meccaniche in modo diverso, insistendo anche in questo caso sullo scarto temporale: il cinema è il compimento di un’idea di arte che lo precede di un secolo, l’unione di un processo cosciente e di un processo inconscio. E il soggetto della fotografia – l’istante di qualsiasi tipo – esiste prima di essa, in particolare attraverso le forme micro-narrative della letteratura, il che significa che non è la novità tecnica a determinare una trasformazione estetica, ma piuttosto il contrario: è una trasformazione dei modi di percepire che permette a una tecnica di diventare arte.

 

P.A.: E in questo suo percorso, cosa ritiene che sia eventualmente cambiato rispetto alla pertienenza storica della sua riflessione sull’anacronia, vale a dire rispetto agli anni del programma di ricerca diretto da Nicole Loraux e a quella che si potrebbe definire l’epoca della «fine della storia»?

 

J.R.: Non capisco bene questa domanda. Nel mio pensiero, in ogni caso, non c'è stato un cambiamento evidente, forse solo uno spostamento: la critica della «fine della storia» decretata da Fukuyama appare semplicemente come un momento particolare della critica più generale alla visione del tempo omogeneo e della necessità storica che caratterizza la partizione del sensibile organizzata dal dominio.

 

P.A.: Per concludere, allora, proverò a spiegarmi con un esempio: rispetto ai primi anni Novanta del secolo scorso, a me pare che si possa cogliere un cambiamento significativo nella nuova centralità assunta nella riflessione filosofica, storica e politica dal concetto di natura e dalla prospettiva ecologica. Quali potrebbero essere le implicazioni di questa nuova centralità (ammesso che la si voglia considerare tale) nel rapporto tra dimensione anacronica e partizione del sensibile? Quali sono le indicazioni che se ne possono trarre?

 

J.R.: Bisogna distinguere due cose. C’è il posto occupato dalla questione del cambiamento climatico e la messa in discussione della gestione della terra da parte dell’uomo, ma questo non significa che il concetto di natura stia tornando in auge. Da un lato, il concetto di natura può significare cose molto diverse, persino opposte, come ricordo in Le temps du paysage.  D’altra parte, molti pensatori che si occupano del problema ecologico e della questione delle relazioni tra uomo e non-uomo rifiutano il concetto stesso di natura, che equiparano alla visione cartesiana della natura come una distesa matematica che l’uomo deve controllare. Latour oppone l’universo infinito di Galileo e Cartesio a Gaia, concepita come mezzo di interazione tra umani e non umani. Philippe Descola ha discusso a lungo sulla responsabilità del concetto di natura nella separazione tra umani e non umani. Gli indios dell’Amazzonia, da cui ha tratto la sua teoria delle quattro ontologie, non vivono «secondo natura» come i «buoni selvaggi» del XVIII secolo. Al contrario: ignorano il concetto stesso di natura.


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Pierpaolo Ascari insegna Estetica presso il Dipartimento di Architettura dell'Università di Bologna e ha svolto attività di tutor senior presso il Polo Universitario Penitenziario dello stesso ateneo per gli studenti del corso di laurea in Filosofia. Con MachinaLibro ha pubblicato Fine di mondo. Dentro al rifugio antiatomico da giardino (2024)


Jacques Rancière, allievo di Louis Althusser, il suo lavoro di riflessione politica e filosofica è tra i più importanti del pensiero contemporaneo. DeriveApprodi ha pubblicato Lo spettatore emancipato (2018) e La partizione del sensibile (2022). Suoi testi compaiono, inoltre, in L'idea di comunismo (2011) e Che cos'è un popolo? (2014).

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