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Marx, Foucault. Un sintomo



Bert Theis, New Monuments - Marx, 2002. Collection Bert Theis Archive, Lussemburgo, Milano. particolare
Bert Theis, New Monuments - Marx, 2002. Collection Bert Theis Archive, Lussemburgo, Milano. particolare

Proponiamo nella sezione spettri una discussione, sicuramente non innovativa ma sicuramente ancora oggi con una rilevanza politica non indifferente, sul rapporto tra il pensiero di Foucault e Marx.

La prima opportunità di dibattito si è data a dicembre del 2024, alla libreria Punto Input, in occasione della presentazione del libro Marxismi foucaultiani di Matteo Polleri. L'articolo che pubblichiamo oggi, di Claudio Cavallari, si sviluppa a partire dai ragionamenti condivisi in quel contesto, proponendo una lettura «moderatamente» lacaniana del legame Marx-Foucault.

Invitiamo i lettori ad intervenire nel dibattito.


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La fortunata occasione di discutere con Matteo Polleri del suo recente libro – Marxismi foucaultiani. Una mappa critica, Mimesis, 2024 – si è data per me a dicembre 2024, alla libreria Punto Input di Bologna. Al termine dell’incontro ci siamo promessi un rapido ritorno, in forma scritta, sui contenuti di quella conversazione che fu peraltro arricchita da alcuni contributi di notevole intelligenza condivisi dalle persone che parteciparono a quella presentazione. Ricordo che rimasi stupito quando, alla fine, l’autore sottolineò l’ascrizione dei miei ragionamenti al pensiero di Lacan, che mi ero ben guardato – evidentemente in modo più che maldestro – dal menzionare. Toccherà dunque non farne qui mistero. Dovendo il mio intervento scritto precedere cronologicamente la sua risposta, la promessa tempestività ha dovuto sopportare mesi di attesa, i quali, tuttavia, in nulla leniscono il ricordo delle puntuali e brillanti osservazioni che Polleri mi ha rivolto in quella preziosa occasione di confronto. E che ovviamente saccheggerò qui in via preventiva, non senza tornare a ringraziarlo, e scusandomi per il carattere così poco canonico di questa mia brevissima incursione tra le fila del suo ragionamento.

 

Traspare nitidamente dal lavoro di Matteo Polleri l’idea che mappare non significhi semplicemente descrivere, ricalcare la natura inerte delle cose, in un miraggio di oggettività. Una mappatura critica, infatti, non può che rappresentarsi come un certo tipo di intervento atto a modificare il territorio vivo cui guarda, per conferirgli una piega, un’inclinatura particolare. Dunque, cartografare per orientarsi, certo, ma anche per produrre una possibilità di movimento, tra le altre. Nel nostro caso, tutto sta nella sensibilità, o nell’intenzionalità prospettica, mediante la quale si perviene a collocare l’Oriente, il punto dove sorge il sole, o il cuore teorico-pratico del problema: ciò che ha di sconcertante il sintagma marxismi foucaultiani.  La proposta del testo si rivela da subito con immediata chiarezza: andare a fondo nelle aporie che hanno contrassegnato alcuni tra i tentativi più significativi di coniugare produttivamente il pensiero di Marx con quello di Foucault.

Tre sono i cantieri di marxismo foucaultiano che il libro attraversa analiticamente, non senza sottolineare, in rapporto a ciascuno di essi, tanto la fertilità teorico-politica cui dà originalmente luogo, quanto le impasse interne e i cortocircuiti filosofici che rischiano di minarne la portata. Nel primo si interroga la riflessione sviluppata, in seno alla cosiddetta “quarta generazione” di studiosi della Scuola di Francoforte – Rahel Jaeggi e Martin Saar – la cui articolazione del nodo Marx-Foucault, interpretata essenzialmente nei termini di una critica immanentista dei rapporti di potere in relazione alle forme di vita, viene letta sullo sfondo della critica che Jürgen Habermas rivolge, in momenti diversi, tanto a Marx, quanto a Foucault. Tutto francese è il secondo cantiere, allestito tra il polo rappresentato da quello che mi prenderei la licenza di chiamare il foucaultismo marxiano di Pierre Dardot e Christian Laval – con la loro accentuazione analitica incentrata sulla critica del paradigma neoliberale – e la riflessione filosofica di Jacques Bidet, in cui il superamento della contrapposizione tra l’olismo marxiano e il nominalismo foucaultiano pare suggerire il ricorso al concetto di potere-sapere del secondo a beneficio di una supposta «insufficienza teorica» del primo. Tra Italia e Stati Uniti, la cornice teorica del post-operaismo offre la terza importante coordinata allo sforzo di mappatura dei marxismi foucaultiani grazie al lavoro di Michael Hardt e Antonio Negri. Nel pensiero di questi autori, la centrale nozione di produzione biopolitica illustra puntualmente il moto di un’articolazione fusionale dei due apparati teorici, il quale conduce l’analisi sul piano di un’ontologia sociale che, come è noto, attesta alla moltitudine il primato, non soltanto politico, ma addirittura ontologico sulle forze reattive dell’Impero. All’interno di un siffatto scenario, affinità, divergenze, articolazioni possibili, fusioni concettuali e sistemi di in-compatibilità, affiorano così alla superficie di un’analisi critica puntuale, che non trascura, autore dopo autore, di indicare l’imminenza di un che fare? che risulta tuttavia depotenziato nella sua fecondità dal permanere irrisolta di un’ambivalenza metodologica di fondo. Come se la ricerca ostinata di un principio di sintesi – ancorché disgiuntiva – tra i due plessi teorici, inficiasse la produttività sul piano politico insita nel promuovere una connessione che parrebbe andare tutta a beneficio di una composizione possibile delle lotte sociali contemporanee. È qui che si colloca l’ambizioso obiettivo del libro di Matteo Polleri: passare al pettine i nodi comuni in cui si addensano le difficoltà teoriche dei marxismi foucaultiani, nel tentativo di sviluppare ipotesi che consentano produttivamente di superarle. Su questo aspetto – assai brevemente – proporrò all’autore un argomento moderatamente lacaniano.


L’incipit de L’étourdit (Lo Stordito o Lo Stordetto) – scritto lacaniano, sulle prime decisamente oscuro, del 1972 – recita così: «Che si dica resta dimenticato [oublié] dietro ciò che si dice in ciò che si intende». Proverò a sostenere come la decifrazione di questo criptico enunciato, possa fare utilmente da sfondo ad alcune affermazioni con cui Foucault spiega, grosso modo in quello stesso periodo, la propria referenza a Marx. Su tutte quella, piuttosto celebre, che ritroviamo in un’intervista rilasciata dal filosofo nel 1975, intitolata Entretien sur la prison: le livre et sa méthode: «Io cito Marx senza dirlo». È noto come Foucault stia rispondendo – non senza sarcasmo – a quei marxisti che lo accusano di non citare Marx, rinfacciando loro di non essere in grado di riconoscerne i testi senza l’ausilio delle virgolette e dei rimandi a piè di pagina. Certamente, Foucault esprime qui il proprio desiderio di non canonizzare Marx, da un lato, e di non doversi fare da lui autorizzare alla presa di parola sul terreno del discorso critico, dall’altro. Non può tuttavia sfuggire l’effetto di risonanza che simili affermazioni producono rispetto a quelle riflessioni che, una manciata d’anni prima, egli aveva dedicato alla funzione-autore, e allo stesso Marx, considerato – insieme a Freud – un instauratore di discorsività.

In primo luogo, Foucault precisa che fondare un campo di discorsività non significa semplicemente istituire la regola di formazione di nuovi enunciati fino a quel momento imponderabili, ma rendere possibile un certo numero di differenze, di scarti concettuali che possono porsi – e questo è decisivo – come eterogenei rispetto a quello stesso gesto di instaurazione discorsiva. Simili regioni discorsive, afferma, non sono dunque dotate di un’intrinseca normatività che consenta di selezionare, gerarchizzare, incorporare o escludere gli elementi che pretendono di situarvisi. Ogni fondazione discorsiva asseconda, infatti, la proliferazione dei dislocamenti possibili rispetto al solco originariamente tracciato. Di modo che intervenire all’interno di un campo discorsivo, come quello inaugurato da Marx, significa innanzitutto riconoscerlo come condizione di possibilità, e al tempo stesso trasformarlo, alterandone la superfice e l’estensione. Cioè significa coniare di nuovo, e diversamente, quello stesso gesto fondatore originario. Questo tipo di ragionamento, mi pare liberi Foucault dall’ortodossia sacralizzante di un certo marxismo senza, al contempo, smarcarlo del tutto da Marx. Se da una parte è infatti il solco marxiano a consentire a Foucault di promuovere lo slittamento analitico che gli è caratteristico, poiché, come egli stesso afferma, senza di esso le sue ricerche non avrebbero saputo situarsi, dall’altra, la focalizzazione sulla discorsività – la cui ascendenza althusseriana è sicuramente centrale – permette di non squalificare come eresia la diramazione indefinita dei concatenamenti possibili che il taglio analitico marxiano consente di articolare, e che ne realizzano contestualmente la metamorfosi.

In secondo luogo, mi pare di una certa rilevanza il fatto che Foucault ponga l’esigenza del ritorno all’origine, come una necessità interna di formazioni discorsive così concepite, specificando che la pratica del «ritorno a» non abbia nulla a che vedere con fenomeni quali la riscoperta o la riattualizzazione. Affinché ci sia ritorno, c’è bisogno innanzitutto che ci sia stato oblio [oubli], un oblio essenziale e costitutivo. In questo ritornare, non si tratta pertanto del tentativo di riportare in auge nozioni desuete o frammenti di testo dimenticati. Non si tratta di mantenere viva l’operatività dei concetti contro la loro tendenziale evanescenza. L’esistenza stessa del marxismo testimonia – credo almeno in parte – il fatto che non si sia dimenticato ciò che Marx ha detto. L’oblio essenziale è quello che colpisce lo stesso gesto fondativo della sua discorsività. Il dire, non il detto di Marx. Cioè quell’atto, quell’agire del pensiero, mediante il quale Marx apre lo spazio diagnostico del rapporto di capitale, rendendo possibile la pluralizzazione delle diagnosi differenziali che organizzano questo spazio come un discorso. Il ritorno necessario, che l’esistenza di una discorsività marxiana postula, sarà allora la ripetizione di quel gesto di sovversione del discorso capitalistico, in cui la teoria di Marx semplicemente consiste, e non l’iterazione ostentata del suo canone concettuale. Potremmo dire allora, in altre parole, che Marx rappresenta prima di tutto un evento discorsivo di disoccultamento di quei laboratori segreti della produzione che reggono l’impianto del sistema capitalistico, e che questa lacerazione rivelatrice è già di per sé una trasformazione, molto prima di essere un atto di comprensione o interpretazione. L’evento che Marx rappresenta per il pensiero è quindi, già di per sé, prassi rivoluzionaria, è il taglio di forbice che dà origine al discorso, senza potersi rappresentare compiutamente in esso, ma che tuttavia, ad ogni suo tornante, il discorso non può che ripetere indefinitamente, facendovi costante, e trasformativo, ritorno.


Che si dica resta infatti implicito, o eliso, dietro ciò che si dice, poiché l’atto d’enunciazione non si ricomprende nell’enunciato, e soltanto cancellandosi dischiude lo spazio di tutto quanto può essere detto, nelle sue infinite articolazioni. Soltanto eliminandosi dal versante empirico dell’enunciabile, il gesto instauratore di discorsività – quel «che si dica», che in Marx è già una prassi così dirompente – opera come funzione di scavo, di prelievo di spazio logico, da cui trae origine la superficie possibile del discorso. Come ogni parola, il discorso non dispone allora della facoltà di esprimere l’istanza della propria irruzione, ma in un certo modo enunciandosi la ripete, ne commemora l’avvento. Lo spunto lacaniano è allora questo: l’analisi – mi spingo incautamente a dire di qualunque tipo essa sia – intrattiene un rapporto essenziale con la ripetizione di ciò che un atto rimuove di sé inscrivendosi come linguaggio. L’articolazione di un pensiero, nella sua dimensione di atto, non è dunque in un qualche modo causata da una generosa sovrabbondanza di cose nuove da dire. Essa trae piuttosto il proprio moto inerziale dall’incisione di una mancanza, di una faglia inesauribile, che scava le fondamenta degli enunciati, e li fa riposare sulla ripetizione indefinita di quanto non riesce a trasparire alla loro superficie, e che essi non possono dunque dire. Cerco di chiarire. Quando la teoria di Marx realizza quello che – se mi si passa la metafora – chiamerei un radicale effetto di trasparenza, in virtù del quale le molteplici trame dello sfruttamento capitalistico diventano per la prima volta visibili – e possono essere dunque attaccate – essa non può che costituirsi immediatamente come attacco a tali strutture del dominio. Questa violenza primaria, l’impeto di un simile disvelamento, costituisce la possibilità della critica dell’economia politica, permanendo in essa come latente. Non è possibile citare questo rimosso, perché è citandolo che lo si rimuove. Non si può allora che ripeterlo, infinite e sempre mutevoli volte. È a questa altezza che collocherei Foucault: nell’impossibilità di un metalinguaggio marxiano che, da un lato, moltiplica esponenzialmente le geometrie e le traiettorie del discorso critico e, dall’altro ripete, senza dirla, l’ampiezza di quell’atto discorsivo inaugurale che è Karl Marx. Questa sorta di anteriorità fondatrice che Marx rappresenta per Foucault non trascina, tuttavia, dietro di sé qualche cosa come un significato originario, una perentoria e immobile verità la cui filiazione discorsiva avrebbe il compito di custodire inalterata, come sua depositaria. Non è tanto la teoria, quanto l’operazione di taglio che Marx compie ad essere vera, il suo squarcio nel reale del capitalismo. Una propensione, dunque, un’attitudine del pensiero, piuttosto che una grammatica concettuale consolidata. Un dispositivo-matrice che macchina concatenamenti molteplici.

Facendo il possibile per non cedere alle seduzioni di una retorica psicoanalitica che pretenda di ridurre tutto alle proprie categorie, ma cercando di proseguire un approccio, per così dire, diagonale al problema, vorrei allora proporre prima di concludere alcuni possibili spunti interpretativi per rilanciare, se ancora vorrà, il confronto con Matteo Polleri. Essenzialmente – mi scuso per la brutale semplificazione – Marxismi foucaultiani ci segnala il fatto che qualcosa, nella tentata intersezione delle traiettorie concettuali di Marx e Foucault, inciampa. Quello che ci si può allora chiedere è che cosa accada all’analisi di questo particolare rapporto di esteriorità interna – ex-timité, per dirla à la Lacan – qualora ci si sforzi di leggerlo come qualcosa di analogo a un sintomo. Si rivelerebbe, a mio modo di vedere, acrobatico e per nulla convincente il tentativo di stabilire quale dei due autori rappresenti, in qualche maniera, il sintomo dell’altro. Più semplicemente dunque, considererei l’articolazione di questi due edifici teorici – l’eterogeneità del discorso di Foucault che trasfigura, e al tempo stesso ripete il gesto instauratore di Marx – come qualcosa che fa sintomo. Occorrerà prima di tutto precisare quale fertile impiego si possa fare del concetto. Certamente, ma in un’ottica molto superficialmente freudiana, un sintomo è in primo luogo sofferenza e formazione compromissoria tra istanze in conflitto, le quali finiscono per cronicizzare appunto un sintomo come forma di mediazione, per rendersi in qualche modo compatibili con la vita del soggetto. Lacan arricchisce la nozione rovesciandone completamente il senso. Infatti, se un sintomo non è altro che dolore, sabotaggio e inciampo, va da sé che, di fronte ad esso, l’urgenza percepita non potrà che essere quella di bonificarlo, di rettificare le storture che ha prodotto, neutralizzandone gli effetti. In questa prospettiva, un sintomo non è nient’altro che qualcosa che pretende di suturare il buco scavato da un’assenza di rapporto, e curarlo presuppone il ripristino di una linearità, tutta immaginaria, che è stata turbata o, in linguaggio psicoanalitico, il tentativo di eludere il fatto che ci sia castrazione. Nel rovesciamento operato da Lacan – è opportuno ricordare che si tratta di un rovesciamento tanto teorico, quanto clinico – scopriamo però agire tutt’altra logica. La concezione lacaniana del sintomo può essere approdata da un variegato panorama di coste, da cui si dipartono itinerari ermeneutici differenti, ciascuno dei quali, tuttavia, condivide la medesima richiesta di un posizionamento etico nei confronti di questa formazione inconscia: non bisogna inutilmente tentare di neutralizzare un sintomo. Occorre, viceversa, affermarlo. Come detto, gli aspetti di questa necessaria affermazione sono molteplici. È tuttavia il modo in cui il sintomo ci consente di interrogare un certo rapporto tra il sapere e la verità a mostrare la più efficace attinenza al tema che qui discutiamo.


Imputando, come è noto, a Marx l’essere stato il primo scopritore della dimensione del sintomo, Lacan ne traccia una delle numerose definizioni possibili, ponendo che esso rappresenti il ritorno della verità come tale nella faglia del sapere. Innanzitutto, proprio come nel nostro caso, c’è una faglia nel sapere laddove esso non si articola compiutamente come un rapporto riuscito – che a questo non vi sia eccezione possibile nel campo del sapere è questione che possiamo qui occasionalmente permetterci di trascurare. Secondo questa lettura, il sapere non ha dunque rapporto possibile con la verità se non nella misura in qui fa difetto, poiché è proprio nella sua caduta che la verità come tale fa ritorno. Ancora ci troviamo a sottolineare la centralità di questo ritornare, che è anche un ripetere, attorno a cui si organizzano le elucubrazioni, talvolta significativamente imponenti, del discorso. Possiamo dire allora che è necessario che un fallimento si produca nei concatenamenti del sapere affinché, facendosi sintomo, la verità possa affiorare alla superficie del discorso, non come nuovo significato enunciabile, ma piuttosto come senso in eccesso, irriducibile a una dimensione significante, per spiegare il quale siamo costretti a mobilitare tutta una serie di operazioni di sapere di tipo nuovo che non possono ridurre o otturare, ma solo amplificare esponenzialmente quella faglia in cui, nondimeno, ci è dato pensare. Il sintomo è qui una sorta di creazione poetica che indica la singolarità di ciò che fallisce come rapporto compiuto, individuando in essa l’apertura di un possibile sullo sfondo di un’impossibilità teoretica, assunta – talvolta ossessivamente – come quadratura istigata del cerchio del sapere. Si pensi al modo con cui Foucault sorride dei tentativi di marxismo e psicoanalisi di accreditarsi come scienza. O al modo in cui Lacan sostiene che solo l’isterizzazione del discorso scientifico conduce al sapere. Troviamo sottesa, in queste enunciazioni, non tanto l’idea – pur sacrosanta – che scienza non possa fare totalità, quanto piuttosto l’impulso a tenere aperta la dimensione di un non realizzabile al cui interno l’affermazione del vero insista, non come orizzonte definito, ma come banco di prova del pensiero. Tra Marx e Foucault, il sintomo si scrive allora come verità di un non-rapporto, che a sua volta invoca con prepotenza la proliferazione di saperi del non-rapporto. Saperi che non pretendono di configurare alleanze tattiche strumentali, rincorrendo la risoluzione possibile, o valorizzando la riaffermazione, di quell’antinomia che pare trasparire nei cedimenti del loro tentato accostamento. Affermare un sintomo non significa accettarlo con rassegnazione né, tantomeno, identificarsi con esso, ma imparare a saperci fare con gli effetti di verità che scatena, soprattutto laddove i nostri tentativi di addomesticarne l’irruenza si rivelano fallimentari. Non si tratta dunque, a ben vedere, di sforzarsi di far funzionare a tutti i costi il connubio Marx-Foucault, ma di lavorare analiticamente quelli che Balibar ha indicato come punti di eresia, considerandoli come momenti di profonda intensificazione teorica, in cui ciò che si produce – esattamente come in un sintomo – è un’eccedenza di senso non collocabile funzionalmente in nessuno dei due campi contrapposti, tanto marxiano quanto foucaultiano. Il farsi sintomo della legatura Marx-Foucault, l’impossibile sintesi dialettica cui dà corpo, deve così potere inaugurare l’apertura di uno spazio di crisi permanente, ma gravido di intuizioni – magari eterodosse, ma sempre sfidanti – nella costante perturbazione con cui ciascuno dei due autori investe il territorio discorsivo dell’altro. Affinché, nella faglia sempre aperta del sapere, l’indicibile verità del gesto che questa tentata, e mai conclusa, messa in correlazione ripete, continui infaticabilmente ad affermare il proprio affondo e la propria lacerazione: dare battaglia senza posa alle strutture del dominio capitalistico.


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Claudio Cavallari coordinatore pedagogico, formatore e docente di Storia della Filosofia, Sociologia della Devianza e Pedagogia Interculturale. Si occupa del rapporto tra filosofia politica e psicoanalisi, produzione di soggettività e metamorfosi del contemporaneo. Per Derive Approdi ha pubblicato Pensare l’abisso. Jacques Lacan e la sovversione del soggetto (2021).

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