Ottobre, 2025: accade l'impossibile
- Pierandrea Amato
- 1 giorno fa
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Di che cosa è nome la navigazione della Flotilla? Può avere il suo coraggio una consistenza filosofica? A un paio di settimana dalla sua impresa si possono cominciare a fare i conti con il significato di un gesto che probabilmente non si esaurisce esclusivamente con una straordinaria traversata. L’ipotesi è che Flotilla sia un atto di diserzione in grado di configurare un momento di resistenza capace di evocare un gesto di rivolta riuscendo a lacerare la desolazione e l’impotenza che il genocidio organizzato a Gaza da Israele aveva scatenato. È un’insurrezione disarmata impegnata a fare i conti con l’inaudito: il genocidio come progetto democratico di governo dell’esistenza. Per questa ragione è considerata qui un’esperienza impossibile, cioè, capace di schiudere uno spazio perché possa accadere un evento politico difficile solo da immaginare anche solo un momento prima della sua materializzazione.
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All’improvviso, come generalmente accade quando la politica si prende la scena, un’insurrezione disarmata invade l’Italia: frequenta luoghi imprevisti, concepisce gesti inattesi, è composta da una molteplicità misteriosa di ogni età. Ma non è tutto: le manifestazioni si susseguono anche di notte, esplorando orari inediti, facendo luce nell’oscurità (lo ricordava già Walter Benjamin: quando irrompe la politica chiamata a cambiare le cose, quando accade l’inimmaginabile, la prima cosa che accade è un’interruzione del tempo cronologico, del suo andamento normale: si colpiscono gli orologi; il tempo si ferma e si fa strada un altro tempo nel tempo). Occupazioni di porti, aeroporti, stazioni, di carreggiate autostradali: la marea non può essere fermata; la polizia desiste e il governo si polverizza. Assistiamo a un atto di resistenza che rovescia i rapporti di forza, che riesce a rendere goffe e grottesche – ma non per questo meno pericolose – le posizioni governative. Si tratta di una resistenza che scompagina il quadro, che tende a redimere due anni terribili: silenzi, impotenza, incredulità di fronte al genocidio. L’impressione, più precisamente, che questa resistenza contenga, contenga con qualche difficoltà, come se potesse erompere in ogni istante, una rivolta, cioè, un gesto di rifiuto della condizione immonda del mondo e una presa di distanza da una forma della politica giunta a tollerare un genocidio. Abbiamo atteso, e proprio quando non c’era più tempo, quando l’impotenza e la desolazione sembravano avere saturato il tempo e lo spazio, ci ritroviamo immersi in un evento impossibile solo da immaginare pochi giorni prima che accadesse: milioni di persone che attuano una resistenza straordinaria facendo i conti con il principio di realtà (la nostra realtà oggi, l’unica cosa che abbiamo da pensare proprio perché impensabile, è il genocidio).
Di che resistenza si tratta? La più essenziale, probabilmente: quella che ci spinge là fuori, fuori di noi, che tramuta il (nostro) tempo logorando antichi legami. Naturalmente, se con resistenza intendiamo, e a mio avviso non si può che iniziare da qui, una lacerazione del sé: «ogni rottura comincia, per chi vi si impegna, con una rottura con sé stessi» (Alain Badiou, Metapolitica). Ma che altro è una rottura con sé stessi – una circostanza potenzialmente politica perché in grado di schiudere l’evento della resistenza – se non una separazione da ciò che normalmente ci governa, dall’universo che rende (quasi) accettabile un genocidio, tanto che abbiamo continuato, almeno fino a ieri, a dormire, scrivere, morire, lavorare, studiare, guardare la televisione, fare l’amore, finanche sognare, come se niente fosse. Perché adesso? Non poteva succedere prima? Sono due anni che siamo spettatori della fase estrema del genocidio del popolo palestinese.
Non poteva accadere prima questa insurrezione, almeno nelle proporzioni a cui assistiamo oggi, probabilmente perché, supponiamo, mancava un pensiero collettivo di quello che stava accadendo. È allora la missione Flotilla, quando si è pensata in grande (non più qualche imbarcazione isolata, ma uno sciame di barche), escogitando un’impresa quasi irrealizzabile, che ci ha costretto a pensare insieme, e non da soli, l’impensabile. Il coraggiosissimo gesto delle truppe della Flotilla allora, tra le altre tanto cose, ma forse prima di ogni altra, ma non per questo la più evidente, è un evento che ci ha lasciato vedere sino in fondo la verità della situazione, la sua abissale intollerabilità che avevamo in fondo tollerato. A quel punto, abbiamo iniziato a pensare e resistere collettivamente prendendo le distanze prima di ogni altra cosa da noi stessi (quel noi, tranne rare eccezioni, che aveva accettato l’inaccettabile) e poi da tutte le forze disposte a praticare il non pensiero e quindi a evitare ogni forma di resistenza nei confronti dell’equazione essere-palestinesi uguale essere-annientati. In effetti, «contrariamente a ciò che viene spesso sostenuto, non conviene credere che sia il rischio, effettivamente gravissimo, che impedisce a molti di resistere. È al contrario il non-pensiero della situazione che interdice il rischio. Non resistere è non pensare. Non pensare è non rischiare di rischiare» (Badiou).
Flotilla è un appello; un appello, tra le altre cose, a lasciare sé stessi, la propria solitudine di fronte al disastro. A trasgredire la comodità della desolazione. L’equipaggio della Flotilla, nel momento in cui si avvia verso Gaza, diventa un manipolo di disertori, di nemici interni del discorso democratico-governativo: aprono varchi, svelando l’assenza della politica di fronte al disastro. Non so dire se sia già uno straordinario atto politico, piuttosto, forse, sprigiona le condizioni perché esso accada; dal momento che ci invita a disertare noi stessi, le nostre abitudini, a prendere congedo dall’ordine. Allora con la Flotilla non si tratta forse di “restare umani”, ma di fare un passo più avanti, d’inventare un’esperienza politica mondiale senza precedenti dove affiora l’occasione di diventare, chi era sulle barche e chi ne ha recepito la forza, quello che non siamo mai stati.
La rivolta, in fondo, non sa di esserlo fino a quando non accade; ciò che si può sopportare fino a un momento prima, diventa improvvisamente insostenibile. Si trova a questo proposito una pagina sublime nel capolavoro postumo di Furio Jesi, Spartakus. Jesi parla del “sonno prima della rivolta”; della rivolta come di un risveglio: «fino a un istante prima […], il rivoltoso potenziale vive nella sua casa o magari nel suo rifugio, spesso con i suoi familiari; per quanto quella residenza e quell’ambiente possano essere provvisori, precari, condizionati dalla rivolta imminente, fino a quando la rivolta non principia essi sono la sede di una battaglia individuale». La rivolta lacera il risentimento e l’impotenza individuale; ci fa uscire dal guscio dell’ottusa e inconcludente battaglia tra il bene e il male; tanto apparentemente radicale da rendere generalmente inermi, se consumata nelle forme di una collera esclusivamente personale. La quotidianità tornerà; eppure, sarà diversa, dal momento che la resistenza come rivolta evoca un altro tempo nel tempo in grado di suscitare un attrito che difficilmente potrà essere ricomposto: il sé fa esperienza della sua pluralità (politica).
Chi sono quelli che si stanno rifiutando – con la marea di manifestazioni, occupando scuole, Università – di fare la pace con il genocidio? Direi molto semplicemente dei senza nome; oserei pensare a un popolo di cui è arduo stabilire margini, leader, una conformazione precisa; insomma, un popolo che non ha nulla a che fare con il Popolo come soggetto giuridico (e quindi solo chi fa finta di non capire si può sorprendere dello scollamento tra questo popolo, quello che non è il Popolo, e la diserzione dalle urne). Direbbe a questo proposito sempre Badiou, lo faceva quando scriveva della Comune di Parigi, sono degli invisibili, quelli che vengono al mondo senza preavviso; quelli che generalmente non hanno parte, che non stanno da nessuna parte, quelli che hanno solo il loro coraggio e la disciplina e il sangue freddo necessario a compiere la propria missione, evocando un’esperienza collettiva che si fa carico di misurarsi con l’inaudito: il genocidio operato in nome della democrazia.
Il principio di realtà, senza avvisare, irrompe e profana l’interdizione di un potere che può tutto: non soltanto amministrare un genocidio ma allo stesso tempo negarlo. Questa sollevazione ha il coraggio di farsi carico di un compito difficilissimo: tenere viva una forma di democrazia radicalmente separata, tenendosi alla massima distanza, dai regimi democratici che organizzano, supportano o quanto meno tollerano il genocidio del popolo palestinese. In effetti, da due anni non siamo chiamati soltanto, soltanto si fa per dire, a fare i conti con la fase estrema del genocidio concepito dallo Stato di Israele, ma ciò implica un elemento ulteriore in grado, sembra incredibile, di aggravare la situazione: a compiere il genocidio sono regimi democratici fondati sullo Stato di diritto. Nonostante le dichiarazioni dell’Onu, nonostante le analisi dei più prestigiosi studiosi mondiali del genocidio (facciamo solo due nomi famosi: Bartov e Goldberg), nonostante che l’Associazione Internazionale degli Studiosi del Genocidio (IAGS) abbia reso pubblica una risoluzione in cui si dichiara che “le politiche e le azioni di Israele a Gaza soddisfano la definizione giuridica di genocidio di cui all'articolo II della Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e la punizione del crimine di genocidio (1948)”. Nonostante tutto questo il capo del governo di Israele, Netanyahu, oggetto di un mandato di arresto internazionale per crimini di guerra e crimini contro l’umanità dalla Corte Penale Internazionale, è ospite della Casa Bianca dove partecipa alla definizione del destino di Gaza. Possiamo immaginare, se si può perdonare un’analogia tanto scontata e abusata, quasi insopportabile, che Hitler, mettiamo il caso, nel 1943, prenda parte a un incontro con il Presidente degli Stati d’America per definire il destino degli Ebrei sopravvissuti? Se oggi può accadere, se ci può apparire persino inevitabile, è solo perché, in fondo, il genocidio rimane un rimosso, che venga associato alla democrazia può essere detto, pensato, denunciato persino, ma nella realtà è difficile essere all’altezza di questa catastrofe. Ecco che cosa è accaduto in Italia: farsi finalmente, veramente carico, nonostante la sua negazione, del genocidio del popolo palestinese.
In fondo è curioso: alla democrazia oggi, ai suoi principi fondamentali, credono soltanto i suoi nemici. Coloro che hanno un’altra storia, un’altra cultura, altri valori. In realtà, a pensarci bene, è sempre così: soltanto i nostri nemici credono ancora in noi; altrimenti, non perderebbero tempo ad essere i nostri nemici. Il nostro nemico, per essere tale, deve fatalmente ingigantirci, rendere la nostra figura a suo modo meritevole di essere disprezzata; deve pensare che noi siamo qualcuno con cui valga la pensa misurarsi, nel caso pure scontrarsi.
Al di là della condotta indiscriminata, sta qui forse l’errore politico – mi ripeto, politico – di Hamas quando, con l’azione del 7 ottobre 2023, invita Israele a vendicarsi. Lo fa affidandosi a un principio cardine della democrazia di diritto: il contenimento dell’azione di governo. Il potere può; può valicare i limiti, altrimenti un potere che non può fare ciò che non può fare che potere sarebbe. Dunque, anche la democrazia, come regime di potere, è chiamata a governare forzando i suoi stessi limiti, negoziando senza tregua le sue soglie. Ma, sarebbe questo il punto, questa profanazione nella democrazia dovrebbe avere un limite; prima o dopo si arresta, e si arresta in un punto in cui, seppure lontano, ancora il diritto arriva e vige e non dovrebbe permettere al potere di potere tutto, persino la fine di ogni legittimità democratica della democrazia. Hamas ha scommesso, nonostante tutto, nella democrazia; ha scommesso che la violenza di Israele, evidentemente, paradossalmente, non conoscendo a sufficienza il proprio nemico (paradossalità che quasi lascia immaginare un inconfessabile legame con il proprio avversario), si potesse arrestare prima della soluzione finale, prima dello stesso suicidio di Israele. Ha scommesso, in verità, probabilmente non tanto sui limiti che Israele si sarebbe auto-imposto, ma ha puntato sull’ipotesi che le democrazie occidentali avrebbero intimato a Israele di non superare i limiti di una violenza incondizionata, fuori ogni normatività giuridica, giungendo sino alla cancellazione di Gaza. Hamas si sbagliava.
Tuttavia, vi è un resto democratico nella democrazia che, insieme agli aiuti per Gaza, ha preso il largo con l’eterotopia Flotilla: essere all’altezza di questo gesto, della piega che ha inferto al presente, significa acconsentire a un lavoro difficile e altrettanto coraggioso: tenersi lontano dalla democrazia – dai suoi riti, miti, discorsi, dalla sua violenza, da cui nessuno è per principio immune – per potersi ancora dire democratici e coltivare la filigrana più propria di qualsiasi politica effettivamente democratica: l’esperienza dell’impossibile.
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Pierandrea Amato è professore ordinario di Filosofia teoretica dell’Università di Messina. La rivista che dirige con Luca Salza, «K. Revue transeuropéenne de philosophie et arts», ha recentemente pubblicato un massiccio fascicolo di quasi 600 pagine dedicato a Gaza: Grandezza di Mahmoud Darwish.
Ricordiamo alcuni suoi titoli: Trincee della filosofia (2022); Filosofia del sottosuolo (2020); La rivolta (2019). Nel dicembre del 2025 uscirà per i tipi della Cronopio un suo nuovo saggio scritto con Valerio Romitelli: Per una critica politica della pace.
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