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Un racconto per immagini



Materia e trasparenze. Pregiudizi e ipocrisia. Spettri e trasformazione. L’ultimo racconto per immagini di una trilogia sul corpo, dagli scatti audaci di Effe Erre e la scrittura visionaria di Elena Giorgiana Mirabelli (Fessure e Gli occhi i precedenti).



* * *



Ho incominciato a svegliarmi dal mio sogno ieri

Anaïs Nin




1. Quando torno a casa, è sera e siamo in due. Io e lo spettro di me. Lo spettro di me sorride, la materia che sono accetta le sue carezze. La mia giornata è il Club Nepri, è il tragitto che da casa porta al Club, le mie ore al Club, il lavoro del Club che mi permette di vestirmi, mangiare, dormire, svegliarmi e ancora vestirmi, e poi camminare, lavorare e dormire, mangiare e ricominciare. La mia realtà è fatta di materia, solo materia. La materia è spazio, ha un colore, ha un odore; la materia marcisce, si consuma, si trasforma, muore.



2. Dicono che sono carina, che sono troia, che sono gentile, che sono aggressiva, che la mia rabbia è come le mie tette, che le mie tette sono come le mie labbra. Dicono che sono capace di accudire, di abbracciare e piangere. Altri ancora dicono che sono capace di farvi soffrire, di farvi ammalare; che non ho anima, ma anche che la mia anima esiste ed è pura. Per alcuni sono solo trasparente, dicono che sono trasparente. Essere trasparente non è una virtù. Essere trasparente è diventare uno spettro – mani che passano oltre, occhi che non si fermano. Sono sincera! Sono trasparente! è come ammettere di voler convincere gli altri di esserci. È dire Io sono uno spettro. Io non voglio essere sincera, né essere trasparente. Non voglio essere uno spettro. Loro mi guardano attraverso, non notano la mia carne, guardano oltre lo spazio occupato dal mio corpo. E io allora mi chiedo: dove sono le mie ossa? Sono pulite le mie ossa? Sono un oggetto fra gli altri, una sedia, una penna. Loro vedono e notano solo lo sfondo. Lo sfondo è una stanza, il Club Nepri, un altare, un letto, un luogo, un qualsiasi luogo che ha consistenza, lui sì. Io sono un manichino, una bambola che ha seni e fianchi ma non dice, non ha voce, ascolta, una mera presenza.

Quando torno a casa, è sera; mi svesto e friziono la pelle con l’olio di mandorle al tè verde. La pelle si idrata e io comincio a guardarmi. E vedo le mie gambe diventare quattro, così come i miei seni e le mie braccia. Un’altra me si stacca dal mio corpo e vaga per la stanza e penso che sia giusto che vada in giro così, lei sì, trasparente ed eterea mentre la mia carne mi inchioda alla materia. Sono di nuovo sulla soglia. Non c’è caffè, non c’è alcuna cherry pie, non ci sono tende rosse, né nani, nessun anello. Ci sono io, c’è il mio spettro. E si prende cura.



3. Ho dieci anni e sono uno spettro. Ho vent’anni e sono uno spettro. Ho trent’anni e sono uno spettro. Io. Sono. Uno spettro. Trasparente, silenziosa, remissiva. Mi mettono in un angolo del Club Nepri, mi dicono Sorridi!, dicono Ascolta!, e poi Attendi! Sempre, ogni giorno, ogni ora di ogni anno, di ogni spazio-tempo, di ogni realtà o mondo parallelo, anche nella realtà che esiste nella mia testa. Sono stata qui, sono sempre stata qui, ma non mi hanno mai vista. Non sono nei ricordi. È importante solo lo sfondo, solo lo sfondo, è importante solo lo sfondo. Loro arrivano, chiedono, prendono, pagano; e godono e si arrabbiano e riempiono il Club Nepri con i loro corpi, con i vestiti, e gli ori, e i profumi. Accade questo al Club: la quantità di tempo passata lì dentro è inversamente proporzionale alla quantità di azioni possibili. Le mie quattro azioni concesse a fronte dell’infinità di azioni che Loro possono compiere. Io ascolto, prendo nota, servo, ringrazio. Attenzione, cura, nessun trasporto, sorrido, grazie, salve, arrivederci, e grazie e ancora grazie. Loro sembrano vitali ma in un modo che mi offende; sono tutti uguali – abiti, camicie, occhiali – per me sono tutti uguali, e sorridono tirando troppo le labbra, come se gli zigomi potessero spuntare fuori dalle guance, come se la loro testa potesse esplodere, e ridono, ridono oppure sono seri, serissimi, come se dovessi ringraziare, sempre, io, per la loro semplice presenza. Non sono soli, ad accompagnarli donne che non sono come me. Indossano la fibra di Dio e hanno seta fra i capelli. I ricchi li riconosci dai tessuti e dai colori. Dal modo che hanno di occupare gli spazi. Se li prendono, i posti. E non hanno bisogno di gesticolare e di farsi notare. Ogni luogo è come se fosse una casa. Penso che sia perché sono abituati ad acquistare: tutto è acquistabile, tutto è mobile, tutto è trasferibile.

Quando torno a casa, è sera, le gambe si moltiplicano, il corpo si sdoppia e la mia materia è accarezzato dallo spettro. Lo spettro è felice, un barlume, uno spiraglio luminoso che si aggira per la stanza, mi accarezza e mi dice che la mia pelle ha bisogno di cura, che la mia materia non è agganciata a un ruolo e che quel ruolo io posso bruciarlo. Il sogno è la mia realtà. Nel sogno mi moltiplico, divento legione. E non c’è maligno, non c’è dio. Ci sono solo io.



4. Quando torno a casa è sera e il mio corpo esplode. Accarezzo le mie linee. Tocco la mia materia e la percepisco e non sono trasparente, non sono trasparente. Non è il maligno, non è dio, non esiste nulla. Il bordo è sempre più sottile. Sono materia o spettro. Sono materia e spettro. Le mie linee, la mia testa, il mio corpo, la mia voce, le mia labbra. Mi moltiplico e divento un animale. Sì, ecco che si trasforma la mia testa. Il mio spettro è nudo e guarda a sinistra mentre perdo la testa; cadono i miei ricci; le vene esplodono; il collo si ingrossa; il naso si allunga e la pelle si tira, sembra molle, non si squarcia, la materia si modella sulle ossa che dall’interno si modificano; e i denti, i denti si moltiplicano, i denti, e sono un cavallo. La mia testa è quella di un cavallo.

Ieri ho visto quel film. Lui [1], che ha potere, ha una giacca, una cravatta, e i capelli ordinati, ripete Tu non sei un cavallo! Tu non sei un cavallo! e allora ho pensato che sì, invece, bisogna essere un cavallo. Bisogna diventarlo. E allora mi trasformo ed è come bruciare il ruolo, saltano le definizioni, e lo spettro indica il cavallo. E siamo entrambe pronte a bruciare, a bruciare tutto.



5. Mi dicono cosa indossare e come farlo, dicono cosa fare del mio corpo, della mia bocca. Mi dicono cosa sia più giusto dire e come sembrare carina, che sono una troia, dicono che sono una troia, che la mia rabbia è simile alle mie tette, che le mie tette sono come le mie labbra, che le mie labbra devono solo essere morbide e accoglienti. Ma io sono un cavallo, io sono un cavallo e non sono più nella loro griglia. A Loro è concesso essere sempre diversi – Loro sono Famiglia, sono Stato, Scuola, Università, Polizia. Sono Potere. E se io divento un cavallo cosa potranno dirmi? Se divento un cavallo cosa potranno farmi? La mia arma è la mia materia, la mia forma, la mia testa, il mio collo, la mia fica.

Mi inchiodo alle mie forme e a quella soglia. E sono spettro e sono materia.

Quando torno a casa è sera, e domani, domani brucerò tutto.




Note [1] Gian Maria Volonté nel ruolo del Dirigente di pubblica sicurezza in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, diretto da E. Petri (1970).


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Elena Giorgiana Mirabelli, scrittrice, e Effe Erre, fotografa, nascono entrambe a Cosenza sul finire dei Settanta, entrambe vivono e lavorano a Cosenza, affacciate al mondo. Per Vortex hanno firmato una trilogia testo-visuale sul corpo.

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