Femminilizzazione del lavoro e trasformazioni del capitale
- Chiara Luce Breccia
- 4 giorni fa
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Intervista a Cristina Morini

In questa intervista, Cristina Morini racconta il suo percorso teorico e politico dagli anni ’90 ad oggi, spiegando la genesi del concetto di femminilizzazione del lavoro. Attraverso uno sguardo che intreccia femminismo e analisi del capitalismo cognitivo, Morini mostra come il lavoro contemporaneo abbia incorporato la vita, la cura e l’affettività, trasformando la precarietà in una condizione strutturale. Lungi dall’essere superato, il concetto di femminilizzazione resta oggi uno strumento potente per leggere le contraddizioni del capitalismo, comprendere la soggettività lavorativa e immaginare forme di resistenza. Tra queste, il reddito di base universale si conferma una proposta viva e necessaria, capace di restituire autonomia e valore al tempo e alla vita stessa.
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Chiara Luce Breccia: Il tuo libro Per amore o per forza esce nel 2010. Cosa ha rappresentato per te, in quel momento, teoricamente e politicamente? Cosa intendevi, allora, con il concetto di femminilizzazione del lavoro?
Cristina Morini: Il termine «femminilizzazione del lavoro» ha cominciato a circolare alla fine degli anni ’90, spesso tra virgolette, come fosse un concetto provvisorio. Si diceva: «Qualcuno la chiama femminilizzazione del lavoro», per indicare una trasformazione in corso che ancora non trovava definizione precisa. Un riferimento importante, seppur parziale, è stato il «Gruppo sul lavoro» della Libreria delle donne di Milano: Lia Cigarini, Giordana Masotto, Maria Marangelli, Donatella Barberis, Silvia Motta, Lorenza Zanuso e altre. In un contesto politico e intellettuale coeso, riflettevano sul lavoro flessibile attraverso una lente di genere. La flessibilità veniva letta come un processo che, liberando il lavoro dalle imposizioni del fordismo, potesse parlare il linguaggio del desiderio femminile. Invece di rammaricarsi per la fine della grande fabbrica e per lo sgretolamento della classe operaia maschile, si immaginava un nuovo modello lavorativo, più vicino ai bisogni soggettivi. Il lavoro autonomo sembrava promettere una corrispondenza con aspirazioni e tempi quotidiani che la fabbrica non aveva mai consentito.
Tuttavia, la realtà del lavoro che avevo cominciato ad attraversare mi portava a considerare questa lettura un’illusione di libertà. Osservavo come le strutture economiche e sociali utilizzassero la precarizzazione per minare coesione e sostegno reciproco, svuotando la dimensione della relazione. Si assisteva a una crescente attenzione per il «postfordismo», termine nato per nominare la fine del fordismo, e per le nuove forme di lavoro: frammentate, esternalizzate, mobili, autonome. Figure simboliche come il camionista trasformato in imprenditore a causa dell’outsourcing, descritto da Sergio Bologna, entravano nel dibattito. Bologna e Fumagalli avevano pubblicato nel 1997 un testo sul postfordismo che divenne un riferimento.
La Libreria delle donne si avvicinò con entusiasmo all’idea di lavoro autonomo, vedendolo come affrancamento dalle rigidità del passato. Il lavoro si apriva a possibilità legate a desideri e tempi determinati dai soggetti. Circolava molto un articolo dell’Economist del 1996, «Tomorrow’s second sex», che prefigurava un sorpasso femminile nel mercato del lavoro e che per alcuni anni si realizzò, in linea con il paradigma postfordista (terziario, servizi, freelance, lavoratori della conoscenza).
Per me e altre compagne era chiaro che dalla gabbia del lavoro non si scappava attraverso la precarietà, anche se la chiamavi autonomia. La prima generazione precaria assisteva a uno smottamento delle garanzie, non a una liberazione. L’individualizzazione del rapporto di lavoro generalizzava la fragilità e organizzava il lavoro sulla base della disponibilità personale: un allenamento di massa all’obbedienza.
La femminilizzazione del lavoro prese forma per me come espressione di questa esperienza precaria strutturale che assumeva tratti femminili non solo perché coinvolgeva più donne, abituate alla precarietà, ma per le caratteristiche valorizzate: adattabilità, cura, relazione, disponibilità, oblatività. Precarietà esistenziale.
Milano, dove vivevo, era terreno fertile per analisi sul lavoro femminile: cresceva la domanda di forza lavoro istruita, impiegata in comunicazione, editoria, formazione. I freelance intravedevano inizialmente margini di autodeterminazione, presto erosi da guadagni in calo, competizione e minaccia di sostituzione. Il modello organizzativo e la legislazione sui diritti stavano mutando e insieme ad essi i quadri di condotta umana. Le tecnologie digitali non alleggerivano il lavoro: erano pervasive e sostitutive, rendendo la concorrenza parte dell’antropologia lavorativa, con ricadute sui processi di soggettivazione. I confini tra tempo di vita e produzione diventavano porosi. La promessa di libertà si trasformava in cattura, soprattutto nei lavori cognitivi. E tuttavia la ricerca di autonomia restava forte: eravamo cresciute nel mito dell’indipendenza economica e dell’autodeterminazione.
In questo mutamento ho sentito il bisogno di dare forma ai miei pensieri. All’inizio degli anni 2000 mancava in Italia uno spazio di riflessione femminista sul lavoro che si rifacesse alle genealogie marxiste aggiornandole alla nuova figura della precaria cognitiva, dell’imprenditrice di sé stessa. Il pensiero della differenza aveva costruito un discorso potente, soprattutto a Milano, dove il femminismo aveva una vocazione fortemente autocoscienziale. Una continuità con Lotta Femminista fu rappresentata da Alisa Del Re, che continuava a intervenire pur in relativa solitudine, mentre molte intellettuali erano all’estero. I documenti erano difficili da reperire, molti libri sono stati ripubblicati più avanti; ricordo Mariarosa Dalla Costa impegnata a costruire un archivio.
Tra i riferimenti essenziali per me c’è il gruppo Sconvegno (Eleonora Cirant, Manuela Galetto, Chiara Lasala, Chiara Martucci, Sveva Magaraggia, Elisabetta Onori e Francesca Pozzi), organizzato intorno alla Libera Università delle donne e a Lea Melandri. Non cercavamo di fare teoria: praticavamo l’»autoinchiesta», raccontando le nostre esperienze per favorire rispecchiamento e coesione. Insieme a loro e ad altre realtà (A-Matrix, SexyShock, Precarias a la deriva in Spagna) sentii l’esigenza di produrre una contro-narrazione femminista del lavoro, che smontasse le promesse della flessibilità e descrivesse i difficili equilibri della precarietà. Sconvegno lavorò molto sulle strategie, sulle alleanze, sulle reti tra donne. La teoria nacque dall’esperienza, dalla ricerca su di noi.
Da questo stimolo, nel 2007 nacque un numero della Feminist Review sugli Italian Feminism, curato da Sconvegno su invito di Nirmal Puwar, dove pubblicai il primo articolo sulla femminilizzazione del lavoro. Poi uscì L’emancipazione malata, scritto con Lea Melandri e un gruppo di donne della LUD. Avevo già pubblicato articoli sulla precarietà nell’editoria e nel giornalismo, Le redazioni pericolose (1999) e La serva serve (2001), sulle catene della cura e le lavoratrici domestiche. Infine Per Amore o per forza (2010).
Penso a quegli anni come a un crinale da cui emerse il desiderio di una lettura femminista della precarietà incarnata. Lo scopo era articolare una critica radicale al modello neoliberale. Importante era puntare sulla diversa percezione e sul rifiuto, sollecitando collegamenti tra figure lavorative diverse (giornaliste, call center). Il trait d’union stava nella condizione precaria e nelle pressioni emotive e psicologiche dell’impermanenza Sta anche nell’ambiguo piacere incoraggiato dallo svolgere alcuni compiti, dall’avere riconoscimento, dall’uscire di casa e cullare il sogno che energie e capacità avranno uno scopo, sta, per le donne, nello storico desiderio di guadagnare del proprio denaro.
Oggi la precarietà è dilagata. Ci confrontiamo con un affondo contro il lavoro vivo, tra crisi, povertà, economia della promessa e lavoro coatto. Un ricatto che ti spinge a dare il massimo, a essere «proattivi». Nei settori come distribuzione, ristorazione e turismo cresce il rifiuto. I precari di seconda generazione hanno imparato a «crederci meno». Ma quel lascito, quella consapevolezza dell’ammonimento sussurrato — «per amore o per forza» — può ancora tornare utile.
CLB: Se da una parte dunque il riferimento culturale, polemico o meno, era la Libreria delle donne di Milano, qual era il rapporto con quel framework teorico e politico che faceva riferimento al capitalismo cognitivo? Pensi che l’analisi della femminilizzazione del lavoro tracci uno scarto o una continuità?
CM: Diciamo questo: se da una parte la riflessione sul cognitariato – termine coniato da Franco Berardi – cercava di inquadrare i nuovi lavoratori e lavoratrici dei settori comunicazione, informazione e formazione, dall’altra si delineava un quadro in cui le donne, in molte metropoli occidentali, assumevano un ruolo importante in questa transizione. Questi sono stati i due poli da cui è derivata la riflessione, per me.
Posso aggiungere che ero in contatto stretto con Carlo Vercellone, Andrea Fumagalli, Christian Marazzi, Antonella Corsani e altri: ero immersa nelle discussioni sulle tesi del capitalismo cognitivo e sui nuovi paradigmi di accumulazione. Con Fumagalli parlavamo di capitalismo biocognitivo e della modificazione dal valore-lavoro verso il valore-vita.
In presenza di un salto tecnologico importante, la conoscenza e, più in generale, tutto ciò che concorre alla formazione umana, lo scorrere della vita e il sapere del corpo del singolo individuo diventano centrali, secondo il femminismo. La ri-produzione sociale è centrale per l’accumulazione contemporanea. Più dell’atto del lavorare è l’atto dell’esistere, del parlare, dello stare in contatto, del fare attenzione: è il sentire del corpo, il suo interagire con il mondo a generare valore; il sapere insito nei corpi-mente diviene centro della valorizzazione.
Il mio tentativo è stato innestare uno sguardo femminista in un dibattito sensibile al tema della produzione sociale. La femminilizzazione del lavoro si manifesta come caduta dei confini tra produzione e riproduzione. La crescente inclusione femminile in vari ambiti era motivata dalla presunta attitudine naturale delle donne a gestire competenze «soft»: relazione, coinvolgimento emotivo, intuizione, mediazione, che nel capitalismo cognitivo diventano essenziali, fino a costituire un’economia dell’interiorità lavorata, come ho esplorato in Vite lavorate (2022).
Le donne sono state protagoniste nell’emergere della «cognitivizzazione» del lavoro, poiché erano più numerose nei servizi e nelle professioni autonome di seconda generazione. Un aspetto fondamentale è che si inserivano grazie a livelli di istruzione più alti. Pur in contesti precari e flessibili, il lavoro offriva maggiore visibilità rispetto al passato: la fabbrica del Novecento non era mai stata accogliente per le donne. È una discontinuità importante.
Sia nelle riflessioni dei movimenti, come MayDay[1], sia nell’analisi del lavoro precario, era chiaro che, pur coinvolgendo un ampio spettro di lavoratori, le donne rappresentavano un archetipo determinante. Focalizzarsi su questi ambiti dello sviluppo capitalistico (terziario, servizi) e dell’organizzazione del lavoro (forme contrattuali atipiche e individualizzate) non significa ignorare il resto del lavoro: le donne non sono sparite dai settori manuali, artigianali, dalla cura né dal lavoro domestico. Si sono forse fatte sostituire, in una fase, tramite le cosiddette «catene della cura». Complessivamente, vi è stato un processo espansivo del lavoro femminile, pur tra contraddizioni, almeno fino alla crisi del 2008.
Per tornare al fulcro della tua domanda: come leggere il rapporto tra femminilizzazione del lavoro e trasformazioni del capitalismo? Ho parlato a quel tempo di inclusione differenziale (così come per i migranti) ma molto si usò il concetto di pinkwashing, intendendo con questo termine quel complesso di strategie messe in campo da attori economici e istituzionali per includere strumentalmente «le differenze» lasciando tuttavia intatto il piano della «diseguaglianze».
Si trattava di superare la storica aporia dell’economia classica tra valore di scambio e valore d’uso. Non si limitava a rivendicare l’importanza di un lavoro fondamentale per la riproduzione della forza-lavoro, fino ad allora invisibile: con l’avvento delle tecnologie del capitalismo biocognitivo e della piattaforma, la riproduzione sociale diventa direttamente fonte di accumulazione, a differenza di prima, quando generava valore solo indirettamente (ad esempio, mantenendo in vita l’operaio o facendo nascere un futuro lavoratore).
È questo che ho cercato di dire, da allora: la rete di relazioni in cui si sviluppa la riproduzione sociale, grazie alle tecnologie, valorizza caratteristiche che il lavoro di fabbrica non richiedeva: energie psichiche, affettive, desideranti, da cui deriva valore, profitto. Se ieri analizzavo le capacità relazionali e la voce dell’operatrice di call center, oggi l’esempio più chiaro sono social, influencer, TikTokers, youtuber, digital creator.
Ovviamente, buona parte della riproduzione sociale rimane non retribuita: tempo non retribuito, plusvalore. Se oggi questo meccanismo appare evidente, allora lo era meno.
CLB: Come racconti più di una volta all’interno dei tuoi testi, quando parliamo di femminilizzazione non parliamo «semplicemente» del lavoro delle donne, ma parliamo di una vera e propria matrice organizzativa dei rapporti capitalistici. Non solo, cioè, il modo in cui il capitalismo inserisce nei circuiti di accumulazione i corpi delle donne ma anche il modo in cui organizza i circuiti di accumulazione stessi.
CM: Sì, il discorso è proprio questo. La femminilizzazione non è solo il modo in cui il capitalismo inserisce le donne nei circuiti di accumulazione, ma diventa essa stessa una matrice di organizzazione di quegli stessi circuiti. Penso, per esempio, al «maternage» delle organizzazioni: la richiesta, spesso implicita, di prendersi cura della propria «famiglia aziendale», di mostrare affetto, fedeltà, attaccamento al lavoro e all’impresa, come fosse qualcosa di vivo, da proteggere e accompagnare.
Queste aspettative si basano su competenze storicamente associate alle donne, come cura, disponibilità relazionale, empatia, capacità di ascolto. Un caso emblematico che ho incontrato che ho incontrato durante una ricerca europea cui ho partecipato riguarda un case study relativo a un programma per le aziende e i dipendenti che si chiama, MaaM (Maternity as a Master): la maternità come esperienza che rende le donne più capaci di organizzare, pianificare, risolvere problemi. L’idea è che dopo un figlio una donna sviluppi competenze preziose per l’impresa, da trasferire all’organizzazione aziendale.
Milano, per ovviare alla disoccupazione femminile in età fertile e all’abbandono del lavoro con figli, ha promosso questo tipo di formazione a pagamento per le aziende, riassumibile nello slogan: «Ecco perché una mamma può essere utile all’azienda». Questo chiarisce la dimensione della cura come archetipo comportamentale, un’etica trasferita nel lavoro produttivo. Il modello del lavoro di cura spalanca un mondo mai associato alla produzione e diventa efficace quando elementi relazionali e linguistici, che coniugano razionalità, affettività e corporeità, diventano fondamentali per la soggettività del lavoro.
È una strategia che rende l’esperienza del lavoro immersiva, facendo leva sul piacere e sul riconoscimento della singola o del singolo, inserendo l’affetto e il coinvolgimento emotivo nella relazione capitale-lavoro, in una dimensione che resta gerarchica. Negli ultimi decenni il capitalismo punta ad appropriarsi della polivalenza, multiattività e qualità del lavoro e del corpo femminile. L’esperienza delle donne nel lavoro riproduttivo, domestico e la loro «intelligenza emotiva» viene incorporata come risorsa produttiva. In questo senso la figura della casalinga del capitale segnala il passaggio di funzione: prendersi cura dell’azienda come fosse casa propria, partendo da un vissuto atavico.
CLB: In Per amore o per forza, scrivi: «Il capitalismo cognitivo da un lato attinge alle diverse sfere esperienziali e individuali di uomini e donne, native e migranti, dall’altro cerca di imporre un unico e omogeneo dispositivo di comando sul lavoro: sono le differenze, e il loro sfruttamento, a tradursi in un surplus di ricchezza. Da questo punto di vista, le semplici e binarie dicotomie produzione/riproduzione, lavoro maschile/lavoro femminile perdono significato, sino a spingerci a ipotizzare un processo tendenziale di degenerizzazione del lavoro.» Cosa intendevi con questa degenerizzazione del lavoro? Pensi che sia una previsione che effettivamente si è realizzata?
CM: Parlo di un «processo tendenziale» di degenerizzazione del lavoro per descrivere un meccanismo già evidente negli anni della MayDay, con una nuova composizione del lavoro fatta di uomini e donne, prevalentemente giovani, tutti egualmente precari. Potevano essere impiegati in settori diversi – dalle grandi catene distributive al lavoro cognitivo – ma la precarietà era costante. Milano e il Nord Italia, in tutto il triangolo industriale, hanno vissuto processi di precarizzazione e sostituzione del lavoro standard feroci. La precarizzazione riguardava tutti, come risposta pesante alle lotte delle fabbriche. È stato un processo brutale, che ha prodotto impermanenza generalizzata: niente stabile per nessuno, meno che mai i diritti, quasi un sarcastico «egualitarismo dall’alto». Donne, minoranze di genere e sessuali, minoranze etniche potevano essere risorse strategiche, a patto di adesione e adattamento.
Il capitale, nel perseguire accumulazione, sacrifica anche i propri «figli»: il principio della proprietà privata sovrasta ogni legame affettivo o familiare – come osserva il giovane Marx. Il capitale diventa invasivo, desidera attingere a piene mani alle vite dei corpi produttivi, sfruttando caratteristiche che rendono possibile profitto. La precarietà, nella contaminazione tra lavoro e vita, favorisce questa estorsione: è trasversale e indifferenziata. I corpi sono sempre sessuati, e le caratteristiche femminili, ad esempio quelle materne, vengono valorizzate a fini produttivi. L’obiettivo è sfruttare ogni risorsa e fragilizzare il lavoro nella sua interezza. Saltano le dicotomie tra produzione e riproduzione: la rigida divisione sessuale del lavoro perde senso. Anche la prospettiva che pone l’azione produttiva come momento esclusivo di generazione di valore e sfruttamento perde consistenza. Attraverso stimolazione di soggettività e cooperazione (social network, reti) si genera accumulazione e si riproduce valorizzazione.
Dal Covid si nota un ritorno a gerarchie ataviche: assetti patriarcali riemergono, ripristinando ruoli tradizionali e binarismo. I dati confermano: oggi l’occupazione femminile in Italia è circa il 50%, quella maschile supera il 70%. Si tenta di riportare le donne, principali sostitute del welfare, a casa, a occuparsi di cura. Donne e giovani restano tra i più penalizzati.
Il concetto di femminilizzazione aiuta a comprendere la variazione antropologica attivata dalla precarietà: il corpo della donna connette produzione e riproduzione, accordando sfruttamento di entrambi i campi. Ovviamente, è un femminile funzionale al profitto: tutto ciò che rallenta o non massimizza guadagni viene eliminato. Perciò le donne vengono spesso espulse dal lavoro dopo la maternità. Nei lavori storicamente femminilizzati, come scuola o assistenza socio-sanitaria, anche i maschi (spesso migranti) si confrontano con condizioni contrattuali dure e scarso riconoscimento, creando un mismach che riguarda entrambi i generi al cospetto del capitale.
Aggiungo, inoltre, che In Italia, ci troviamo a fare i conti con un governo di destra che spinge su retoriche familistiche, colpevolizzando le donne senza garanzie concrete. Stiamo vivendo un momento che prova a riassorbire tutto in un ordine regressivo, economico e politico. In questa fase storica, il rapporto tra lavoro e genere è contraddittorio e paradossale: i confini rigidi e binari perdono senso, ma vengono evocati per tentare di rimettere ordine in un mondo caotico.
CLB: Quando parli di lavoro senza fine io non riesco a non pensare al «debito» nei confronti di quel femminismo marxista della rottura che al centro del discorso mette proprio il lavoro difficilmente quantificabile non salariato. Cosa ne pensi del rapporto fra femminilizzazione del lavoro e riproduzione sociale, e qual è il legame con una bioeconomia che mette i corpi al lavoro in modo continui?
CM: La domanda da cui sono partita era proprio quella. In alcuni anni, in Italia è mancato quel pensiero. Oggi possiamo ricostruire genealogie più precise di quanto fosse possibile allora, e risulta più chiaro il debito verso il femminismo marxista e materialista. Ho intitolato un mio recente intervento «L’arcano del valore»[2], riprendendo una formula di Leopoldina Fortunati. Si parte dal lavoro non visto dell’operaia della casa, dal lavoro ombra, disconosciuto ma necessario a riprodurre la forza-lavoro: creare, dare vita, partorire la forza-lavoro, la «prima pietra» per Silvia Federici.
Grazie a questo filone di riflessioni possiamo immaginare qualcosa che va oltre la riproduzione verso una riproduzione sociale composita. È necessario partire dall’esperienza delle donne, dai loro corpi, dalla povertà di risorse materiali, dai carichi di lavoro pagati e non, e dalla difficoltà di rappresentare nello spazio pubblico conflitti di sesso, classe e senso del produrre e riprodurre. I femminismi hanno messo al centro i corpi: le donne hanno rivendicato autonomia e libertà d’azione e di pensiero. Nel loro pensiero non c’è cesura tra natura e cultura; viceversa, la rimozione del corpo è parte dell’esperienza maschile.
Oggi il lavoro vivo è coinvolto in attività che garantiscono processi di accumulazione, al di là di tempo e salario, proprio nel mezzo di una crisi del lavoro salariato e dello scompaginamento delle categorie di tempo produttivo e improduttivo. La riproduzione sociale oggi si intreccia con tecnologie, reti e dinamiche che restano spesso al di fuori della mediazione salariale.
Il femminismo insegna a indagare i meccanismi che imbrigliano le esistenze umane, molto oltre lavoro produttivo/riproduttivo classico, traducendoli nei processi immersivi della ri-produzione sociale, del biolavoro e della produzione sociale.
L’altro aspetto da notare è che le riflessioni del femminismo marxista degli anni Settanta erano ancorate al movimento per il salario domestico, mentre quelle sulla femminilizzazione alla rivendicazione di un reddito di base incondizionato, un reddito di autodeterminazione. Ci sono differenze anche fra queste due prospettive. Negli anni Settanta la questione in gioco era il riconoscimento del ruolo delle donne nel contesto domestico. Se il salario era la forma in cui la società valorizzava l’operaio, era naturale individuarlo come strumento adeguato a quel livello.
Dai primi anni Novanta al Duemila la precarietà del lavoro ha portato alla crisi del lavoro salariato. Con un lavoro sempre più «senza fine», da un lato c’è chi ha salario, dall’altro chi non riceve nulla, chi ha una forma di remunerazione e chi è quasi completamente espulso dal sistema. La contraddizione contemporanea sta qui. Forme di salario minimo e sostegno al reddito potrebbero sanare, almeno in parte, questa ingiustizia. Perciò, fuori dalla società salariale come siamo, per la classe precaria il reddito è determinante, anche per rafforzarne capacità conflittuale e rivendicativa. Il lavoro non remunerato oggi pesa più che negli anni ‘70. Antonella Picchio stimò il valore del lavoro domestico e di cura intorno al 10% del PIL. Oggi le misurazioni dovrebbero riguardare attività molto più ampie, comprese quelle involontarie, il free labor, e il lavoro povero imposto dalla precarietà. L’accumulazione cresce, la salarizzazione sparisce o diventa minima. Senza un nuovo welfare centrato sul reddito di base, non vedo via d’uscita.
CLB: L’idea di femminilizzazione del lavoro è legata politicamente a quella del reddito di base. Cosa significava questo legame e cosa rimane oggi, secondo te, di quella visione?
CM: Penso che il reddito di base (purché incondizionato) sia uno strumento ancora assolutamente valido. Più ci addentriamo nella violenza di questo capitalismo omnicomprensivo, che Camatte – che cito anche perché è mancato poco tempo fa - definisce «capitale totale», più ci rendiamo conto della forza devastante di questo sistema che si autogoverna. Certo, ci sono resistenze e forme di contrasto, ma non sono siamo in grado, al momento, di produrre le stesse forze di contropotere che in passato hanno sfidato il capitalismo. Il capitale ha imparato a gestire quelle resistenze, proprio perché le ha temute in alcuni momenti. Potremmo far fruttare la riproduzione sociale a modo nostro, per noi e per la comunità. La questione del reddito diventa quindi urgente, da pensare come strumento all'interno di una visione politica più ampia, che implica una rimodulazione dei valori e del significato di esistenza.
Se non affrontiamo questa realtà, rischiamo una depressione collettiva, connessa alla crisi della riproduzione sociale. La pressione neoliberale ci spinge ad abbandonarci, come visto durante la pandemia. La mera sopravvivenza non basta: va ritrovato il piacere della cura dell’altro, azione sovversiva rispetto all’individualismo selettivo e competitivo che il neoliberismo ha accentuato dal 2020. Per questo la battaglia per il reddito di base incondizionato deve tornare al centro, come nei primi anni 2000, quando i precari hanno rivendicato un cambiamento radicale del welfare (Welfare mon amour; Commonfare). Uno stato sociale che applichi davvero l’universalità dei diritti non può prescindere dal reddito.
Penso al caso della fabbrica recuperata GKN e ad altri esperimenti simili: la capacità di autorganizzarsi richiede sostegno al reddito. Così come la capacità di essere conflittuali: se dipendi da lavoro povero, che lotta potrai fare? La variazione antropologica imposta dal lavoro coatto apre la strada alla parte peggiore di noi, all’esplosione della parte maledetta (guerra, autodistruzione). Lo strumento del basic income incondizionato, viene proprio per questo ostacolato in vari modi. Un tempo la classe operaia produceva rivendicazioni chiare, così come i giovani del Sud – pur facendo parte di un territorio non industrializzato. Ma guardare al passato, agli anni Settanta, è malinconico: siamo debitrici di quella storia, ma molto resta da fare. La classe precaria non si è ancora sottratta all’attuale realismo capitalista. Le donne, dalle trasformazioni della riproduzione sociale, avranno un ruolo determinante per immaginare un’economia politica e un ordine valoriale diversi. In questo contesto, il reddito di base incondizionato è centrale: strumento di remunerazione del tempo di vita rubato, mezzo di autodeterminazione e liberazione dal ricatto del bisogno e dell’amore che impone sottomissione.
Oggi, oltre il riconoscimento del lavoro di cura, occorre trovare modi per affrancarci da uno stato complessivo di dominio sull’esistenza. L’essere umano ha sempre cercato questa libertà; sia perdonato ai precari di non aver ancora sciolto il nodo!
Siamo, più che mai, con Simone Weil, alla ricerca di un equilibrio diverso con il mondo, la società e la natura. Vogliamo una libertà ora compromessa dal potere che limita le scelte e mortifica la vita, una libertà che restituisca i nostri bisogni vitali, sempre in armonia con altri esseri umani e non umani:
La libertà autentica non è definita dal rapporto tra desiderio e soddisfazione, ma dal rapporto tra pensiero e azione; sarebbe completamente libero l’uomo le cui azioni procedessero da un giudizio preliminare sul fine e sui mezzi per realizzarlo.[3]
Note
[1] La MayDay Parade è la manifestazione dei precari e delle precarie nata a Milano in occasione del 1 maggio 2001 come forma di autorappresentazione autorganizzata. Si tratta di un corteo alternativo a quello tradizionale, la mattina, organizzato dai sindacati confederali. La MayDay figlierà, negli anni, diverse Parade del lavoro precario anche in altre città europee (EuroMayDay). Durerà fino al 2015. Negli anni centrali, apice di questa esperienza, raccoglierà centinaia di migliaia di partecipanti.
[2] L’arcano del valore in Prospettive sulla cura, Ebook - Prospettive sulla Cura - Effimera
[3] S. Weil, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, Adelphi, Milano 1983, p. 130
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Chiara Luce Breccia dottoranda in filosofia presso l’università di Pisa, collabora con diverse case editrici. Si occupa di femminismi, capitalismo e teorie della riproduzione sociale.
Cristina Morini, giornalista, saggista, ricercatrice indipendente. Fa parte della rete di ricerca, analisi e discussione internazionale «Effimera». È autrice di numerosi testi su donne e lavoro tra cui: La serva serve (DeriveApprodi, 2001), Per amore o per forza (ombre corte, 2010), Vite lavorate (manifestolibri, 2022).








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