Un racconto per immagini
Un mosaico di testi e immagini, per osservarci le cicatrici e celebrare il godimento
del corpo. Ritorna su Vortex la produzione testo-visuale di Elena Giorgiana Mirabelli
(scrittrice) e Effe Erre (fotografa). Fessure (https://www.machina-deriveapprodi.com/ post/fessure) pubblicato a giugno 2021, è stato il loro primo lavoro insieme.
* * *
Cenere, cenere —
Frughi e rimesti.
Carne, ossa, non ci sono resti —
Lady Lazarus, Sylvia Plath
Solletica
Vuoi osservare le mie cicatrici? Solleticare la ferita, riaprirla, infilarci la lingua dentro?
Gli occhi. Gli occhi sono ovunque.
Mi hai guardato e so che hai pensato a me come a una creatura strana, da indagare, da decodificare. Ti hanno insegnato che dietro una macchia, c’è un danno; che se una ferita brucia, la devi curare; che la cura è balsamo, che ciò che è scheggiato e rotto deve essere messo in sesto – ciò che è scomposto è sgradevole, è odioso, puzza, è lercio, è rotto, è povero, è grigio, sa di fieno, di umido, è simile alla casa dei pescatori, con l’odore di morte, con l’odore di sangue; che le case devono essere profumate, con i tappeti morbidi e le tende chiare, che i bagni devono avere le mattonelle bianchissime e le candele, tante candele; che esiste il “buono” e il “sano” e che se l’uno e l’altro mancano allora c’è un problema. Oh, il problema. Molti parlano di problema e di danno. E non c’è altro modo per il danno che trattarlo come polvere, far finta che non esista, e metterlo da parte, in una stanza che non è buia e non è brutta – perché neanche le stanze usate per raddrizzare possono essere brutte – ma è una stanza che non è tua. E ti ficcano lì, e ti nascondono perché così se quegli occhi non ti vedono, poi ti scordano e alla fine, il danno che sei non esiste neanche più.
Ti hanno detto che se ti mostro la pelle, della mia pelle puoi farci quello che vuoi. Credi di poterla sporcare se la sporco io; che puoi inciderla se la incido io; ti hanno detto che quello che vedi è tuo, che tutto ciò che è davanti agli occhi è tuo, ma niente è tuo, solo il tuo corpo, solo il tuo corpo, non il mio, non la mia carne.
Se io voglio, tu puoi osservare; se io voglio, mi scopro; se io voglio: annusa, tocca, mordi. Ma oltre la pelle cosa c’è? Cosa cerchi?
Fruga, rimesta
Fruga, rimesta – ma in fondo alla gola non c’è che carne. Hai cercato la mia storia e non l’hai trovata. L’hai cercata altrove, fra altre gole, fra altri corpi. Fra i documenti che mi hanno descritta. Hai indagato, hai costruito, la tua ricerca si è fermata perché mossa dalla necessità di validazione. Eppure, non hai avuto alcun dubbio su chi avesse scritto quel documento né perché. In quel caso non hai cercato di validare il dato. La fede è un salto in documenti scritti in una lingua che si conosce poco. Credo che sia il timore di sentirsi scoperti, di mostrare all’altro che non si sa, come se il non sapere fosse danno e non semplice possibilità. Tu, allora, per mostrare di essere dalla parte giusta hai accettato quel foglio, quelle frasi che mi definiscono. Definiscono i miei pensieri, le mie voglie. Definiscono me che domani potrei essere altro, che già ora sono altro.
Hai visto una macchia, una cicatrice, hai creduto che fosse dovuta a qualcosa che esiste nella tua testa e nella realtà della tua traduzione, hai cercato lì nel mondo che qualcuno confermasse; ma l’immaginazione non ha bisogno di essere vera o falsa. Non c’è storia fuori. La tua ricerca finisce qui, nello spazio fra i denti, nella gola che emette suoni, nelle vertebre che si piegano, nella voce che prende volume.
La mia anima è sulla lingua.
Sulla mia lingua, sulla tua lingua. È un danno, è il tuo desiderio, è in ogni singola parola.
È in quello spazio sacro che passa fra la tua lingua e la mia, fra la tua carne e la mia, fra le mie parole e il tuo cervello che processa, traduce, comprende.
Percepisci
L’immagine sembra allargarsi e deformarsi. Ho ripreso i biglietti che avevo scritto allora, quando mi trovavo nella stanza dove avevano deciso dovessi stare. Lasciavo segni con le unghie. Non era un codice. Non era un messaggio. Lasciavo dei segni come semplice contatto. Non volevo comunicare stati d’animo, né raccontare la mia versione delle cose. Quei segni erano un modo, l’unico modo per dire eccomi, esisto, ho un corpo. A volte passavo i biglietti attraverso le fessure della parete più estesa, quella dove avevano addossato il letto e dicevano che era grande, la stanza, che era bella, che era pulita. Quando i luoghi non li scegli tu, li accetti, magari, ma non usi per loro aggettivi come “bello” o “pulito”. La descrizione che ne dai è forse più spoglia ma più vicina alla percezione che ne hai: è solo “stanza assegnata”. Quando la lasci non la ricordi se non per dettagli che sono sempre ricorrenti, come se le stanze assegnate fossero tutte uguali, incastrate in una memoria condivisa. Un’unica grande immagine valida ovunque: una finestra, un letto, una porta pesante, delle fessure, delle macchie, un gabinetto.
Lo spazio che non è tuo è pubblico, di solito – letti, lenzuola, l’odore, le chiavi.
Quello spazio è tuo solo in modo transitorio e non puoi trasformarlo, non puoi sporcarlo, non puoi. Paghi se manchi, se sbagli. Hai preso per tuo ciò che tuo non è. Ho pensato che quando sono entrata in quella stanza pubblica è diventato pubblico anche il mio corpo. E potevano curarlo, correggerlo, punirlo, marchiarlo, usarlo. Quando ho superato quella soglia non scelta, ho perso anche il mio corpo. Hanno preso ciò che era mio, e io ho pagato. Ho pagato solo io.
Quando sono arrivata non c’era niente di sacro attorno se non immagini attaccate alle pareti, dietro alle loro spalle. Ho firmato, ho guardato la parete, e la ricordo perché simile a tutte le altre pareti pubbliche, a tutte le altre pareti assegnate – santi, calendari, schemi, mappe, volti, foto, tutto su pareti azzurrine e sporche, perché il pubblico è sempre azzurrino ed è sempre sporco. Almeno per me.
Sono uscita che era primavera. Ricordo il sole, i fiori, le mie mani. Ho preso a fotografare i momenti privati – un viso, un seno, le labbra – e mostrare finalmente che la percezione ha sempre un padrone. Seleziono le informazioni e sono nella tua testa. E non è una stanza piccola, la tua testa. Non ci sono chiavi, non ci sono porte. È il tuo desiderio che viene fuori. E il padrone della tua percezione sono io.
Osserva
Gli occhi non vedono che pezzi di carne? E allora ho deciso di diventare simile al segno negativo che muta la percezione delle cose.
Quando mi hanno permesso di uscire ho mostrato loro che avevo capito. L’ho fatto ripetendo delle frasi, assumendo delle posture, perché quel gioco lì, io, io sì lo conosco: sono come tu mi vuoi, sono come tu mi vuoi.
Ho iniziato a mangiare ciò che volevano io mangiassi, ho iniziato a prendere i balsami e i farmaci, a parlare e a dire, a sorridere, anche. Ho trasformato la mia resistenza in un’arte. Mia madre, un giorno di non so quanti anni fa, mi ha mostrato delle carte, mi ha spiegato i significati, non ha divinato, ha solo mostrato. Ha detto che sarei riuscita nell’opera solo attraverso il nascondimento. E il nascondimento è dare ai vostri occhi che scrutano e frugano, una sola unica possibilità. La cornice. Il perimetro.
Creo dei quadri e ti corrompo. È acqua ciò che vedi? È sangue, sono le mie labbra? Il mio corpo è segnato? Dove sono, ora, mentre guardi quei pezzi che ti concedo?
Gli occhi sono sempre stati ovunque. Anche nello specchio. Soprattutto nelle specchio e fra le mie gambe.
Gli occhi sono sempre stati sulle gambe, sulle braccia, sulle pareti. Mentre il vapore si fa goccia e scende giù per le piastrelle fino al pavimento, le tracce sono occhi, è un occhio ogni singola goccia di acqua, ogni singola goccia di sudore, ogni singola, mia, goccia.
Prima volevo impedire agli occhi di frugare. Ora, a quegli occhi, so cosa dare – la mia bocca, il mento, il seno, il mio desiderio.
Non ci sono resti
Ho ricordato gli occhi sulle pareti e quelli che arrivano dal buio. Come in quel film[*], dove lei spia fuori dalla finestra, verso il buio, è spaventata, fuori c’è la tempesta, il vento, la pioggia e poi vede degli occhi. Sono verdi e tutto attorno è nero. E poi arriva un braccio, e arriva la violenza che le fa attraversare il vetro e il vetro la ferisce. E mentre c’è la violenza, lei gli occhi non li vede più. Perché il male si vergogna di sé? O perché sono gli occhi ad annunciarlo? O semplicemente perché il male la attraversa e quegli occhi diventano i suoi? Ma gli occhi sono ovunque. Anche quando si serrano.
Hanno detto che il corpo è un tempio e il tempio è sacro. Io dico che sacro è il mio tempio quando lo sento; quando ne parlo; quando lo sfioro. Gli occhi che emergono dal buio sono simili al male, ma il mio perimetro è pieno di luce, non ti celo il corpo, te lo mostro.
E allora ti guardo così che tu possa pensare a me come pensi al male. Quello che ti si incastra fra i pensieri e nel ventre, e lo odi perché ne hai paura, perché lo vuoi. Ecco i miei occhi, guardate i miei seni, guardate in fondo alla mia gola e poi pensate: è forse il mio godimento che vi spaventa?
Note [*] Suspiria, scritto da Daria Nicolodi e Dario Argento, diretto da D. Argento (1977).
Immagine di copertina: Roberto Rup Paolini
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