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La parabola del «decisionista imperfetto» (seconda parte)



Ritratto di Bettino Craxi



La seconda parte del ritratto di Bettino Craxi, dalle elezioni dell'aprile 1987 alla conclusione della sua parabola politica. Qui è possibile leggere la prima parte: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-parabola-del-decisionista-imperfetto-prima-parte


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All’indomani delle elezioni dell’aprile 1987, De Mita riscattava la sconfitta precedente (dal 32 passava al 34%), mentre il Psi cresceva dall’11,4 al 14,3%. Uscivano indeboliti i repubblicani e la Lega Lombarda entrava per la prima volta in Parlamento. Il Pci non arrestava il suo declino elettorale scendendo al 26%. Anche lo storico Paul Ginsborg arriva a descrivere il Pci così debole sul piano della prospettiva da non riuscire nemmeno a «rendere credibile la propria opposizione»[1]. Era evidente che il risultato elettorale scaturiva da un accentramento di interesse sulla disputa tra Dc e Psi, e non da una modificazione dei rapporti di forza. Il governo a guida socialista era caduto non per una motivazione programmatica, ma perché i due partiti maggiori della coalizione reclamavano la stessa funzione sistemica. Craxi non dimostrò al termine del suo governo quella «fermezza» reclamata da Miglio, al contrario di fronte all’ennesimo ricatto «partitocratico», anziché spiegare ai cittadini che quel rapporto di «collaborazione-competizione» era ormai esaurito e occorreva dare al sistema politico una diversa funzione, rifiutava ogni soluzione populista o deriva plebiscitaria.

Una consapevolezza della crisi di sistema che trova conferma nelle riflessioni della Dc all’indomani di quel quel voto: «non bastava più una semplice cosmesi del rapporto tra Dc e Pci – afferma Martinazzoli – ma bisognava trovare il coraggio anche per la Dc di andare all’opposizione». E poi, aggiunge il fanfaniano Clelio Darida, il contenimento dell’egemonia socialista non è stato raggiunto, il Pci è «più debole», la maggioranza «meno salda» e senza più un «accordo strategico». A differenza del passato non c’era più la disponibilità del Psi «a stare comunque nelle mura del pentapartito», secondo Marco Follini, che individua le cause dell’afasia democristiana nella «crisi del partito comunista che lasciano presagire un Psi sempre più motivato a porsi nel Paese come un fattore d’alternativa». A giudicare dalle fonti democristiane, tra l’altro, è proprio da Andreotti che parte l’iniziativa di un’opposizione frontale a De Mita, basata sul rifiuto dello scontro nella Dc tra progressisti e conservatori e sulla riaffermazione del suo ruolo centrista[2].

Il «decisionista imperfetto», da parte sua, si sarebbe apertamente convertito al presidenzialismo solo nel 1989. Su questa scelta pesò indubbiamente l’appuntamento delle elezioni europee del 18 giugno. Nella Repubblica popolare cinese, qualche settimana prima, era esplosa la rivolta di Piazza Tienanmen: il rivoltoso sconosciuto che disarmato fronteggia i carri armati a Pechino aveva fatto il giro del mondo e messo una pietra tombale sulla credibilità del comunismo internazionale. I riflessi di quegli eventi sul duello a sinistra sembrarono a Craxi aprire la strada a un possibile riequilibrio, mentre in casa comunista la preoccupazione per quel voto era altissima. Craxi impostava la campagna elettorale sul rifiuto pregiudiziale di ogni neofrontismo ed era uscito allo scoperto sull’elezione diretta del capo dello Stato con la richiesta di un referendum propositivo. Nel corso del congresso socialista dell’Ansaldo (maggio 1989), inoltre, aveva siglato un accordo con Forlani per liquidare De Mita, e costretto la Dc a differire al luglio successivo la crisi che portò alla nascita del sesto governo Andreotti.

Fu dunque in vista di questo duplice appuntamento, il voto europeo e il cambio di governo, che Craxi riprese esplicitamente il tema della riforma del sistema accanto all’ipotesi di uno «sfondamento a sinistra». Anche le manovre per inglobare in una alleanza elettorale radicali e socialdemocratici, che alla fine si opposero al suo proposito annessionistico, inducono a ritenere che egli avesse in mente la costruzione di un’area politica capace di raccogliere almeno il 20%. L’esito di quel voto che viceversa cristallizzava gli equilibri politici del decennio provocò in Craxi un profondo scoramento. Il Psi guadagnò solo lo 0,5%, la Dc calava nei consensi; ma il Pci, che non subiva quel tracollo annunciato, restava, con un patrimonio di voti quasi doppio rispetto ai socialisti, il secondo partito.

Era stato Leopoldo Elia della sinistra Dc, all’inizio del sesto governo Andreotti, a dichiarare che Craxi se aveva un «potere di coalizione», non era comunque «nelle condizioni di realizzare un’alternativa che fosse confacente alle sue impostazioni di tipo mitterandiano», dissociandosi dalla prima parte del programma di governo di Andreotti poiché c’era l’impegno sul referendum propositivo mentre mancava ogni riferimento alla riforma elettorale[3]. L’ipoteca della «sinistra democristiana», quindi, non favoriva certo la possibilità di un’alternativa socialdemocratica, alimentando quel potere d’interdizione cattolico-comunista che impediva alle due componenti della sinistra di trovare una soluzione condivisa alla crisi italiana[4].

Tuttavia il crollo del muro di Berlino, rendendo inevitabile la revisione ideologica nel Pci, induceva Craxi a prendere l’iniziativa incoraggiato dagli annunci di Occhetto che nel novembre del 1989 presentava pubblicamente i contenuti per una svolta nel Pci. Era stato infatti Craxi a prendere l’iniziativa sulle riforme istituzionali, a Pontida nell’aprile 1990, con il rilancio del presidenzialismo bilanciato da un rafforzamento del Parlamento e dei poteri locali, mirando a sciogliere i rapporti a sinistra e contenere la montante protesta leghista[5]. Il 22 marzo, in una nuova assemblea nazionale a Rimini, aveva presentato l’«Unità socialista» come la strada maestra del rapporto con il Pci, facendo affiorare una critica all’azione del governo Andreotti ed esprimendo sul penultimo congresso comunista che si svolgeva a Bologna un parere «interessato, attento, rispettoso ma sospensivo»[6]. Nel maggio anche un «nemico giurato» come Eugenio Scalfari gli offriva le colonne del suo giornale per lanciare la proposta di una «casa comune della sinistra», dove invitava tutte le sue anime a riscoprire la sorgente del socialismo liberale, e affermava che la persistenza del regime centrista era strettamente collegata all’ormai anacronistico «duello a sinistra»[7].

Craxi, quindi, esce allo scoperto nei rapporti con i comunisti, e chiede un’intesa che superi finalmente il bipartitismo imperfetto. In cambio, chiede chiarezza sui principi e soprattutto tempestività nella svolta[8]. In realtà, mentre la fine del comunismo sembra aprire nuove strade alla sinistra, approfittando di una linea diplomatica vaticana che allenta il vincolo della Chiesa con la Dc – quasi un ritorno alla linea Tardini -, il «cattolicesimo democratico» dimostra una tempistica singolare nel riscoprire tutto il fascino della rottura: una prospettiva sempre latente nel mondo cattolico che viene riproposta ora soprattutto in relazione alla riforma elettorale proposta da Segni, come sponda non solo per la sinistra democristiana in rotta di collisione con Forlani ma anche come «carburante politico» per il «Pci-Pds» di Occhetto[9].

Pietro Scoppola, oltre a promuovere le firme per i referendum, era alla testa degli oppositori alla proposta presidenzialista di Craxi: «Un candidato alla presidenza eletto dal popolo, chiunque esso sia, democratico cristiano o socialista, non sarebbe creato da grandi e forti esperienze storiche, come quelle della Francia degli anni Quaranta e Cinquanta, ma sarebbe semplicemente il prodotto della politica spettacolo». Scoppola bacchetta anche chi nel Pci, come Augusto Barbera, apre un dialogo sulle proposte socialiste, e non trascura di esprimere un giudizio positivo sulla svolta comunista che a suo dire Craxi vorrebbe sabotare[10]. Serve a poco la replica di Giuseppe Tamburrano che esortava a evitare ogni «confusione», nel momento in cui stava nascendo uno schieramento ampio su una proposta unificante liberal-socialista, e su una riforma presidenziale che annoverava tra i suoi sostenitori «democratici a 24 carati come Calamandrei, Lombardi, Valiani, Cianca, Foa, Codignola, Schiavetti»[11]. Era stato Gianfranco Pasquino, in quei giorni, a richiamare i rischi che la ricerca di un accordo producesse esiti istituzionali dannosi per una coalizione di sinistra intenzionata a governare[12]. «Proponendo una sorta di elezione diretta del Primo ministro, come moneta di scambio per la non elezione diretta del Presidente della Repubblica», scriveva il senatore della sinistra indipendente, il Pci era andato incontro ad alcune richieste del Psi, come la personalizzazione della politica». Secondo Pasquino, i comunisti per uscire dall’isolamento (il riferimento era alla proposta di Augusto Barbera) si erano spinti avanti con le concessioni, ma i socialisti dopo aver riconosciuto la necessità di qualche contrappeso alla repubblica presidenziale (il riferimento era al «temperamento» che avrebbe garantito la proposta di sviluppo delle autonomie locali, fatta dal Psi a Pontida) si erano rifiutati di affrontare due passaggi fondamentali: la riforma del sistema locale e quello per eleggere il Parlamento. E aggiungeva che non erano più «credibili» poiché indugiavano «in attesa dello sfondamento presidenzialista che aprirebbe la porta a chi sa quale panacea politico-istituzionale». La proposta del politologo era molto semplice. Scegliere fra coalizioni alternative, superare il proporzionalismo e formare un governo di legislatura. Ma Pasquino trascura di spiegare che dietro al progetto di Segni c’era anche la volontà di spezzare una volta per tutte quel potere di coalizione che aveva permesso a Craxi di fondare la sua centralità, e che nelle elezioni amministrative di quell’anno stavano fiorendo giunte anomale tra democristiani e comunisti un po’ ovunque[13]. La presa di posizione di Occhetto, in realtà, chiariva quella linea complessiva sulle riforme che Pasquino reclamava per ottenere l’appoggio comunista ai referendum elettorali. Il segretario del Pds chiarì che pur cercando un confronto con le proposte istituzionali di Craxi, il partito dopo il congresso di Bologna era fermo «su di un assetto istituzionale fondato, prima di tutto, su di un diverso sistema elettorale capace di responsabilizzare elettori ed eletti». Occhetto, quindi, esce dall’ambiguità sui referendum elettorali, e apre a quelle che erano state le proposte di molti cattolici democratici, a cominciare da Scoppola. E afferma anche che il presidenzialismo nella situazione italiana non era «il passaggio obbligato per costruire una democrazia dell’alternanza»[14].

In questo contesto mentre i partiti sono impegnati a discutere se fare o non fare le riforme istituzionali, si inserisce un nuovo attore: il presidente della Repubblica dopo un «silenzio» durato anni assume su di sé la responsabilità della crisi delle istituzioni e inaugura un ciclo di «pesanti» esternazioni. Francesco Cossiga sembra comprendere prima di tutti che il crollo del Muro avrebbe portato insieme alla disgregazione dell’Unione Sovietica anche la fine della logica di Yalta, e alla conclusione anche in Italia di un’epoca storica segnata dalla «democrazia consociativa». Egli invita i partiti a non «galleggiare nella crisi», e a portare bensì a compimento un cambiamento istituzionale che desse al «popolo», come in tutte le democrazie occidentali, la possibilità di pronunciarsi sulla forma di governo più adatta.

Cossiga già nel messaggio di fine anno del 1987, aveva sottolineato il distacco tra paese reale e governanti, dando rilievo al fatto che senza un cambiamento dei partiti ogni ipotesi di riforma era velleitaria. I socialisti all’epoca giudicarono il messaggio condivisibile, rimarcando polemicamente però che stato Craxi, già otto anni prima nel 1979, a muovere una critica severa alla partitocrazia. Nel corso di una trasferta inglese nell’ottobre del 1990, rilasciò al quotidiano londinese «The Indipendent» alcune dichiarazioni favorevoli alla svolta in corso nel partito comunista italiano: si pronunciò in merito alla possibilità di superare i limiti del sistema politico anche attraverso il contributo dell’unificazione socialista, dal momento che la fine del «fattore K» rendeva ormai possibile un’alternativa di sinistra, contribuendo così alla realizzazione di quel sistema d’alternanza, che era poi il segno distintivo di ogni democrazia matura. Nella vecchia sede dell’Ansaldo a Milano, durante la celebrazione del 1 maggio del 1991, davanti ai leader sindacali, a Craxi e Occhetto, richiamandosi al vento di libertà che soffiava dall’Est parlò poi della necessità di una ricomposizione storica nel corpo della nazione della classe operaia. C’era un’eco in queste parole, in queste esternazioni, come ha sottolineato Piero Craveri, di una chiara propensione alternativistica[15].

Con quegli interventi Cossiga non solo offrì a Craxi una chiara sponda istituzionale per una eventuale «chiamata al popolo», ma cominciò a rendere pubbliche molte di quelle riflessioni che erano in «ebollizione» tra gli intellettuali socialisti, e che erano spesso chiuse nei cassetti[16]. Craxi del resto aveva ora l’opportunità di essere il protagonista di una riforma istituzionale che diventava improvvisamente possibile. D’altra parte questa intesa di fondo con il Quirinale si doveva anche agli sforzi di collegamento fra il segretario socialista e la presidenza della Repubblica compiuti da Giuliano Amato. Claudio Martelli, ha ricordato che Cossiga immaginava di farsi prolungare il mandato per due anni per realizzare la riforma semipresidenziale, impegnandosi a non ricandidarsi e a guidare la transizione alla «seconda repubblica»[17].

Ma come sarebbe emerso con chiarezza nei mesi successivi, fu proprio l’indecisione di Craxi a prevalere. Il «decisionista imperfetto» reagì alle esternazioni sollecitando dapprima un referendum propositivo sulla repubblica presidenziale per poi «rintanarsi» nella logica del Caf in attesa che le elezioni del ’92 gli riconsegnassero le chiavi del governo. Pesarono su questa scelta sicuramente le reazioni negative di tutto il sistema politico alle esternazioni presidenziali. Dalla fine del 1990 e poi per tutto l’anno successivo, Cossiga fu bersagliato da strali polemici che culminarono al termine della legislatura nella richiesta di impeachment avanzata dal Pds.

Per Eugenio Scalfari, per esempio, il capo dello Stato «aveva mostrato i muscoli e si era messo gli stivali di Bettino Craxi» prendendo a «spallate» lo Stato per sostituire al parlamento il plebiscito, «un pericolo che ricordava da vicino quanto avvenne nel 1922»[18]. Mentre per Giovanni Galloni, all’epoca vicepresidente del Csm, Cossiga approverebbe un progetto di rinnovamento delle istituzioni ad alto rischio di degenerazione plebiscitaria che porterebbe a soluzioni cilene o colombiane, stravolgendo «l’architettura istituzionale varata alla Costituente» se «avvenisse il passaggio alla seconda repubblica»[19]. Proprio Galloni, ha ricordato recentemente che aveva rimproverato a Cossiga la sua conversione al modello francese di Repubblica presidenziale anche per gli effetti che ne sarebbero scaturiti di ridimensionamento del potere dei magistrati rispetto al potere politico[20]. E Baget Bozzo ricordando che «su questa base Cossiga riteneva di dare valore sostanziale, di indirizzo e di contenuto, alla sua presidenza del Consiglio superiore della magistratura», confermava l’intuizione di Cossiga in merito al ruolo determinante che avrebbero assunto i giudici con Mani pulite: «Egli ha avvertito che, nonostante il referendum sulla responsabilità della magistratura, i giudici stanno diventando il reale potere istituzionale»[21].

Craxi, però, non solo sembrò non accorgersene, ma rifiutò di cogliere l’ultima occasione che gli veniva servita su un piatto d’argento. Il governo Andreotti alla fine di marzo entrò in fibrillazione. Come ricorda Lagorio, «la sinistra Dc si era ribellata al premier, Cossiga in diretta televisiva aveva aperto il fuoco sull’intero sistema politico ed era stato violentemente attaccato da molte parti, soprattutto dall’establishment antipatizzante del quadro politico esistente»[22]. La crisi che si consumò alla fine di marzo, e che portò a un reincarico ad Andreotti il 5 aprile, aveva rivelato che la vera materia del contendere erano proprio le procedure parlamentari per rendere possibili le riforme costituzionali. I contenuti del messaggio che Cossiga inviò alle Camere, il 26 giugno 1991, dove sollecitava d’autorità ad aprire una fase costituente nel paese erano già noti. L’elemento più significativo del messaggio, secondo Baget Bozzo, «era la ripresa di una proposta di Mino Martinazzoli, cioè l’elezione di un’assemblea costituente, eletta dopo un referendum popolare», che avrebbe determinato «o la cancellazione dell’articolo 138 della Costituzione o una rottura della legalità istituzionale»[23].

Craxi inizialmente aveva lasciato intendere durante la crisi che la legislatura poteva concludersi; poi aveva ripreso a dialogare con la Dc. Egli, persuaso forse di avere ancora dei margini per concordare i tempi della sua «grande riforma», non volle trasformarsi in un «capopopolo», e rinunciava all’ultima occasione che gli presentava quello scorcio di legislatura per presentarsi davanti ai cittadini con la richiesta della costituente. Il governo Andreotti andava infatti avanti con l’impegno di tutti i partiti (e col consenso anche del Pds) ad affrontare nei mesi successivi la modifica dell’articolo 138 (vale a dire l’impianto giuridico che, con una formula giornalistica, era stato ribattezzato il «catenaccio antiriforma») che prevede complesse procedure per cambiare sia la Costituzione che le leggi costituzionali[24].

Ma nel corso delle settimane che precedettero la discussione in aula sui contenuti del messaggio presidenziale giungeva a scadenza l’unico dei tre referendum che la Corte costituzionale aveva accettato, quello sulla eliminazione delle preferenze multiple. In casa socialista prevalse la convinzione che il risultato sarebbe stato scontato visto che anche nella Dc erano in pochi a sostenere l’iniziativa di Segni[25] e l’ultimo referendum non aveva raggiunto il quorum necessario l’anno precedente. Non c’è da stupirsi, quindi, che l’invito di Craxi ad andare al mare piuttosto che alle urne (esprimendosi per un «no» rafforzato con l’astensione), di fronte al fatto che la soglia del 50% venne abbondantemente superata (62%) e quasi la totalità dei cittadini si pronunciò per l’abrogazione della preferenza multipla, trasformasse d’incanto il segretario socialista nell’icona più odiosa del sistema partitocratico.

Il risultato referendario aveva riaperto tutti i giochi all’interno dei partiti mentre il leader socialista diventava il nemico principale del rinnovamento e del cambiamento istituzionale. Il giorno del dibattito in Parlamento l’opinione pubblica gli aveva ormai già voltato le spalle. E a voltargli le spalle c’era anche Oscar Luigi Scalfaro, il suo vecchio ministro dell’Interno che in aula definì «ardito e pericoloso» per la democrazia il comportamento di Cossiga, schierandosi a difesa del Parlamento contro l’utilizzo «generico ed enfatico» della sovranità popolare. A quelle prese di posizione si univa anche il capogruppo del Pds alla Camera Giulio Quercini, che intravedeva nella Dc le condizioni minime per un accordo sulla riforma elettorale, mentre l’interlocutore naturale per una prospettiva di sinistra, il Psi, veniva considerato ormai «fuori» dal gioco politico. Quel dibattito portava allo scoperto l’isolamento di Craxi. Alla Camera Forlani e Gava rispettivamente segretario e capogruppo della Dc, prendevano una posizione netta contro la grande riforma, schierandosi a difesa della Repubblica parlamentare e delle proposte elaborate dal proprio partito[26]. Queste proposte, secondo Forlani, non incidevano sul «carattere parlamentare dell’ordinamento», ma lo rafforzavano. E di fronte alle richieste di modifica della Costituzione avanzate da Cossiga, affermava, con poco preveggenza: «Non siamo all’anno zero e dunque non siamo chiamati a ridefinire le fondamenta dello Stato. Esse esistono e si sono dimostrate di grande solidità».

Trovava così conclusione la parabola del «decisionista imperfetto», ormai isolato mentre attorno al suo vecchio ministro dell’interno si raccoglieva un’opposizione trasversale. Lo sottolineava, in un articolo rivelatore del clima dell’epoca, Marcello Sorgi: «Si è capito così che se il nucleo fondatore del partito della prima repubblica è il vecchio club degli “obiettori di coscienza”, contrari senza eccezioni a tutte le riforme decise nel corso della legislatura (dall’introduzione del voto palese in parlamento alla regolamentazione dell’etere TV), su una materia assai delicata, come quella delle riforme istituzionali, lo schieramento degli oppositori è destinato ad allargarsi». Senonchè oltre al «ventre molle democristiamo, spaventato dall’avventura di qualunque riforma, si univa almeno negli applausi, il vecchio cuore comunista (non solo quello di Rifondazione) che vedeva nella legittimazione del Msi e nella fine dell’arco costituzionale e dell’era del consociativismo proclamate da Cossiga il rischio di una propria brusca esclusione dalla sede vera e nascosta di ogni contrattazione e decisione»[27].



Note [1] P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Torino 2006, p. 570 [2] Archivio storico dell’Istituto Luigi Sturzo (d’ora in poi ASILS), Fondo Dc, Consiglio nazionale (CN), Sc. 72, fasc. 181 (verbale del CN del 15, 16 e 17 settembre 1987). [3] Sui riflessi di “politica interna” di quel voto si veda L. Bardi, Le terze elezioni del Parlamento europeo. Un voto per l’Italia o un voto per l’Europa? in Politica in Italia:i fatti dell’anno e le interpretazioni. Edizione 1990, a cura di R. Catanzaro e F. Sabetti, Bologna 1990, pp. 134-166. [4] Era stato Giuliano Amato nel pieno del contrasto tra referendari e presidenzialisti a individuare nelle comuni pregiudiziali antimoderne della sinistra democristiana e dei comunisti il limite per l’avanzamento della proposta craxiana: Sinistra Dc e comunisti: che cosa li unisce? Tavola rotonda con G. Amato, L. Colletti, M. L. Salvadori, L. Colletti, U. Intini, P. Franchi, M. Sorgi in «Avanti!», 10 ottobre 1990. [5] L. Coen, Craxi detta il decalogo di Pontida, in «La Repubblica», 4-5 marzo 1990. [6] S. Bonsanti, Craxi al Pci: Ecco le mie condizioni, in «La Repubblica», 23 marzo 1990. [7] E. Scalfari, «Ritorna a casa, PCI», intervista a Bettino Craxi, in «La Repubblica», 4 maggio 1990. [8] Una conferma si trova nelle agende del senatore socialista Fabio Fabbri, che il 3 gennaio 1991, durante una riunione di segreteria aveva trascritto le seguenti affermazioni di Craxi: «Perché non vogliono chiamarsi socialisti, i comunisti? Perché non vogliono fare una vera e grande conversione? Siamo all’ultimo stadio della diversità da noi; vogliono mantenere le mani libere nei confronti dei socialisti. Prima si fa l’unità socialista, poi si fa un’unità più ampia. Se non si realizza questa unità organica, i comunisti gridano “Viva l’alternativa”, poi vanno con la Democrazia Cristiana. Si chiamino socialisti e il giorno dopo gli chiederemo un incontro, più di così non possiamo dargli». E aggiungeva la richiesta di una prova («chiedo loro di darsi l’identità del socialismo europeo») e una prospettiva («il Pds lo chiamino partito democratico socialista»). Cfr. l’intervista di Fabio Fabbri, in AA. VV., Il crollo. Il Psi nella crisi della prima repubblica, a cura di G. Acquaviva e L. Covatta, Venezia 2012, pp. 547-572. [9] Sulla ripresa di iniziativa del «cattolicesimo democratico», cfr. Pietro Scoppola, Quanti partiti per i cattolici?, in «Micromega», 2, 1990; Id., Il forum dei cattolici democratici tra la Dc e la cosa, in «Appunti di cultura e politica», maggio 1990; P. Giammaroni, Cattolici democratici alla ricerca di un ruolo, in «Rocca», 1 luglio 1990. [10] P. Scoppola, Gollismo all’italiana, in «La Repubblica», 4 aprile 1990. [11] G. Tamburrano, Presidente alla francese, in «La Repubblica», 7 aprile 1990. [12] Quella appena richiamata – che si appunta sugli aspetti istituzionali della crisi italiana e che chiama in causa soprattutto la sinistra – è una discussione, stimolata da un articolo di Angelo Panebianco sui guasti della partitocrazia (Lo Stato della svolta improbabile, in «Corriere della Sera», 28 marzo 1990) e a partire dal quale si svilupperà un ampio dibattito destinato a durare alcune settimane e ad essere ripreso più volte nei mesi successivi. Si veda a titolo d’esempio P. Flores D’Arcais, La riforma dei partiti, in «La Repubblica», 3 aprile 1990; E. Colombo, Una Dc subalterna, in La Repubblica, 8 aprile 1990; G. Baget Bozzo, La lezione di Don Sturzo, in «La Repubblica», 13 aprile 1990; A. Barbera, Lettere, in «La Repubblica, 14 aprile 1990. [13] G. Pasquino, Se Pci e socialisti si danno la mano, in «La Repubblica», 12 aprile 1990. [14] A. Occhetto, Facciamo subito la riforma elettorale, in «La Repubblica», 5 aprile 1990. [15] P. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, in Storia d’Italia, Vol. XXIV, Torino 1995, p. 984. [16] Significativo che nel 1990 Luciano Cavalli, su «Mondoperaio», aveva aperto un dibattito sulla repubblica presidenziale con i saggi pubblicati nei numeri di ottobre e di novembre (La democrazia con un leader e La repubblica presidenziale in Italia). Erano intervenuti sul tema Antonio Landolfi e Massimo Severo Gianni nel numero di gennaio del 1991, Giuliano Amato, Mario Patrono e Cesare Pinelli in quello di febbraio; Antonio Maccanico e Leo Valiani nel numero di Aprile. Nel numero di giugno e luglio intervenivano Domenico Fisichella e Cesare Pinelli. Il dibattito si chiudeva con il contributo di Cristiano L. Kustermann nel numero di agosto-settembre del 1991. [17] Su questo punto si veda l’intervista a Claudio Martelli, in AA. VV., Il crollo. Il Psi nella crisi della prima repubblica, cit., pp. 277-278. [18] E. Scalfari, Gli stivaloni del presidente, in «La Repubblica», 27 marzo 1991. [19] G. Galloni, La ricetta presidenzialista porta a svolte autoritarie, in «Terza Fase», n.1, 1991. [20] Galloni ricorda che deplorò la mossa di Craxi di aver rimpiazzato Giuliano Vassalli al ministero della Giustizia con Martelli. E contestualmente che il Capo dello Stato avesse «sostituito come suo massimo collaboratore alla presidenza della Repubblica Antonio Maccanico, nominato dal suo predecessore Sandro Pertini, con un suo parente sardo proveniente dal corpo diplomatico, certo Sergio Berlinguer che aveva le sue stesse idee sulla repubblica presidenziale», cfr. G. Galloni, Da Cossiga a Scalfaro, Roma 2011, pp. 29-54. [21] G. Baget Bozzo, Cattolici e democristiani, Milano 1994, p.122. [22] L. Lagorio, L’esplosione. Storia della disgregazione del PSI, Firenze 2004, p. 56. [23] Baget Bozzo, Cattolici e democristiani, cit., p. 123. [24] Secondo alcune indiscrezioni giornalistiche i partiti avevano concordato oltre all’organigramma del nuovo governo che sarebbe uscito dalle urne anche l’impegno a realizzare alcuni punti della riforma in cantiere: la modifica del bicameralismo, il rafforzamento dell’autonomia regionale, una miniriforma per bloccare il referendum sulle preferenze. Cfr. A. Rapisarda, Tempi brevi per l’Andreotti numero sette, «La Stampa», 6 aprile 1991. [25] Nella Dc erano critici con il referendum promosso da Segni oltre a Gava, Forlani e Lega anche De Mita, Mancino e altri leader meridionali. Martinazzoli, Granelli e Galloni assieme a Formigoni e Cl invece lo caldeggiavano. [26] Il sistema elettorale proposto dalla Dc combinava l’indirizzo maggioritario con la tutela di una parte del proporzionale. Per il Senato si proponeva di adeguare i collegi elettorali al numero dei senatori, che andavano ridotti anche alla Camera con la riduzione delle preferenze, mentre sulla questione della governabilità si proponevano incentivi ad aggregazioni e coalizioni. [27] M. Sorgi, Andreotti dietro le quinte, in «La Stampa», 24 luglio 1991.

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