Margherita da Trento, sorella, eretica, rivoluzionaria: un ritratto contro l'oscurantismo
- Fabrizio Bozzetti
- 18 giu
- Tempo di lettura: 14 min
Aggiornamento: 30 giu

Fabrizio Bozzetti firma un ritratto potente di una delle più importanti figure della tradizione eretica italiana, Margherita da Trento. Viene sottolineata l'originalità della sua figura, la visione radicale e raccontata la sua storia, la sfida che insieme a Fra Dolcino e al movimento degli Apostolici lanciò alla Chiesa.
Tutti elementi che sono alla base del romanzo scritto dall'autore, Margherita dei ribelli. Sorella, eretica, rivoluzionaria (DeriveApprodi, 2025), un'opera che riscrive la memoria di un'eredità rimossa.
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Dipingere un ritratto al buio, cercando di intuire a istinto profili e contorni resi incerti, più che dal passaggio di oltre sette secoli, dalla precisa volontà di tanti potenti che hanno mirato a indebolirli, confonderli, sfigurarli. Si può avvertire questa sensazione, tentando di dare oggi volto e voce a Margherita da Trento, secondo alcuni discendente della casata dei Boninsegna, da molti detta la Bella, dall’Inquisizione condannata a una morte atroce nel 1307.
Di lei assai poco sappiamo con certezza – e pure quel poco arriva come mero riflesso dei verbali processuali, delle maldicenze di chi la sospettò, delle accuse di chi la catturò e giudicò. Una biografia interamente di controparte, tutta scolpita nel fango, sagomata dalle ingiurie che le furono scagliate addosso come pietre. Tra i capi d’imputazione, l’aver creato una comunità improntata a uguaglianza, parità e libero amore, un’oasi dal respiro mai registrato prima, quasi un frammento di futuro piombato come un’astronave in pieno Medioevo, un paradiso che davvero prese forma concreta sebbene moltissimi, ancora oggi, non ne abbiamo mai sentito parlare – e non per caso. E poi, l’esser stata demoniaca tentatrice, lasciva concubina del più temuto predicatore dell’epoca, quel fra Dolcino che Dante collocò anzitempo all’inferno, accollandosi la fatica di una delle sue profezie post-eventum pur d’includerlo nella Commedia, unico eretico suo contemporaneo che si degnò di nominare. Colpe tanto orrende, specie per una donna di quell’epoca, da giustificare la cortina di censura, rimozione e silenzio che su Margherita calò. Badilate e badilate di calce, come si usava allora per fermare le pandemie, per soffocare le pestilenze.
Eppure, nonostante tutto questo, ciò che di vitale continua ad avvampare sotto la distesa opaca della cancellazione con cui hanno provato a disperdere di lei ogni ricordo è così intenso che è difficile resistervi, appena si ha la fortuna di scorgerne una traccia, un guizzo rosso che si ostina ad aprire inaspettati orizzonti. È quel richiamo a sussurrare raffiche di domande a chi si avvicina al mistero di Margherita: perché le alte gerarchie hanno avvertito tanto pericolosa la sua figura da doverne dannare persino la memoria, disperdendone ogni parola e traccia? Perché si sono tanto impegnate nel tentativo di consegnarla a un eterno silenzio? Come è possibile che una rivoluzione con la portata di quella che la vide protagonista, tanto in anticipo sui tempi da risultare quasi incredibile, sia stata rimossa dalla percezione comune, al punto che oggi poco si sa di Dolcino e pochissimo di Margherita persino nelle regioni in cui vissero, figuriamoci lontano da quei confini? A chi faceva paura quella fanciulla – e perché?
E poi, prima ancora: come aveva potuto dar vita a una visione libertaria così radicale nel primo Trecento? Come è riuscito il suo grido, nonostante l’acrimonia di tanti accanitissimi oppositori, a perforare il muro della mistificazione, la coltre dell’ipocrisia, l’imbiancamento dei sepolcri, la nera schiena del tempo, tanto da esserne giunto l’eco – seppur flebile – fino ad alcuni di noi?
In breve: chi era davvero Margherita?
Diverse testimonianze la tratteggiano di sangue aristocratico, nata qualche decennio dopo la metà del Duecento nei pressi di Trento, forse ad Arco. La mia Margherita – ossia, la protagonista di Margherita dei ribelli. Sorella, eretica, rivoluzionaria, romanzo da poco edito da DeriveApprodi – prende le mosse da tali suggestioni. Ha appena compiuto diciassette anni quando, nel 1302, suo fratello minore Tebaldo (che nelle dichiarazioni agli inquisitori del 1332 giurerà lei gli abbia rovinato la vita) la chiude in un monastero. Il motivo è semplice: la fanciulla insiste nel rifiutarsi di sposare il pretendente da lui scelto dopo la morte del padre.
Margherita non nasce, tuttavia, ribelle.
Fino alla clausura, non lo è. E se contrasta Tebaldo, non è certo per contestare l’istituzione matrimoniale in sé né, tantomeno, ciò che oggi definiremmo potere patriarcale. Non sta, insomma, commettendo alcun anacronismo. Anzi, si sarebbe con pacatezza allineata alla volontà del genitore di mandarla in sposa a una figura nobiliare di rilievo, come egli aveva lungamente pianificato, salvo morire d’improvviso giusto a un soffio dal coronamento del progetto, finito così in fumo. Semplicemente, Margherita trova sciocca e frettolosa la decisione di Tebaldo – quindicenne e, per la legge del tempo, padrone legale del destino della sorella – d’ammogliarla al primo che offra il minimo della dote.
È, questo, parte delle fonti? No, è invenzione letteraria, è narrativa. Germogliata però, come il romanzo tutto, sui precisi brandelli e monconi che dal passato ancora affiorano a dispetto della cancellazione. Oltre che gioco d’immaginazione, è tentativo d’offrire una spiegazione coerente rispetto alle domande suscitate da tutto ciò che capiterà poi a Margherita, rimozione collettiva compresa. E, anche, espressione del mio desiderio di non far di lei una creatura eccezionale per mero accidente, un modello inarrivabile, qualcuno baciato in fasce dal misterioso dono di un coraggio e di una visione (anche politica) in anticipo di intere epoche, una geniale eroina. La Margherita che s’annoia nella clausura trentina non è nulla di questo. È solo un’orfana che non ha più certezza di niente, se non del fatto che non intende piegarsi alla stupidità di un fratello miope, ingordo ed egoista.
Ciò che muove questo ritratto di Margherita è la volontà di affermare qualcosa in cui ho sentito lo slancio di lei incredibilmente vicino, attraverso i secoli: che non serva nascere maestri per contribuire a una rivoluzione. Al contrario, la Margherita del romanzo è dimostrazione che ciascuno può, a un dato momento della vita, trovare la forza e la lucidità per aprire gli occhi, cambiare, agire. Anche una giovane dapprima confusa e imprigionata come lei, capace però di restare abbastanza vitale e ottimista da cercare una via di fuga, una qualsiasi maglia rotta nella rete che le permetta di sgusciare verso un mondo diverso e più libero, uno spazio che tutti le ripetono esserle precluso.
Il suo lasciapassare si chiama Francesca. È una viandante dai capelli grigi che fa fugace capolino alla porta del monastero. Diverrà il classico mentore, il traghetto verso un altrove, verso la congrega in cui Margherita, scappando dalle mura sorvegliate dalla badessa, finisce per trovarsi coinvolta.
Ci arriva del tutto ignara del motivo che ha portato tanti popolani a vestirsi di grigie e umilissime tonache e aggregarsi in un perenne cammino, ignara persino del nome di chi ne guida la schiera, un quarantenne dalla folta barba incolta e dai lunghi capelli corvini che le si para d’improvviso davanti, imponente e riverito. Sulle prime a lei sembra una minaccia, un pericolo incombente, pure quando cerca di salvare Francesca dal rogo ove i soldati clericali la stanno trascinando. Chi è?
Ne scoprirà il nome quando i trentini radunati per l’esecuzione se lo passeranno di bocca in bocca. È Davide Tornielli da Novara, anche se ormai tutti da anni lo chiamano fra Dolcino – «fra» come fratello e non come «frate», giacché egli mai prese ordine alcuno. È quello stesso Dolcino di cui scriveranno, dopo l’Alighieri, pure autori come Dario Fo e Umberto Eco, rispettivamente in Mistero Buffo e Il nome della rosa – opere straordinarie in cui, però, il predicatore piemontese sarà solo un personaggio tra i tanti e Margherita resterà ancor più sullo sfondo.
Già in quel 1303 Dolcino è personaggio noto, ma quasi nulla di vero la fanciulla sa sul suo conto, quando posa gli occhi chiari in quelli scurissimi di lui. Cresciuta nel rispetto delle gerarchie e dei valori nobiliari, deve vedere nel Tornielli giusto ciò che la propaganda ecclesiastica ha raccontato, l’etichetta che gli è stata cucita addosso: un peccatore mosso da superbia, spinto dai più bassi istinti e posseduto dal demonio, il più empio dei falsi profeti.
Per Margherita, lui e l’accolita che lo attornia sembrano dunque dapprima incomprensibili, criminali e folli. Solo col passare dei giorni la giovane – rimasta sola dopo che Francesca è stata giustiziata, nonché costretta, per non farsi riacciuffare dal fratello che la bracca, ad accettare di condividere il cammino con Dolcino e i suoi – arriva poco a poco a comprendere le ragioni del predicatore e di chi gli presta fede.
Aprirsi al dialogo, accogliere il cambiamento, porsi in discussione: attitudini e qualità che non possono essere espunte da nessun attendibile tentativo di ricostruire la figura di Margherita. Doti umili, meno visibili dell’eroismo di cui talvolta si ammantano, a torto o a ragione, i grandi protagonisti della Storia. Neppure il coraggio, comunque, dev’esserle mancato, dato che ha osato abbandonare un ruolo da protagonista in una gabbia dorata per lanciarsi in una guerra nella quale avrebbe potuto rimanere anche solo una comparsa – una guerra, oltretutto, contro un avversario che dominava ogni mente, serrava in pugno ogni cuore, dettava ogni verità, dogmi che comportavano la morte per chi osava contraddirli. A dispetto di tutto ciò, non si è lasciata frenare dai condizionamenti, ha agito, è uscita allo scoperto, si è messa in gioco. Una volta percepito l’idealismo del Tornielli, deve aver iniziato a farlo dialogare con il proprio, quello che stava man mano a scoprire in sé, al suono dei primi «no».
Possiamo intuirlo anche perché, prima di lei, è arduo trovare tracce di un apporto fondamentale da parte di donne al pensiero del movimento dolciniano. Eppure, alcuni mesi dopo averla incontrata, Dolcino la citerà, a giudizio unanime delle testimonianze conservate, quale «sorella dilettissima», nominandola per prima in una lunga lista di seguaci che apre una lettera rivolta a tutta la cristianità, una sorta di testamento spirituale.
È lecito, dunque, supporre che nell’arco di quel breve lasso di tempo Margherita sia cambiata ancora, riuscendo a liberarsi dei pregiudizi inculcati in lei sin dall’infanzia e arrivando a meritare quel ruolo. È possibile – e anzi quasi necessario – immaginare, alla luce dei risvolti sociali e politici della predicazione dolciniana, che sia riuscita a strapparsi di dosso i paraocchi costituiti dagli artifici retorici che rendevano, nella percezione aristocratica, le disuguaglianze su cui si fondava la società medievale giuste e persino necessarie, volute da Iddio stesso. Ma questo non basta: foss’anche accaduto, sarebbe stata, Margherita, solo una delle molte seguaci di cui resta traccia nelle trascrizioni dei processi. Cosa le ha permesso d’essere citata proprio in cima alla lista, anteposta persino a fratelli di lunghissima data, sodali del Tornielli sin dalle origini del movimento? Cosa poteva avere Margherita che al resto del seguito di Dolcino mancava?
Di nuovo, una risposta che rimandi a doti sovraumane o a talento innato rischierebbe di risultare semplicistica e superficiale. Né avrebbe senso ridurre il tutto all’etichetta con cui Bernardo Gui, vescovo domenicano già famoso ai suoi tempi, prima che come personaggio del citato Il nome della rosa, quale autore del Practica officii inquisitionis hereticae pravitatis – vale a dire il primo manuale operativo per inquisitori – provò a liquidarla: amante di Dolcino e addirittura incinta di lui, fuori dal sacro vincolo del matrimonio e in spregio a ogni regola! Un’invenzione del tutto priva di fondamenti per quanto concerne la fantomatica gravidanza e mirata solo a screditare la Boninsegna. Una malevola propaganda cui qualcuno, pure in epoche recenti, ha voluto abboccare persino al costo di ridurre implicitamente Margherita – in modo anche un po’ anacronistico – al rango di un’arrivista disposta a tutto pur di far carriera.
Eppure, basterebbe osservare con un minimo di attenzione il movimento che Dolcino si era ritrovato a guidare per comprendere l’assurdità di questo pettegolezzo. Pratiche che la Chiesa bollava come promiscue erano accettate e diffuse tra i dolciniani (che però non si definivano tali, bensì semplicemente «apostoli») già da decenni. Anzi, il maestro di Dolcino, Gherardo Segarelli, non si era fatto scrupolo di dichiarare pubblicamente «che un uomo e una donna, sia pur non uniti in matrimonio, e un uomo con un uomo e una donna con una donna possono palparsi e toccarsi vicendevolmente nelle zone impudiche senza ombra di peccato». Tanto bastò all’Inquisizione per bruciarlo sul rogo, il 18 luglio del 1300, lasciando sulle spalle di Dolcino la guida del gruppo che attorno al Segarelli si era consolidato già dagli anni Settanta del Duecento. Alla luce di ciò e riscontrando nei registri che tra essi vi erano numerose ragazze, fanciulle e donne, risulta assurdo che si possa sospettare – come molti nei secoli fecero, obbligando a questa smentita – che il ruolo di guida del movimento da parte di Margherita dipendesse solo dalle sue malizie di concubina o dalla sua eccezionale avvenenza. Oltretutto, le fonti concorrono a lasciar intuire Dolcino come uomo di grande fascino, carisma e prestanza. È lecito immaginare che, dopo una gioventù gaudente e dopo lunghi anni al seguito di Segarelli, si fosse abbastanza temprato nel resistere al richiamo delle sirene non solo della ricchezza, ma pure della vanità mondana, della lussuria e dei suoi piaceri – che, in ogni caso, se avesse voluto avrebbe potuto cogliere in gran profusione nella propria cerchia, pure senza Margherita.
Occorre dunque ipotizzare che il merito precipuo di quest’ultima debba essere per forza stato ben altro e assai più personale, qualcosa che unicamente lei avrebbe potuto offrire – e non per magica predestinazione, bensì per tenacia, vissuto, provenienza ed esperienza acquisita. Una spiegazione capace di unire i puntini del ritratto senza sfigurarne i lineamenti è che Margherita, più ancora di Dolcino, abbia potuto e saputo finalmente realizzare una sintesi tra l’eredità della propria vita precedente e la sensibilità conquistata nella nuova e più libera esistenza di viandante. Un incontro, cioè, tra la consapevolezza sociale che la ruvida esperienza tra i pellegrini le aveva consentito e una capacità di riflettere, ragionare, argomentare e persino leggere e interpretare testi – competenza, quest’ultima, assai rara all’epoca, plausibile dote del suo percorso di formazione e della casata d’origine. Tale, indagando, m’è parsa la più probabile radice di quel «dilettissima» che Dolcino impiega solo ed esclusivamente per lei: il fatto che Margherita lo sia diventata anche perché capace di studiare, comprendere, predicare. Qualcosa, pure in questo caso, in grande anticipo rispetto ai tempi, più di due secoli prima che Martin Lutero proclamasse che ogni fedele dovesse farsi lettore e interprete, in proprio, della Bibbia. Questo, ecco, mi è risultato il più verosimile apporto donato da Margherita a quel bisogno di rinnovamento che dalle gerarchie ecclesiastiche verrà marchiato a fuoco come eresia – e uno dei primi motivi per cui il potere può aver deciso di dannarne la memoria. Il fatto, dopo aver vissuto appieno un ritorno al cristianesimo delle origini nella pratica, di aver contribuito a gettare le basi teoriche per passare dal sogno predicato lungo il cammino alla realtà di una vera e propria nuova cittadella.
Perché questo è ciò che la Storia ci racconta: che dopo tanto peregrinare, a partire dal 1304 Dolcino tornò nella natia Valsesia per rendere stanziale la schiera dei seguaci, dando forma a un villaggio ideale fondato sul rifiuto di ogni opulenza e sulla condivisione di ogni bene: un luogo ove il distacco dalle ricchezze terrene, la semplicità e la modestia, anche nei costumi, erano sinonimi di libertà, modo essenziale e profondo di intendere la vita. Un sentimento di cui altri avrebbero dato prova nei secoli, personaggi come ad esempio Pepe Mujica – recentemente scomparso e forse ignaro dei nomi di Margherita e Dolcino, ma fedele ai medesimi valori di umile e gioiosa condivisione cui tanti, seguendo una coppia mai vista prima, si erano votati in quel primo Trecento. Tanti sul serio, senz’ombra di retorica: secondo diverse fonti, attorno al primo nucleo d’aggregazione, a Gattinara, si ritrovarono migliaia e migliaia di «apostolici» – ulteriore etichetta con cui la Curia di Vercelli prese a bollarli, a intendere che fossero solo dei banali imitatori e non, come essi si proclamavano, autentici seguaci del Cristo. A dispetto dell’ennesima etichetta denigratoria, è certo che sempre più persone, avendo occasione di udire i Vangeli finalmente in una lingua comprensibile e non nel latino delle gerarchie porporate, avevano deciso di accogliere e mettere in pratica quegli insegnamenti di armonia, giustizia e pace. Alcune testimonianze arrivano a specificarne meglio il numero, enorme per l’epoca: oltre quattromila.
Ed eccola, dunque, Margherita, a capo di una così larga schiera, a fianco di Dolcino. Eccola, pure, raggiunta dalla crociata che papa Clemente V scaglierà contro di loro, la prima mai combattuta in terra italiana, la più dimenticata dalla Storia, fiumi di sangue versato di cui troppo poco si è raccontato. Un confronto sproporzionato come quello di un esercito ben armato e addestrato che si accanisca contro una popolazione civile, assediandola con i più biechi dei mezzi, compresa la fame, con l’intento di sterminarla. Un assalto che costrinse chi fino ad allora aveva vissuto nella pace evangelica a imbracciare le armi, se voleva provare a difendere e salvare almeno i più deboli.
Forse più velenosa e insidiosa ancora dei quadrelli di balestra, delle frecce, delle spade sguainate dai crociati, mossi soprattutto dalla promessa di un condono fiscale e di facili guadagni, sarà l’ennesima etichetta che colpirà Margherita e che la perseguiterà persino dopo la morte, nei secoli a venire: l’etichetta che le frutterà il soprannome di «Margherita la Bella».
Ci restano di lei immagini o ritratti, più o meno fedeli? No. Qualche fonte coeva mette forse in luce una sua eccezionale avvenenza? Niente, zero, nulla. Ciò non di meno, le testimonianze subito successive, come quella di Benvenuto da Imola, primo commentatore della Commedia, concordano nel definire senza dubbio alcuno la bellezza della Boninsegna come addirittura «immensa». E questo è un altro dei sottili segnali che possono far ripensare al nostro ritratto, come quando uno scandaglio si imbatte in un ingombro inatteso.
Se davvero Margherita fosse stata tanto straordinariamente bella, strano che nessuno dei contemporanei – nemmeno Dante, che pure si dedicò a meravigliosi ritratti femminili in versi e in prosa – abbia insistito su quell’aspetto. Perché, dunque, questa fama inizia a circolare d’un tratto? E perché proprio quando non la si può più verificare, dato che della Boninsegna non resta nulla, neppure le ceneri, disperse anch’esse per sfregio?
Anche qui la risposta può giungere dalla logica: perché quell’etichetta rientrava perfettamente nei fini propagandistici di chi del suo corpo aveva fatto quello scempio, consegnandone infine i resti alle fiamme. La leggenda dell’avvenenza di Margherita, astutamente diffusa e amplificata, aiuta i suoi nemici, decenni dopo averla pubblicamente giustiziata, ad associarne la percezione, nell’immaginario popolare, a quella del demonio adescatore. A ribadire, cioè, che ella fosse, in quanto donna, peccatrice e tentatrice per definizione e che il diavolo avesse usato la sua inusitata bellezza per attirare gli uomini in trappola. Ecco – a dire di chi verga le cronache ufficiali – il perché di quel movimento in straordinaria crescita, ecco i veri motivi della fascinazione di migliaia e migliaia di persone verso le parole e le azioni dello scellerato Dolcino. Più comodo sostenere questa linea, per le penne al servizio dei potenti, del dover ammettere che le rivendicazioni sociali sollevate da quella coppia mai vista prima fossero condivise da una sempre più ampia schiera – e che quella richiesta di libertà, uguaglianza e giustizia potesse essere più che legittima.
L’avvenenza della Margherita che ho immaginato nel romanzo trascende un mero dato esteriore, dunque. L’hanno chiamata bella per dirla demoniaca, ma la sua bellezza più intensa, innegabile e attuale è in ciò che compie più che nel suo aspetto, è nella sua capacità di opporsi all’ingiustizia, di mettere la propria cultura al servizio degli altri, di non sottomettersi ai prepotenti, arrivando persino ad immolarsi per un’idea, pur di non chinare la testa di fronte a una società iniqua. E questo, non perché nata santa o eroina sin dalla culla, ma perché simile a tutti noi – seppur capace, forse più di molti altri, di ascoltare sé stessa e distinguere ciò che è giusto e necessario dal resto, anziché chiudere gli occhi e farsi andare bene qualunque sopruso o abominio.
Ecco, infine, cosa giustifica tanta acrimonia nel voler cancellare ogni parola, immagine, memoria di lei: il timore da parte dei potenti che il suo esempio di donna capace di ribellarsi, di scardinare i privilegi di un’intera società, potesse diventare contagioso.
Proprio in questo, ha origine il mio tentativo di riscoprirne e diffondere la figura. Per ridarle il posto che merita in una tradizione che non sia mera venerazione della cenere, ma appassionata custodia del fuoco – riprendendo la frase di Gustav Mahler riportata in apertura di Margherita dei ribelli.
Questo ne ha guidata l’intera scrittura, quasi un soffio della forza di Margherita attraverso il tempo, plasmandone le pagine in forma di incalzante avventura e romanzo di formazione, passione e amore: il desiderio che la sua figura possa essere riscoperta sino a diventare faro per le generazioni a venire, ponte che colleghi le utopie passate con quelle future, staffetta di un’eterna resistenza. Eretica, finalmente, non perché diabolica, bensì perché capace di scegliere con la propria testa, di decidere per ciò che è necessario e giusto, di prendere in mano il proprio destino, fino all’ultimo respiro.
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Fabrizio Bozzetti scrittore e sceneggiatore, è autore di numerosi testi teatrali, saggi e opere di narrativa. Tra i suoi romanzi, L’imprevedibile movimento dei sogni (De Agostini, 2019) e L’Essenza (Montag, 2022, vincitore di diversi premi). Tra i molti film che ha scritto, nove sono già usciti in sala, tra i quali L’uomo senza gravità (Netflix) e L’angelo dei muri (Prime Video). Per DeriveApprodi ha pubblicato: Margherita dei ribelli. Sorella, eretica, rivoluzionaria (2025).
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