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La parabola del «decisionista imperfetto» (prima parte)

Ritratto di Bettino Craxi

Proseguiamo nella pubblicazione della nostra ricerca sui decenni smarriti con un ritratto di Bettino Craxi, una delle più importanti figure istituzionali di quegli anni. Nella prima parte dell'intervento, Alessandro Marucci descrive le condizioni di profonda crisi istituzionale che portarono alla formazione del primo governo Craxi.


* * *


Nel 1984, all’inizio del governo Craxi e a ridosso del decreto sulla scala mobile, Gianfranco Piazzesi si domandava come fosse possibile associare «la forzatura del diritto di decidere a un chiaro segno di mentalità autoritaria» che «avrebbe condotto prima o poi al potere dittatoriale». L’autore si riferiva ad un fondo polemico di Ugo Pecchioli apparso in quei giorni sull’«Unità», dove con una certa disinvoltura il «craxismo» veniva accostato al decisionismo, e con un rapido slittamento semantico diventava sinonimo di avventurismo e autoritarismo. Piazzesi non aveva difficoltà a contestare chi intendeva utilizzare quell’etichetta in base a considerazioni ideologiche o di carattere morale. E lo faceva ricordando che nella storia recente si era fatto largo un «decisionista selvaggio» come Hitler e un «dittatore esitante» come Mussolini, che tra i decisionisti potevano essere annoverati amanti della libertà come Churchill e De Gaulle; tanto più Lenin che era tra i massimi decisionisti della storia, mentre Stalin, che in quanto ad importanza storica non era da meno, era invece di tutt’altro carattere. Quanto ai politici italiani, Piazzesi ricordava che, tranne «quel Valentino Borgia immortalato nel Principe di Machiavelli», di «decisionisti di razza», se ne sono visti pochi. Ricorda che «in Garibaldi (nel bene) e in Crispi (nel male)» è rintracciabile qualche spunto decisionista «ma quasi tutti i padri della patria furono scaltri, duttili, pazienti, pronti a cogliere l’occasione buona. Napoleone III scosse l’albero, Cavour fu lesto a raccogliere i frutti. Gramsci e Togliatti non assomigliarono a Lenin, i socialisti massimalisti nonostante la magniloquenza e la ginnastica rivoluzionaria, allo scoppio della prima guerra si ritirarono nella formula né aderire né sabotare. In quanto ai riformisti, Turati e Nenni esagerarono solo in prudenza». Ma è tra i leader di quel momento che l’autore dell’articolo fatica a trovarne qualcuno di risoluto: dell’assenza di carisma De Mita era stato accusato pubblicamente dai congressisti del suo partito, mentre Andreotti, che di carisma e potere ne aveva da vendere e non amava certo «mettersi in mostra», così introverso e disciplinato assomigliava semmai a un «decisionista represso». Restava Craxi, per il quale il termine era stato rispolverato. Il suo decreto sul taglio di tre punti della scala mobile, del resto, non poteva annoverarsi tra gli eventi di portata storica. Secondo il commentatore al leader socialista si poteva ascrivere tutt’al più qualche iniziativa per rivitalizzare un sistema politico ormai catatonico, «ma non appena avversari e concorrenti hanno incominciato a parlare di forzature, di disinvoltura ed eccessi lui prima ha preso cappello, poi si è profuso in chiarimenti e precisazioni». Per questo, Craxi era, quantomeno, un «decisionista imperfetto». E concludeva insistendo sul paragone storico: «Quelli veri, come Churchill e De Gaulle, non avrebbero mai replicato a simili apprezzamenti. Anzi non li avrebbero nemmeno ascoltati»[1].

Quanto a chiarimenti e a precisazioni l’intervista che Craxi concesse all’«Europeo», dove replicava ai critici della «grande riforma» dicendosi «poco convinto del valore provvidenziale del presidenzialismo», costituisce un precedente significativo per comprendere quella prospettiva esitante («a corrente alternata» secondo l’efficace definizione di Giuliano Amato) delle sue scelte istituzionali. Una prospettiva ambivalente dove convivevano sia l’ipotesi dell’elezione diretta che il richiamo alla necessità di una riorganizzazione del sistema parlamentare, che lo condurrà al termine della sua lunga parabola alla sconfitta politica per aver caldeggiato quest’ultima e indugiato sulla prima[2].

Sul «conservatorismo costituzionale» del Pci nel dibattito sulle riforme istituzionali si è detto molto. Per deplorarne l’immobilismo innanzitutto. Ma anche per sottolineare quel potere d’interdizione esercitato sul Psi assieme alla sinistra democristiana. Il dibattito in seno al Pci si era già acceso, peraltro, alla vigilia delle elezioni del ’79. Aveva cominciato Luigi Berlinguer, replicando a un articolo di Amato dove la proposta dell’elezione diretta del capo dello Stato veniva avanzata in relazione alla necessità di creare «schieramenti alternativi» in Parlamento e per superare la paralisi di un sistema imperniato sulla Dc[3]. La posizione di Berlinguer apparentemente interlocutoria non negava che l’esecutivo, il governo, la pubblica amministrazione fossero un punto nevralgico del sistema da riformare, così come la necessità di superare il bicameralismo con le sue lentezze, ma era l’opportunità o meno di cambiare la Costituzione a destare maggiori perplessità. Ma già in quella occasione venne agitato un pericolo che si sarebbe ripetuto negli anni, accusando il Psi, e non solo il Psi. Mi riferisco all’ossessione del Führerprinzip, quel «complesso del tiranno» che portava gran parte della sinistra italiana a respingere qualsivoglia rafforzamento dell’esecutivo. Berlinguer infatti respingeva ogni «ipotesi presidenzialistica per il segno autoritario, conservatore, illusorio, di cui era carica», perché oltre a non assicurare «di per sé l’alternanza al potere fra sinistra e moderati», favoriva «l’assorbimento della Dc in un blocco moderato» che avrebbe finito «per comprendere in ultima analisi tutte le destre»[4].

Quanto ai «binari nuovi della democrazia» del Pci essi dovevano restare quelli vecchi del compromesso del ’46-’47 e di conseguenza ogni deriva plebiscitaria sul tema delle riforme costituzionali andava respinta. Del resto, come riconosce Bobbio, non era affatto «conveniente» dare maggior potere all’esecutivo quando la «centralità del Parlamento» era assai più vantaggiosa per «l’opposizione più forte»[5].

Luciano Barca, per esempio, in un editoriale su «Rinascita», poneva come «vincolante per tutti» che il processo riformatore avvenisse «nell’attuazione della Carta Costituzionale prima ancora che nella modifica di qualche particolare aspetto di essa», e aggiungeva che «il fallimento del centro-sinistra» era anche stato originato da «una mancata battaglia contro la corruzione democristiana delle istituzioni»[6]. L’irrigidimento della dialettica politica in questo modo trovava consonanza anche nella concezione ingraiana. Era anche l’idea che la difficoltà di governo non dipendeva solo dai «meccanismi» e dalle «regole» ma dipendeva essenzialmente dallo sfarinamento in forma corporativa di una società complessa che richiedeva nuovi processi di ricomposizione (la soluzione presidenzialista, secondo Ingrao, oltre ad essere «illusoria e pericolosa» sprofondava invece il sistema nell’autoreferenzialità)[7].

Che il sistema sprofondasse nell’autoreferenzialità lo aveva segnalato anche Baget Bozzo, commentando la crisi della solidarietà nazionale, ma per sottolineare che il Psi con la linea umanitaria nei giorni di Moro aveva rotto «il clima di unanimità imposta che la paralisi delle istituzioni faceva gravare sul paese», a vantaggio di un minimo di dialettica interna. Ma osservava che la «solidarietà nazionale» aveva finito con «l’appannare l’immagine del Pci nell’elettorato di sinistra», e aveva quindi reso possibile «il sogno della revanche alla parte maggiore della Dc». Inoltre, riferendosi alle elezioni del 1979, osservò che erano l’esito di una sconfitta del Pci e della sinistra, ma se tale sconfitta poteva ritenersi non definitiva, ciò era stato possibile grazie allo «spazio di differenza introdotto dal Psi». D’altro canto i democristiani con il loro risultato deludente dimostrarono di non essere più quella «forza capace di coinvolgere attorno alla sua massa e alla sua politica l’elettorato moderato»[8]. Né Berlinguer (che tornava all’opposizione), né la Dc (caduta la prospettiva del successo elettorale e senza Moro) avevano dunque più alternative da proporre al Paese.

Per la verità, come scriveva Norberto Bobbio, la crisi poteva ritenersi aperta già a partire dall’insuccesso dell’unificazione socialista alle elezioni del ’68, quando il Psi «cominciò a considerare in via d’esaurimento l’esperimento di centro-sinistra». Ma ora che nessuno dei partiti aveva la maggioranza assoluta, ed erano possibili solo governi di coalizioni, nelle tre alleanze possibili («compromesso storico»; «alternativa di sinistra»; «centrosinistra») vi era uno degli alleati «che vuole l’alleanza con chi non la vuole e non la vuole con chi la vuole». Osservava dunque che, dal momento che Pci, Dc e Psi «si rincorrono ma non si raggiungeranno mai, perché il primo rincorre il secondo che gli sfugge per rincorrere a sua volta il terzo che insegue il primo», il cerchio si chiude ma «continua a girare su se stesso»[9].

In questo panorama, era difficile che a Craxi sfuggisse l’eccezionalità storica. Tra i democristiani, d’altro canto, cominciava a farsi strada l’ipotesi di una riedizione del centrosinistra, che implicava a quel punto l’accettazione di una presidenza socialista. Il successo della candidatura di Pertini al Quirinale era stato anch’esso il risultato della nuova posizione socialista, che al congresso di Torino aveva riconquistato la sua autonomia politica attraverso un’impegnativa rifondazione culturale[10]. Quando Craxi dopo le elezioni ottenne da Pertini l’incarico di formare il governo la subalternità socialista ai due «monoliti» parve a quel punto svanita. Gennaro Acquaviva ha ricordato che tra le motivazioni che spinsero Craxi ad accettare l’incarico pesarono soprattutto quelle legate al «suo inorridimento di fronte ai rischi del vuoto politico, che egli vedeva amplificato dal permanere di una condizione di costante instabilità»[11]. Non a caso nel documento politico che fece circolare durante la crisi c’era l’indicazione per un «pentapartito», l’obiettivo principale era infatti quello di responsabilizzare il sistema politico di fronte al Paese. La Dc rifiutava però di entrare in un governo il cui aspirante leader qualche mese prima aveva sposato le tesi dell’alternativa mentre il Pci non cogliendo l’opportunità di un governo a guida socialista, si arroccava nell’opposizione pregiudiziale al nuovo corso craxiano. Quando la pressione della Dc costringe Craxi a rinunciare all’incarico, e si forma un «governo di tregua» guidato da Cossiga, il sistema politico entra nella fase decisiva della sua crisi.

È proprio in questa condizione di quasi paralisi dei partiti, che il Psi mostra una imprevista capacità di reazione. In quella occasione non è Craxi a lanciare la sfida del presidenzialismo bensì gli esponenti del «progetto socialista». Una inchiesta dell’«Europeo», dal titolo emblematico De Gaulle di sinistra cercasi, rivelava che dopo la rinuncia del segretario del Psi, Giuliano Amato, Federico Coen, Luigi Covatta, Giorgio Ruffolo, Federico Mancini, poterono uscire allo scoperto, se non altro per denunciare i rischi di paralisi a cui era giunta la legislatura, ma anche per abbracciare una riforma che rafforzasse la responsabilità diretta del capo dello Stato. Il tema, come si sottolineava nell’inchiesta non era nuovo, la novità stava nel fatto che a sostenerlo questa volta non era più solo la destra ma autorevoli esponenti dell’area socialista[12].

Il richiamo a un sistema di tipo presidenzialista era stato discusso qualche mese prima nella sede di «Mondoperaio», dove intervennero anche comunisti come Mario Tronti e Salvatore Sechi, aperti al confronto sull’elezione diretta e popolare del capo dello Stato lanciata da Amato. Per trarre vantaggio da questa situazione di instabilità politica bisognava però, come faceva ad esempio Salvatore Sechi, riconoscere che i poteri presidenziali diventavano un centro di equilibri e di rapporti di forza nuovi, e non considerarli come puramente simbolici, o peggio neutrali, o addirittura morali. Invece in quei mesi si era avuta l’impressione che il Pci riducesse il ruolo del presidente della Repubblica a istituzione imparziale, al di sopra delle parti, ignorando i precedenti casi di «presidenzialismo strisciante», che si erano in ogni caso prodotti con Gronchi e Saragat. Secondo Sechi, la sinistra non aveva ancora una nuova cultura di governo, pertanto non poteva rifiutarsi di ridefinire costituzionalmente i compiti e le funzioni del capo dell’esecutivo[13]. Anche la Dc (nella quale solo il gruppo dei «cento», l’area liberal-democratica capeggiata da Mario Segni, Roberto Mazzotta e Giancarlo Tesi era presidenzialista) non amava l’idea di ridisciplinare i poteri presidenziali, in quanto refrattaria alla trasformazione del sistema parlamentare in un sistema presidenziale che avrebbe messo in discussione la sua fisionomia di partito-stato.

Probabilmente conscio di queste resistenze Craxi, aveva messo la sordina al presidenzialismo assecondando il governo Forlani che segnava una discontinuità con la solidarietà nazionale. Mirò bensì a rafforzare la posizione dei laici nell’assetto partitocratico facendo valere il principio della «pari dignità» di quest’ultimi con la Dc negli incarichi ministeriali. A raccogliere il testimone della «grande riforma» furono Amato e la redazione di Mondoperaio che aprirono una fase di analisi serrata sulle possibilità di sbloccare il sistema attraverso il presidenzialismo.

All’inizio degli anni Ottanta, come ha messo in risalto Marco Gervasoni, Craxi non aveva una proposta definita sulle riforme istituzionali, tanto che in vista del congresso di Palermo, nell’aprile 1981, «non parla più di presidenzialismo, il principio maggioritario è evocato solo en passant, di nuovo v’è piuttosto la denuncia della “politicizzazione” della magistratura»[14].

Cosa era accaduto in quei mesi da indurre il segretario socialista a fare ulteriori passi indietro? Dopo il terremoto in Irpinia il governo guidato da Forlani subiva la prima battuta d’arresto. Le polemiche sui ritardi dei soccorsi alle popolazioni colpite – fatte proprie soprattutto da Pertini – portarono alle dimissioni del ministro dell’interno Virginio Rognoni. Iniziava allora la campagna antidemocristiana sul tema della corruzione, condotta principalmente dai comunisti. Berlinguer in un discorso a Salerno aveva avanzato la richiesta di un governo di «persone pulite», anche con «la partecipazione di democristiani» che assicurassero però «garanzie morali»[15]. Il segretario del Pci, da parte sua, si mostrava contrario ad ogni ipotesi di alternativa di sinistra, rimanendo «ingessato» nella logica del compromesso. Come ha notato Fabio Vander, l’unica novità di Berlinguer era legata al suo appellarsi non più «ai partiti ma a singole personalità», che riconduceva l’«alternativa democratica» a un «compromesso storico senza partiti»[16]. La personalizzazione della politica era per il Pci un’esigenza anzitutto di carattere «morale», più che «istituzionale». Franco Rodano osservava infatti che essere «alternativi» dal punto di vista morale era l'unico presupposto per una dialettica credibile di ricambio governativo, dal momento che questa dialettica non poteva avere come «uno dei suoi poli l’illusoria ambizione craxiana della “rana che vuole gonfiarsi a bue”»[17].

Craxi si trovava così in quel momento stretto tra due fuochi, perché subiva la concorrenza del Pci nel tentativo di sostituire la Dc come perno del sistema politico, ma doveva anche confrontarsi con il veto all'idea di una presidenza socialista che giungeva da alcuni settori dell’imprenditoria laica, che reclamavano un «governo di tecnici» che non fosse diretta espressione dei partiti, come risposta alla «grande riforma«. Bruno Visentini e Carlo De Benedetti, infatti, si erano espressi pubblicamente per questa soluzione, ritenendo che la stabilità dell’esecutivo non si dovesse cercare nelle riforme istituzionali ma attraverso una revisione dei comportamenti politici con un passo indietro di tutti i partiti.

L’uscita dalla solidarietà nazionale sembrava prefigurare per la Dc un vero e proprio collasso. A rilevarlo con grande lucidità, era stato in quel frangente un intellettuale socialista che due anni dopo avrebbe animato la conferenza di Rimini, Luigi Covatta. Questi riteneva infatti che la Dc priva di alternative da almeno 35 anni, «aveva avuto sempre il problema di essere “alternativa a se stessa”», tanto che Moro per «rendere meno animalesche le procedure del ricambio» le aveva collegate alle politiche di alleanza. Essendo venuto a mancare l’interprete di quella regola aurea, si era inceppato «il meccanismo da lui predisposto». L’alleanza col Psi doveva servire anche al ricambio dei gruppi dirigenti, ma in assenza di una prospettiva strategica l’operazione si era ridotta a «un regolamento di conti piuttosto che a una selezione». Per Covatta, insomma, riallacciandosi alle posizioni della sinistra del partito, il problema della successione a un «sistema di potere» come quello democristiano implicava per Craxi la scommessa di «riformare lo stato, non solo la capacità di governarlo». L’alternativa pertanto doveva essere per forza di cose più ambiziosa, al punto da «coinvolgere tutta la sinistra in un disegno realistico di governo»[18].

Ciò su cui occorreva soffermarsi era dunque il carattere non accidentale e non contingente della crisi italiana. Un’alleanza tra forze politiche differenti poteva servire ad arginare una breve situazione di emergenza, ma non a risolvere una crisi più profonda e duratura qual era, appunto, la frantumazione politica, la fine della centralità democristiana e la questione morale. La situazione in corso sembrava far emergere, al contrario, modifiche istituzionali tendenzialmente ricompositive dell’elettorato.

È Luciano Cafagna che più di ogni altro si era soffermato su questo aspetto della crisi, là dove, dialogando con i fautori della alternativa di sinistra, si domandava se c’era in giro quel «coraggio» per una riforma istituzionale che premiasse il gruppo politico più forte, in cui «destra» e «sinistra» alternativamente potevano aspirare al governo, così da favorire un esecutivo più stabile e in grado di operare più a lungo. Una riforma che obbligasse la sinistra a una revisione ideologica e alla aggregazione intorno a questa, e al rischio che andava corso tra un governo siffatto (di destra o di sinistra appunto) dove le soluzioni riorganizzative o riformatrici saranno nei due casi certamente diverse. Cafagna si rispondeva che «le recenti prese di posizione di Berlinguer e Craxi sembrano indicare invece che i partiti della sinistra, seppure con accenti diversi, siano orientati piuttosto verso la soluzione consociativa, che Berlinguer chiama compromesso storico e Craxi alleanza riformatrice. Entrambe le versioni non comportano necessariamente l’esigenza di una modifica istituzionale (anche se, nel caso di Craxi, pochi sembrano essersene accorti)»[19].

La preoccupazione maggiore di Craxi fu, in realtà, quella di riportare il paese alla normalità, e per raggiungere tale obiettivo bisognava battere il terreno della governabilità che presupponeva un governo efficiente, magari con un esecutivo rafforzato dall’introduzione della mozione di «sfiducia costruttiva», come accadeva in altre democrazie parlamentari dove quella regola determinava a un tempo stabilità e possibilità di alternativa[20].

Come ha scritto Gaetano Quagliariello, Craxi puntò in realtà ad affermare il suo potere di coalizione e a difendere la posizione di rendita socialista in un quadro bloccato. Sebbene avesse avanzato la proposta mitterandiana dell’alternativa già nel 1979, egli sapeva benissimo che, dopo l’istallazione dei missili Cruise e Pershing, tra socialisti e comunisti si era rialzato un muro impenetrabile. Craxi per tutti gli anni successivi gioca però le sue carte su due tavoli differenti, quello incerto dell’alternativa portato avanti soprattutto dalla sinistra del partito e quello dell’alleanza di governo, senza mandare a monte il gioco parlamentare ma tentando di depurarlo dalle vischiosità della democrazia consociativa[21].

Per la Dc, dopo la scoperta nel marzo 1981 degli elenchi della loggia P2 divenne impossibile rimanere alla guida del governo. Sotto le pressioni dell’opinione pubblica, il Governo Forlani, che aveva tenuto il riserbo sugli elenchi per due mesi, fu costretto alle dimissioni. Nel referendum sull’aborto, per giunta, con una maggioranza straripante il fronte laico respinse la richiesta delle gerarchie ecclesiastiche di abolire la legge del 1978. L'accelerazione della crisi democristiana si concretizzava in un governo istituzionale che, rovesciando la prassi tradizionale, vedeva alla sua guida un partito che non disponeva della maggioranza relativa. Si ebbe così la prima «presidenza laica» affidata a Giovanni Spadolini, che ratificava non solo la questione della parità numerica tra ministri democristiani e ministri laici, ma quella più importante dell’alternanza tra democristiani e laici alla guida del governo. Se da un lato veniva certificato il «minoritarismo» cattolico, dall’altro si accentuava il ruolo costituzionale del presidente del Consiglio, allargando le sue prerogative nello svolgimento dell’attività di governo[22]. Spadolini dettava così il suo «decalogo», che aveva tra i suoi punti principali quello di rendere più stabili i governi e di neutralizzare le disfunzioni più gravi delle istituzioni, senza però ricorrere a revisioni costituzionali. Proprio il diverso ruolo istituzionale, che in modo particolare si espresse nella prassi di governo, poneva il problema più generale della riforma della presidenza, come misero in luce allora molti costituzionalisti di area socialista, e in seguito, più pragmaticamente, lo stesso Craxi negli anni del suo governo. Si cercava, per gradi e inavvertitamente, di far assorbire dunque omeopaticamente la necessità di una «grande riforma».

La Dc reagiva al suo declino chiamando De Mita alla segreteria del partito, il quale proponeva di aggirarne il minoritarismo con formule di modernizzazione della cultura di governo. Egli rassicurò da un lato la vecchia maggioranza del «preambolo» che la Dc era alternativa ai comunisti; dall’altro l’area di Zaccagnini che avrebbe sostenuto una riforma istituzionale in senso bipolare come compimento della «terza fase» preannunciata da Moro. Una strategia che fu però sconfitta politicamente dal risultato delle elezioni del 1983, che apriranno la strada al governo socialista[23].

È un passaggio che segna una fase cruciale del decennio, ma non determina tuttavia una fuoriuscita dal sistema dei partiti. All’inizio della sua stagione di governo Craxi non abbracciò nessuna ipotesi presidenzialista, si mosse piuttosto sui binari di quello che Covatta ha chiamato il «programma minimo» di Rimini. Quest’ultimo, che della conferenza fu il «regista», si era fatto sostenitore del recupero storico della tradizione riformista, impostando un confronto critico con le socialdemocrazie europee, prese a criticare il Pci per la sua «sindrome dell’introversione» che lo portava a rifugiarsi in un’immaginaria «terza via». Sulle istituzioni a Rimini venne proposto il superamento dell’impianto camerale paritario (una «Camera della legislazione» distinta da una «Camera di controllo»); la riduzione del mandato presidenziale da sette a cinque anni, il rafforzamento dell’esecutivo attraverso l’investitura fiduciaria concessa separatamente al presidente del Consiglio e una legge che assicurasse a quest’ultimo uno staff organizzato e flessibile. Il problema della stabilità fu affrontato con la proposta di un «patto di legislatura», che andava stipulato tra i partiti e il Capo dello Stato da sottoporre agli elettori insieme al programma. La «grande riforma» venne evocata per superare la crisi del welfare state ma non si parlò di presidenzialismo. Questo fu prospettato qualche mese dopo nuovamente da Giuliano Amato, per il quale espedienti come il patto di legislatura non risolvevano l’urgenza di «responsabilità più solide». La strada che veniva indicata era ancora l’elezione diretta di un presidente della Repubblica in grado di formare governi controllati nel loro operato dal Parlamento ma non esposti a repentini colpi di mano, tanto più che «una figura del genere non sarebbe un potenziale attentato per la democrazia parlamentare, in quanto non avrebbe i poteri eccezionali del presidente di Weimar». E ricordava che era stata l’iniziativa di Pertini a rompere il gioco di regime all’interno delle segreterie di partito, pertanto per ridare governabilità al paese occorreva innanzitutto restituire al popolo la sovranità[24]. Come risulta evidente due linee convivevano dentro al partito socialista, due soluzioni che in realtà spesso si intrecciavano, per poi dividersi nuovamente, quella del rafforzamento del governo e quella dell’elezione diretta del presidente della Repubblica.

Nel dibattito interno alla Dc le proposte fatte a Rimini rimasero praticamente lettera morta. Ma De Mita aveva comunque rilanciato l’idea di un «patto costituzionale» da far valere soprattutto verso il Psi, ed era orientato a introdurre una parziale riforma degli assetti istituzionali, favorendo le prerogative del Parlamento per stabilizzare l’esecutivo. Come notava Enzo Cheli, nonostante ci fosse tra i due modelli qualche effettiva convergenza (rilancio della funzione di controllo parlamentare, il superamento del bicameralismo perfetto, la ricerca di meccanismi stabilizzatori sull’esecutivo), la Dc non aveva risparmiato al progetto socialista l’accusa di essere «giacobino», «illuminista» e «autoritario». Che la Dc cogliesse «anch’essa taluni elementi di novità che emergevano dalla sfera sociale» e si dichiarava pronta ad affrontarli, si scontrava però col fatto che «le istituzioni da sottoporre a revisione» erano per quel partito «le forme stesse del proprio essere politico», pertanto seguire l’indirizzo socialista avrebbe significato una «vera e propria “destabilizzazione” del potere»[25].

Gli anni del governo di Craxi, dopo la stagione di violenza politica e ingovernabilità, di crisi economica e scontro ideologico, coincidono con una stagione che per l’Italia è particolarmente felice. Sono gli anni in cui il paese raggiunge un tasso di crescita superiore a quello degli altri paesi industrializzati, l’inflazione viene abbattuta drasticamente, viene firmato l’Atto unico europeo. Ancora dentro la «crisi» la sua principale preoccupazione, soprattutto dinnanzi al persistere di una Costituzione materiale dove gli accordi tra partiti impedivano alle istituzioni un regolare funzionamento, era stata quella di garantire a chi fosse giunto al governo attraverso il voto popolare il diritto di governare senza interferenze esterne. La battaglia contro il prolungarsi di quel «consociativismo corporativo» che indeboliva lo Stato di diritto divenne dunque una caratteristica della sua politica, come ricerca e riflessione sulle funzione del vertice dell’esecutivo. Come ha notato giustamente Pio Marconi, «Craxi afferma il primato della norma sulla decisione, recupera la forma dello Stato di diritto contro la sostanza delle interferenze burocratiche, sceglie il socialdemocratico Kelsen contro il filonazista Schmitt»[26].

La questione era emersa qualche anno prima, quando nel 1977 uscì in Italia la traduzione del libro di Walter Laquer sulla repubblica di Weimar. Questa infatti suscitò un ampio dibattito per le inquietanti analogie tra le due fragili repubbliche (minacciate entrambe dal disordine economico, la frammentazione partitica, il forte scontro ideologico), e un magistrato molto ascoltato da Craxi era intervenuto contro coloro che intendevano sfruttare la circostanza storica «favorevole ad una ripresa di una “autorevole autorità”» − magari mettendo insieme «i controriformismi tridentini di Piccoli e Franco Rodano» −; secondo Beria d’Argentine il graduale avvicinamento all’assetto liberal dei diritti individuali, già indicato dalla Costituzione e faticosamente portato avanti dal Parlamento su impulso della Corte costituzionale poteva essere compromesso dai sostenitori della «germanizzazione»[27].

Su questi temi nello stesso periodo aveva avuto grande influenza la fioritura di studi su Carl Schmitt, germogliata in Italia a partire dalla pubblicazione delle Categorie del politico, per iniziativa di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera. Lo studioso tedesco veniva «riscoperto» dopo trent’anni di silenzio in una chiave «realista», senza coinvolgere però il dibattito socialista. Sono semmai autori passati per l’operaismo come Massimo Cacciari e Mario Tronti divenuti teorici dell’«autonomia del politico» o piuttosto studiosi come Giacomo Marramao e Angelo Bolaffi impegnati a riflettere sulla forma della decisione e dell’autorità in società ormai complesse a riscoprire «da sinistra» l’opera schmittiana. Le categorie del giurista tedesco serviranno da strumenti politologici per ragionare sulla degenerazione dei sistemi parlamentari nel «caso italiano», tema che nel Psi trova interlocutori politici sordi, e «si salda, ben presto, soprattutto a livello politico-pubblicistico, con quello di matrice politologica, della governabilità»[28].

Craxi con il decreto sulla scala mobile aveva rimosso il diritto di veto esercitato da sempre dal Pci sui temi del lavoro, scegliendo come interlocutore principale la Cisl di Pierre Carniti. In questo modo aveva cominciato a spezzare il consociativismo Dc-Pci prefigurando per la sinistra un terreno che andasse oltre la difesa del vecchio patto fordista. Quando la revisione dei meccanismi di contingenza portò allo scontro col Pci e il sindacato che ricorsero a un referendum abrogativo, non intervenne però sull’ordinamento vigente e lasciò liberi i cittadini di esprimersi sul referendum. Anche sulla politica internazionale come nel caso di Sigonella il «decisionismo» di Craxi permise all’Italia di emanciparsi dalla sudditanza alla regole granitiche dell’atlantismo, riscuotendo in quel caso dal Pci non pochi plausi. Ma è sul Concordato che Craxi si smarcò dalle procedure estenuanti e inconcludenti degli altri partiti, assumendo direttamente la conduzione del negoziato con la Chiesa italiana, e distinguendolo dai rapporti con la Dc e il mondo cattolico. Nel suo proporsi Craxi mostrava un «piglio deciso« nel governare che i giornali dell’epoca traducevano spesso con l’espressione «decisionista», ciò nonostante questo termine non poteva essere confuso con la sua matrice schmittiana in senso politologico.

Piero Craveri, in una recente riflessione storica in occasione del decennale della morte dello statista, ha evidenziato come i successi ottenuti da Craxi dopo quasi quattro anni di governo indubbiamente positivi, fossero dovuti sostanzialmente allo «stile virtuale della governabilità e la dimostrata non necessità del consociativismo», che necessitavano però «d’essere incorporati nelle istituzioni». Lo statista, secondo Craveri, avrebbe dovuto a quel punto prepararsi a un appello al popolo per «rompere le righe» e sfuggire all’ennesimo patto di vertice che la Dc gli avrebbe offerto, di cui la «staffetta» era l’emblema[29]. Tra il febbraio e il marzo del 1987 quel dilemma fu sicuramente al centro delle sue preoccupazioni, se si considera che poche settimane prima della «sfiducia« da parte di De Mita, Craxi annunciava che il presidenzialismo sarebbe stato il tema centrale del congresso socialista, confortato anche dai sondaggi d’opinione, l’ultimo dei quali (Domoskopea) attestava che il 65% degli italiani era favorevole a questa proposta[30]. Il 17 febbraio negli studi televisivi di «Mixer» deplorava pubblicamente la «staffetta», giudicandola «un abuso o un’invenzione» da parte di De Mita, e lasciava intendere che se la Dc gli avesse tolto la fiducia al governo le prevedibili elezioni anticipate si sarebbero trasformate in un referendum sulla sua persona. Poi invece il 1 marzo si arrende al logoramento impostogli dalla Dc e restituisce l’incarico. Durante quella crisi i più sorprendenti bizantinismi portarono prima al fallimento degli incarichi esplorativi di Andreotti e Scalfaro, poi a quelli della Iotti e Natta, e infine all’incarico a Fanfani, che i socialisti votarono per consentire lo svolgimento dei referendum mentre al contrario la Dc si astenne per andare il prima possibile alle elezioni senza Craxi al governo. Il patteggiamento sistematico non produceva più «decisioni» razionali, ma stava accelerando l’entropia del sistema.

Uno dei più accreditati sostenitori del cambiamento istituzionale, lo stesso Gianfranco Miglio che aveva riscoperto Schmitt e avviato una ricerca sul riordinamento costituzionale, interrogato sulle capacità di governo di Craxi, al di là delle mediocri caricature che lo vedevano indossare una «camicia nera» e i continui esercizi di deformazione del «decisionismo» in fascismo dai critici di sinistra, si lasciava andare a una analisi che si sarebbe rivelata profetica. Per quest’ultimo Craxi «non dialogava abbastanza con il Paese», come facevano invece altri capi politici. La sua timidezza oltre a tutto lo portava qualche volta a diventare «arrogante». Agli occhi del giurista ha però un ingombrante difetto: «Non si rende conto forse che la gente apprezza le decisioni anche quando queste “bruciano” […] se vengono chieste con fermezza, se “in alto” si avverte un forte senso di responsabilità, e di fermezza»[31].



Note [1] G. Piazzesi, Decisionista imperfetto, in «La Stampa», 4 aprile 1984. [2] Per la documentazione e il dibattito suscitato a partire dalla pubblicazione dell’articolo sull’«Avanti!» del 28 settembre 1979, a firma di Craxi, dal titolo Ottava legislatura, si veda, AA.VV, La «grande riforma» di Craxi, a cura di G. Acquaviva e L. Covatta, Venezia 2010. Sulle precisazioni di Craxi si veda La seconda repubblica ha il suo partito, in «L’Europeo», 11 ottobre 1979. [3] G. Amato, Un capo dello stato eletto dal popolo, in «La Repubblica» 14 aprile 1979. [4] G. Berlinguer, I binari nuovi della democrazia, in «Rinascita», 6 aprile 1979. [5] G. Vacca, Crisi del Welfare State e sfida neo-liberale: una intervista con Norberto Bobbio, in «Problemi del socialismo», n.3/4, settembre 1984 - aprile 1985, pp. 23-44. [6] L. Barca, Costituzione e riforme, in «Rinascita», 12 aprile 1979. [7] P. Ingrao, Partiti e momenti di sintesi della società, in «Rinascita», 2 novembre 1979. Si veda anche l’intervista di F. Adornato, Ingrao: dove nasce l’ingovernabilità, in «L’Unità», 14 ottobre 1979; [8] G. Baget Bozzo, Le ragioni della centralità socialista, in «Almanacco socialista», Roma 1980, pp. 81-82. [9] N. Bobbio, Sono partiti o sono fazioni?, «La Stampa», 4 agosto 1979. [10] Su questi aspetti si veda L. Covatta, Menscevichi. I riformisti nella storia dell’Italia repubblicana, Venezia 2005, pp. 131-142. [11] G. Acquaviva, Craxi, la politica, la riforma, in La «grande riforma» di Craxi, cit. p. 28. [12] G. Mughini, De Gaulle di sinistra cercasi, in «L’Europeo», 16 agosto 1979. Nello stesso numero del settimanale sono pubblicate le riflessioni di Franco Bassanini (Democrazia bloccata), Salvatore Sechi (Non è un führer), Federico Coen (I bizantini a Montecitorio), Silvano Tosi (Ma quale abito presidenziale?), Massimo Cacciari (Questa terapia potrebbe essere utile), in cui tutti (tranne Tosi) reputano sostanzialmente decisivo il tema della riforma delle istituzioni e drammatico lo scollamento tra società e politica. [13]Non è un Führer, cit. Sechi ricorda anche [14] M. Gervasoni, Le insidie della modernizzazione. “Mondoperaio”, la cultura socialista e la tentazione della “seconda repubblica” (1973-1982), in (a cura di G. De Rosa e G. Monina), L’Italia repubblicana e la crisi degli anni settanta, Soveria Mannelli 2003, p. 229. [15] G. Russo, Berlinguer: un governo anche con qualche democristiano onesto, in «Corriere della Sera», 29 novembre 1980. Berlinguer affermò che la proposta comunista aveva diverso contenuto dalle proposte di «alternativa di sinistra» («coalizione di forze solo di sinistra che esclude la Dc») e di «alternanza» (che consiste in un «cambio di colore della guida del governo con la partecipazione di tutti i partiti con l’esclusione del Pci»). Non si trattava, quindi, di un abbandono esplicito della linea del compromesso storico, ma di una sua involuzione verso una linea a cui fu dato il nome di «alternativa democratica». [16] F. Vander, Dal Pci al governo D’Alema, Roma 1998, p. 80. [17] F. Rodano, Un solo Bisaglia non fa primavera, in «Paese Sera», 17 dicembre 1980. [18] L. Covatta, Morta la Dc se ne fa un’altra. A meno che.., in «L’Europeo», 8 dicembre 1980. [19] L. Cafagna, Questa sinistra avrà coraggio?, in «L’Europeo», 25 ottobre 1979. [20] Alberto Sensini, Craxi:“Dobbiamo portare il Paese alla normalità”, in «Corriere della Sera», 21 dicembre 1980. [21] Su questi aspetti si veda G. Quagliariello, Il sistema politico italiano degli anni ottanta, in Bettino Craxi, il riformismo e la sinistra italiana, a cura di A. Spiri, Venezia 2010, pp. 39-49. [22] G. Galasso, La rottura della continuità democristiana e il governo Spadolini, in AA.VV., Il Parlamento italiano. Storia parlamentare e politica dell’Italia 1861-1988.Vol. XXIII, Milano 1993, pp. 109-130. [23] La Dc scese dal 38,3 al 32,9%; il Psi passava dal 9,8 all’11,4%, mentre il Pci era in leggera discesa. La sconfitta democristiana fu in realtà ancora più pesante se consideriamo che la somma dei voti laici e socialisti (Psi, Pri, Psdi, Pli) passò dal 18,5 del 1979 al 23,5%. [24] G. Amato, Ragioni e temi della riforma istituzionale, in La «grande riforma» di Craxi, cit., p. 263. [25] E. Cheli, Riforme istituzionali. Il modo della sfida Dc-Psi, in «Il Messaggero», 18 maggio 1982. [26] P. Marconi, La «giustizia giusta», in La «grande riforma», cit., p. 96. [27] A. Beria d’Argentine, L’Italia può essere germanizzata?, in «Corriere della Sera», 13 agosto 1977. [28] A. Campi, L’ombra lunga di Weimar. Carl Schmitt nella cultura politica italiana tra terrorismo e crisi della partitocrazia, in «Rivista di Politica», n.2, 2011, p. 98. [29] P. Craveri, Il leader che manca alla sinistra, in «Mondoperaio», n. 1, gennaio 2010, pp. 26-28. [30] P. Mieli, «Referendum sul Quirinale», in «La Stampa», 7 febbraio 1987. [31] A. Sensini, Prima o seconda Repubblica? (a colloquio con Aldo Bozzi e Gianfranco Miglio), Napoli 1986, p.97.

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