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La filosofia terapeutica e politica di Ludwig Wittgenstein


Ritratto di Ludwig Wittgenstein, rielaborazione di Angelica Ferrara
Ritratto di Ludwig Wittgenstein, rielaborazione di Angelica Ferrara

Una lettura originale della figura di Ludwid Wittgenstein, uno dei filosofi più originali ed enigmatici del Novecento. Andrea Di Gesu sottolinea gli aspetti «terapeutici» del suo pensiero, volti a liberarci dalla necessità metafisica di un fondamento trascendente per i nostri significati, e le riletture politiche che hanno accolto il fattore linguistico nei fondamenti dei loro quadri teorici.

Per approfondire rimandiamo al testo dello stesso Andrea Di Gesu, Wittgenstein e il pensiero politico (DeriveApprodi, 2025).


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Ludwig Wittgenstein (1889-1951), unanimemente considerato tra i pensatori più importanti della filosofia del Novecento, ne è anche una delle figure più enigmatiche. Se la traiettoria accidentata della sua vita, nonché la sua personalità estremamente singolare, hanno senz’altro contribuito all’enigma, sarebbe un errore – o quantomeno, una semplificazione – ridurre quest’ultimo allo stereotipo del genio tormentato e sofferente. L’enigma Wittgensein risiede piuttosto nella struttura stessa della sua filosofia: nella difficoltà persistente di coglierne il disegno complessivo, nell’apparente disorganicità dei suoi movimenti concettuali, nella peculiarità del suo stile letterario. Così come nella mole gigantesca di studi, interpretazioni e riletture che ha generato, e che, motivata da tale enigmaticità, ha contribuito ad ispessirla almeno nella stessa misura in cui l’ha, talvolta, diradata.

Wittgenstein nasce a Vienna nel 1889 da una famiglia dell’altissima borghesia asburgica, di origine ebraica ma convertita al protestantesimo: il padre, Karl, è uno dei più importanti capitani d’industria dell’Impero. Ultimo di otto fratelli, cresce in un ambiente d’eccezione: il palazzo di famiglia è uno dei fulcri della vita culturale viennese dell’epoca, frequentato da intellettuali e artisti del calibro di Klimt, Mahler, Brahms, Freud. Wittgenstein frequenta dapprima la Realschule di Linz, un istituto tecnico frequentato per altro negli stessi anni da Adolf Hitler (la coincidenza ha dato adito a diverse ricerche, nessuna delle quali è arrivata a provare che i due si conobbero effettivamente). Prosegue gli studi di ingegneria a Berlino e a Manchester, specializzandosi in ingegneria aeronautica. È proprio a Manchester che scopre l’opera di Russell, che ha appena pubblicato il primo volume dei suoi Principia Mathematica. Si tratta di un evento fondamentale, che indirizza definitivamente Wittgenstein verso lo studio della filosofia e della logica. Si reca allora a Jena per discutere delle sue idee con Frege, che insieme a Russell figura tra i fondatori della logica filosofica e della filosofia della matematica moderne. Frege, all’epoca già piuttosto anziano, gli consiglia di andare a studiare a Cambridge sotto la guida di Russell, dove Wittgenstein rimane per tre anni – dal 1911 al 1914 – diventando rapidamente l’allievo principale del maestro. Allo scoppio della guerra si arruola volontario nell’esercito austro-ungarico, dove viene dapprima inviato nelle retrovie e poi, su sua esplicita richiesta, direttamente al fronte. Combatte in particolare sul fronte italiano, dove viene fatto prigioniero durante la battaglia di Vittorio Veneto e internato nel campo di prigionia di Cassino fino all’estate del 1919. Proprio sotto le armi Wittgenstein scrive le sue prime opere filosofiche: i Quaderni del 1914-1916 e soprattutto la sua opera più famosa – nonché pressoché l’unica pubblicata in vita: il Tractatus logico-philosophicus.

Opera fondatrice della riflessione filosofica contemporanea, dall’influenza immensa in particolare per la logica e la filosofia del linguaggio, il Tractatus è forse l’esempio più perfetto di quell’enigmaticità di cui più sopra parlavamo. In essa, Wittgenstein si inserisce nel dibattito sui fondamenti della logica dei suoi maestri Frege e Russell, allargandolo al problema del rapporto tra linguaggio e mondo. La teoria che egli vi espone, a partire da sette proposizioni fondamentali sviluppate in decine e decine di sotto-proposizioni, è una teoria logicista del linguaggio secondo la quale la proposizione linguistica e i fatti che essa raffigura condividerebbero una stessa forma logica che, sola, garantirebbe la sensatezza del linguaggio: la struttura logica degli elementi proposizionali raffigurerebbe, in altri termini, la struttura logica dello stato di cose rappresentato dalla proposizione, poiché ai nomi e ai concetti che costituiscono l’intelaiatura della struttura proposizionale del linguaggio corrisponderebbero gli oggetti semplici e le relazioni logiche tra di essi che compongono lo stato di cose. L’analisi logico-filosofica avrebbe il compito di chiarificare tale forma logica, condivisa dal mondo e dal linguaggio. Tuttavia, il testo contiene anche altre proposizioni, celebri, che complicano notevolmente il quadro: in particolare, che la forma logica può in realtà essere solo mostrata senza poter essere detta – il che rende problematico lo statuto delle proposizioni del testo, che proprio della forma logica cercano di parlare. La soluzione al paradosso è, se possibile, ancora più paradossale: nella penultima proposizione, Wittgenstein ammette che le proposizioni del Tractatus sono semplicemente insensate, e che il lettore dovrebbe salire su di esse come sui pioli di una scala per poi gettarle via e trascenderle, al fine di vedere rettamente il mondo. Non solo. Le ultime proposizioni del testo fanno letteralmente esplodere la riflessione in tutte le direzioni della ricerca filosofica, in una serie frenetica di tesi perentorie sull’etica – che è rigorosamente trascendentale e non può formularsi, sul senso del mondo – che è necessariamente fuori dal mondo, sulla morte e sulla felicità. Wittgenstein termina infine la sua opera con alcuni cenni al problema della vita e del suo senso, la cui soluzione non è nemmeno sfiorata dalle risposte alle domande della scienza – ma è precisamente quando non c’è più alcuna domanda da porre che si scorge la risposta, che consiste precisamente nello sparire della domanda, nell’impossibilità di porre ancora domande; e con l’ingiunzione perentoria a tacere di tutto ciò di cui, a rigore, non si può parlare.

Il testo viene pubblicato, non senza molte difficoltà, nel 1921 in tedesco e tradotto in inglese l’anno successivo (con una celebre prefazione di Russell), e diventa rapidamente un classico della logica e della filosofia del linguaggio. Convinto di aver risolto definitivamente tutti i problemi della filosofia, tuttavia, Wittgenstein decide di abbandonare l’accademia per dedicarsi a tutt’altro. Dopo aver donato la sua ingentissima eredità, passa buona parte del decennio successivo a lavorare come insegnante di matematica in uno sperduto villaggio delle Alpi austriache, ma anche come giardiniere in un monastero.

Soltanto nel 1929 decide di tornare ad occuparsi di filosofia, nella convinzione che molte delle sue tesi del decennio precedente necessitino di una revisione radicale. Torna allora a Cambridge, dove rimarrà a insegnare e a sviluppare le sue ricerche fino alla morte avvenuta nel 1951. In questi vent’anni accumula una mole impressionante di studi e ricerche, che compongono il suo vastissimo lascito postumo (detto comunemente Nachlass). Pubblicato interamente dopo la sua morte, esso si compone di una serie eterogenea di testi – spesso assemblati arbitrariamente dai curatori – che spaziano dalla filosofia della matematica (Osservazioni sui fondamenti della matematica) alla filosofia della psicologia (Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Zettel), dall’etica all’estetica (Lezioni e conversazioni), ma il cui fulcro resta l’interrogazione filosofica sul linguaggio: di questo enorme cantiere, le Ricerche Filosofiche costituiscono senz’altro la sintesi più significativa.

L’opera testimonia della totale riconfigurazione delle posizioni del Tractatus: la teoria logicista è sostituita da un’originale concezione antropologica, etnologica e materialistica del linguaggio. Nella tesi centrale del testo, Wittgenstein ridefinisce il significato linguistico come l’uso concreto che i parlanti fanno del linguaggio ordinario; tale uso avverrebbe sempre all’interno di un complesso di attività e di prassi, che Wittgenstein definisce gioco linguistico, entro il quale soltanto risulterebbe intelligibile. Egli riconduce così il significato linguistico alle forme di vita in cui esso viene concretamente prodotto, dove con quest’ultimo concetto andrebbe inteso un insieme più o meno variabile di pratiche e significati che, nella loro interrelazione, andrebbero a comporre il disegno relativamente stabile di una cultura in un dato momento storico. Anche in questo testo, tuttavia, si trovano proposizioni che perturbano il quadro: in particolare, che la filosofia non proponga alcuna tesi, e che l’attività filosofica consista piuttosto in una serie di terapie finalizzate a liberarci dai fraintendimenti e dai crampi mentali provocati dal linguaggio stesso.

L’influenza della filosofia di Wittgenstein sulla riflessione contemporanea, già estremamente importante prima della sua morte e ancor più significativa a seguito della pubblicazione dei suoi scritti postumi, è probabilmente uno dei capitoli più sorprendenti e controversi della filosofia del Novecento. Essa è in effetti costellata di fraintendimenti e letture parziali che, ciò nonostante, hanno per lungo tempo costituito le interpretazioni canoniche dell’opera wittgensteiniana, condizionandone la ricezione in maniera duratura. All’origine di tali fraintendimenti sta il fulcro dell’enigma-Wittgenstein, ossia quell’incongruo rapporto tra etica e logica, tra riflessione esistenziale e filosofia del linguaggio che la sua riflessione non cessa di riproporre per giustapposizioni violente e senza soluzioni di continuità apparenti. Ma anche – ed è in realtà lo stesso – il rapporto contraddittorio tra una tendenza irresistibile al disarmo della filosofia (che non può che mostrare senza dire, che deve tacere, che in fin dei conti si riduce ad un’attività terapeutica) e l’evidenza di uno sforzo filosofico accanito, di un lavoro del concetto quasi ossessivo. Come se il tentativo di pensare l’incontro tra esistenza e riflessione, asintotico e accecante, non possa che produrre una specie di implosione del pensiero, in cui la filosofia si perde realizzandosi.

È in effetti espungendo o relegando ai margini tale questione che l’opera di Wittgenstein è stata recepita inizialmente. Wittgenstein è stato allora letto non solo come uno dei padri nobili della svolta linguistica, ossia di quel riorientamento della riflessione filosofica verso lo studio del linguaggio e del significato che ne caratterizzerà tanta parte della traiettoria novecentesca – il che è fuor di dubbio; ma anche – nella lettura fuorviante del circolo di Vienna e dei primi filosofi analitici – come difensore di una visione rigorosamente scientifica e neopositivista del mondo in cui la filosofia è ridotta ad un’attività di chiarificazione logica degli enunciati, ancillare rispetto alla scienza. Il secondo periodo della sua filosofia, d’altro canto, ha inaugurato le ricerche sulla performatività e sulla pragmatica del linguaggio, influenzando in particolare Austin e Searle – ancora una volta, però, al prezzo di una marginalizzazione delle sue riflessioni sullo statuto della filosofia e sull’etica.

Bisognerà aspettare gli anni Settanta per assistere all’inizio di un rinnovamento degli studi wittgensteiniani che affronti di petto l’enigma-Wittgenstein. Inaugurata dai lavori di Stanley Cavell, e in particolare dal suo ormai classico The claim of reason (1979), la corrente interpretativa nota oggi come New Wittgenstein ha in effetti sviluppato una lettura dell’opera wittgensteiniana in grado infine di coglierne la coerenza complessiva. Secondo questi interpreti, la filosofia di Wittgenstein non consisterebbe affatto nella proposizione di una serie di teorie sul linguaggio e sulla logica, ma in un lavoro terapeutico volto a liberarci dalla necessità metafisica di un fondamento trascendente per i nostri significati. In altre parole, Wittgenstein attacca la ricerca filosofica di una fondazione metafisica, di un fondamento trascendente per le nostre parole e i nostri significati condivisi, mettendo a punto una serie di terapie– dalla logica nel Tractatus ai giochi linguistici nelle Ricerche – il cui fine è quello di spingere il soggetto a riconoscere che il linguaggio non ha alcuna fondazione assoluta, che le sue pratiche linguistiche non ne hanno bisogno per funzionare correttamente, e che è precisamente questa ricerca metafisica ad alienarci dalla nostra attività quotidiana e collettiva di produzione significante, ossia dal nostro uso ordinario del linguaggio. Lo scopo di tale terapia è distintamente etico, nella misura in cui è solo quando ci siamo infine liberati dall’esigenza metafisica di un fondamento che le nostre pratiche, le nostre parole, e in generale i significati con cui diamo una forma etica alla nostra vita ci vengono restituiti come nostri, come dipendenti dalla nostra responsabilità di mantenerli, costruirli, rilanciarli, trasformarli. La filosofia di Wittgenstein mostra così anche la sua natura critica, poiché mira precisamente a ridare al soggetto la capacità critica di produrre e trasformare i significati che plasmano la sua forma di vita.

In questo quadro, come si vede, logica ed etica, linguaggio ed esistenza formano un intreccio indissociabile e coerente, che trova il suo fondamento nella natura terapeutica dell’attività filosofica: l’opera wittgensteiniana appare infine come un intero, in cui le sue diverse parti risultano armonizzate in un disegno unitario. Oltre a  fare giustizia alle diverse fonti del filosofare wittgensteiniano (non solo il dibattito sui fondamenti della logica, ma anche quello, post-kantiano e di lingua tedesca, sul rapporto tra fatto e valore in cui Wittgenstein si forma), questa linea interpretativa ha il merito di fornire un’immagine complessiva di Wittgenstein come pensatore del rapporto tra etica ed epistemologia, o dei risvolti etici della riflessione epistemologica, vicino in questo a Schopenhauer e Nietzsche.

Tra i capitoli più sorprendenti della storia degli effetti dell’opera wittgensteniana vi è senz’altro la sua influenza sulla filosofia politica del secondo Novecento. In effetti, nonostante l’estraneità di Wittgenstein alla riflessione filosofico-politica, egli ha giocato, nella storia recente di quest’ultima, un ruolo difficilmente sottostimabile. Il nostro libro ne propone la prima disamina sistematica, fondandosi sull’ipotesi che il confronto con Wittgenstein abbia costituito uno dei modi principali con cui la filosofia politica contemporanea ha reagito, in modi diversi, alla svolta linguistica delle scienze umane e sociali, nella forma di una riflessione generale sul rapporto tra linguaggio, critica e prassi politica. La storia delle interpretazioni politiche dell’opera di Wittgenstein permette così di ricostruire le diverse modalità con cui gli indirizzi principali della filosofia politica contemporanea hanno accolto il fattore linguistico nei fondamenti dei loro quadri teorici.

Il nostro studio distingue in particolare tre grandi famiglie di interpretazioni politiche dell’opera di Wittgenstein: le letture sviluppate dagli esponenti della Scuola di Francoforte e dai filosofi del postmodernismo, secondo le quali il senso politico dell’opera di Wittgenstein va ricercato nelle implicazioni della sua filosofia del linguaggio per l’analisi critica delle prassi sociali, e che, seppur opposte, risultano fondate sui medesimi assunti teorici; le interpretazioni che, a partire da Cavell, identificano le implicazioni politiche di Wittgenstein negli apporti che la sua filosofia può fornire alla teoria della democrazia, in particolare nelle sue versioni radicali, riguardo a questioni quali la centralità delle pratiche assembleari e la natura della discussione democratica, la creazione performativa delle identità politiche e la dimensione linguistica della prassi politica democratica; infine, le letture operaiste di Wittgenstein, elaborate in particolare da Negri e Virno, che colgono il significato politico della filosofia di Wittgenstein nel contributo che quest’ultima fornisce all’analisi della dimensione linguistica dell’alienazione e dello sfruttamento capitalistici, nonché nel modo in cui essa aiuta a ripensare l’ontologia del sociale.

Queste tre letture corrispondono alle tre modalità diverse con cui la teoria critica, la teoria della democrazia e il pensiero marxista hanno reagito alla svolta linguistica: se la prima, pur riconoscendo l’importanza del fattore linguistico nell’analisi critica della società e nell’ontologia del sociale, vede in generale nel linguaggio un vettore di destrutturazione dei fondamenti e delle identità, il cui ingresso nella riflessione politica determina una tendenza relativista tanto nell’analisi quanto nell’elaborazione di proposte politiche normative, la seconda considera il linguaggio innanzitutto in termini di produzione collettiva di senso da parte delle comunità politiche, e al limite come materia stessa del politico – nei termini della discussione collettiva sullo statuto, la forma, le istituzioni del vivere comune. Il terzo, infine, vede nel linguaggio una facoltà biologica dell’umano e la fonte di una delle più importanti produzioni comuni delle nostre forme di vita, di cui è necessario indagare e criticare la valorizzazione economica da parte del modo di produzione capitalista.

Il nostro studio permette così da un lato di fornire una ricostruzione complessiva di uno degli aspetti meno indagati dell’impatto della filosofia di Wittgenstein sul pensiero contemporaneo, e dall’altro di tornare da un punto di vista originale su una delle vicende più importanti della riflessione politica del Novecento, vale a dire l’impatto su quest’ultima della svolta linguistica delle scienze umane. Esso testimonia infine, se mai ce ne fosse bisogno, della perdurante vitalità di uno dei pensieri più influenti e originali della nostra contemporaneità.


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Andrea Di Gesu è dottore in filosofia politica. Specialista del pensiero di Wittgenstein e di Foucault, lavora sul concetto di democrazia radicale, sul pensiero politico italiano e sulla teoria critica contemporanea. È attualmente professore a contratto presso l’università SciencesPo di Parigi. Per DeriveApprodi ha co-curato il volume di Foucault Che cos’è la critica? (2024) e scritto Wittgenstein e il pensiero politico. Linguaggio, critica, prassi (2025).



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