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Jan Hus e la grande rivoluzione boema (II)


Per la nuova sezione «omnia sunt communia», dedicata al complesso rapporto tra religione e rivoluzione, pubblichiamo oggi la seconda parte di un ricco contributo di Chicco Funaro sulla figura di Jan Hus, teologo e riformatore religioso boemo, scomunicato dalla Chiesa cattolica nel 1411 e bruciato sul rogo.


* * *


Praga insorge

Tutti scendono in piazza, non solo i seguaci di Hus e del suo circolo.

Il tumulto, che Venceslao stenta a tenere sotto controllo, poggia su reazioni più oggettive e generali della pur già importantissima polemica dottrinale: tutti i praghesi, anche i cattolici, che sono ancora buona presenza in città, sentono colpita la loro appartenenza boema, la loro cultura, uno spirito nazionale mai venuto meno anche nel quadro del sistema di potere dell’Impero. Nel settembre, un formale documento di protesta sul processo e sull’esecuzione del magister viene sottoscritto da 472 esponenti della nobiltà. Il punto non è quello, comunque, del sostenere che le tesi di Hus siano giuste, poiché molti dei firmatari sostengono di essere fedeli cattolici; ma quello dello spergiuro imperiale e dell’offesa recata a Praga e al Paese tutto.


Tanta unanimità tra praghesi non dura però che pochissimo tempo e si fa giorno per giorno meno stabile e assai più precaria. Tra gli Husité sono sempre di più coloro che cominciano ad avere un atteggiamento sempre più duro e militante nei confronti dei concittadini fedeli a Roma. Impossibile dimenticare che siano stati i Cattolici a condannare il magister e ad accendere il rogo. E punto d’attrito altrettanto forte è che essi siano attestati, in città come in tutto il regno, su posizioni di forza e di potere, e occupino ruoli giudiziari e amministrativi di rilievo. Lo scontro è subito duro. Molte parrocchie vengono occupate e i loro titolari espulsi. Alla Cappella di Betlemme, la predicazione di Jakoubek non mira certo a smorzare i toni di ogni possibile polemica. Appena fuori Praga, già dalle prime campagne, le nuove ragioni di astio contro il Papato si saldano al vecchio odio contadino nei confronti delle ricchezze di un clero che arriva a possedere da solo un buon terzo delle terre boeme coltivabili.

Tanto radicalismo trova ancora una volta sanzione dottrinale nel Carolinum: i suoi docenti promulgano un decreto, vincolante per tutti, che promuove come unico e veritiero rito sacramentale l’Eucarestia col pane e col vino. Qui non siamo più di fronte a un gesto di forza o a una reazione più o meno tumultuosa da parte di un mob cittadino. Si tratta di un vero e proprio decreto ufficiale volto a creare i fondamenti «eretici» di una nuova autorità e di un nuovo potere. La reazione del nuovo papa romano, quel Martino V Colonna attraverso il quale Costanza sembra aver risolto lo Scisma, non tarda ad arrivare, altrettanto ufficiale: l’Università è colpita da Interdetto, l’insegnamento è proibito e le Facoltà non hanno più diritto a esistere. Qualcuno obbedisce, ma non le Arti, che continuano fieramente la propria attività. Ora però accanto al Papa sembra schierarsi anche Re Venceslao: che ottiene il ritorno nelle loro parrocchie di alcuni ecclesiastici precedentemente sfrattati. Ma gli hussiti, o meglio i Kališníci o Calixtini, come viene in uso chiamarli, ottengono il controllo di tre importanti chiese cittadine. La situazione sembra stabilizzarsi, ma è solo apparenza, e il tempo che passa non porta consiglio a entrambe le fazioni.


30 luglio 1419: la prima Defenestrazione

Nella primavera del 1419 viene insediato nella Novoměstská radnice, la casa comunale di Malà Strana un consiglio di Scabini tutti cattolici. Nel luglio parte da Sant’Ambrogio una nuova petizione che ripostula le Entrambe Specie per la Santa Cena. All’ennesimo rifiuto cattolico, viene inviata alla casa comunale una delegazione che dovrebbe trovare una mediazione con la città. Ma essa non trova ascolto, anzi: i suoi componenti vengono arrestati. Si raduna subito una gran folla, alla cui testa si pone un ex frate premonstratense, Jan Želivský, che sta diventando noto in città per le sue posizioni estreme ed estremiste.

La folla invade l’edificio, a guidarla c’è ora un soldato che si chiamerebbe Jan z Trocnova, ma che ha perso un occhio a Grunwald, contro i Cavalieri Teutonici, e che perciò tutti chiamano Žižka, il Guercio. I prigionieri vengono liberati – un giudice, il borgomastro e cinque scabini vengono afferrati e gettati uno a uno dalle finestre e letteralmente fatti a pezzi dalla folla sottostante. È la prima «defenestrazione» di Praga. È il 30 luglio del 1419. La folla conquista tutta la riva destra della città. Le violenze, i saccheggi e le devastazioni anticattoliche durano tre giorni. La città ribelle esulta. Ma la situazione è tutt’altro che semplice. Intanto, la sollevazione ha preso sempre meno incerti caratteri antimonarchici e antimperiali, e dunque antitedeschi. Ma appunto tedeschi sono molti degli esponenti della nobiltà, anche di quella che ha appoggiato le insorgenze anticattoliche o ha addirittura abbracciato il nuovo credo. Buona parte del ceto medio è ormai hussita, ma non ama gli estremismi di cui Želivský e i suoi si fanno propugnatori. Il re è lontano, nel suo castello di Kunratice: è già gravemente ammalato, muore il 16 agosto.


…Praga, Tabor, il Guercio: ma la guerra è rivoluzionaria!

Arriva a Praga la notizia che l’odiato Sigismondo si è autonominato Re di Boemia. Forte della nuova carica, il Lussemburgo non attende che un segnale: che arriva puntualmente agli inizi del 1420. Martino V scomunica Praga e l’intero movimento hussita. Il re proclama una Crociata, raduna un esercito e invade la Boemia. Ma le cose per lui non muovono nella direzione giusta. A Praga le varie fazioni hanno raggiunto una sorta di accordo che include anche i filoimperiali. Sono in corso di elaborazione, con un forte contributo da parte del magister Jakoubek, i Quattro Articoli di Praga, sorta di dichiarazione dottrinaria che mirava a definire i punti comuni all’intero movimento hussita: libertà per i preti e per i laici di predicare le Sacre Scritture in boemo; Eucarestia con le due Specie; espropriazione dei beni ecclesiastici e rinuncia ai beni materiali da parte del clero; pene esemplari per i peccati e i reati commessi dai religiosi. I gruppi più dissidenti ed estremistici hanno lasciato Praga per fondare le loro comunità, acquistando con ciò forza, determinazione ma soprattutto libertà d’azione: prima tra tutte, quella che prende il nome di Tabor, a una sessantina di leghe a sud della capitale, e che subito si trasforma da accampamento provvisorio in una munitissima fortificazione. I taboriti possono così organizzare il proprio movimento in senso collettivistico e in forme esplicitamente comunistiche, preparando le proprie forze con ciò ad affrontare una guerra senza quartiere. Žižka, che aveva preso parte alla fondazione di Tabor, si è impegnato in una campagna militare volta a sconfiggere le fazioni boeme avversarie agli hussiti ma sta anche affrontando il compito di organizzare un nuovo esercito capace di fronteggiare le armate imperiali. Organizzazione per la quale sta ricorrendo a nuove, incredibilmente moderne tattiche di armamento, di schieramento e di combattimento. Vale la pena di guardare per un attimo, alle principali di queste innovazioni. Il Guercio sa che la base di reclutamento di questa sua armata è fatta da contadini che non possono certo essere trasformati in cavalieri ma non arrivano neppure a potersi pagare l’attrezzatura tradizionale del combattente a piedi, spada, scudo, giaco di maglia, elmo, lancia o spada. E ha già ben presente il potenziale letale delle armi da fuoco, archibugi e cannoni di piccolo calibro, già diffuse tra le truppe, senza che però di esse sia chiaro un impiego che risulti strategico. Ecco dunque l’invenzione del wagenburg: carri da lavoro agricoli, trainati da buoi, corazzati con pesanti tavole di legno munite di feritoie, che vengono disposti in circolo come fortezze mobili, dai quali possono partire salve d’archibugio e ripetuti colpi di cannone, e dai quali possono sortire a terminare lo scontro reparti scelti di armati sino a quel momento tenuti al riparo. Ma per tornare a Sigismondo e al suo esercito: pur avendo già subito notevoli perdite in alcune scaramucce tra avanguardie; e pur battuto duramente sulla collina di Vitkov in una battaglia nella quale può saggiare non soltanto la tenacia e la determinazione, ma soprattutto le grandi capacità tattiche e strategiche del suo avversario, l’Imperatore entra a Praga e si fa incoronare re in una posticcia cerimonia nella chiesa di San Vito, ma si ritira subito, lasciando che la fortezza di Vyšehrad, ancor in mano ai suoi, venga assediata ed espugnata. La Crociata contro gli hussiti è praticamente fallita.


Una pace sempre più difficile

Ma la sconfitta di Sigismondo lascia ai vittoriosi una sorta di vuoto di iniziativa entro il quale il movimento ribelle comincia a fare i conti con sé stesso. E le somme cominciano subito a non tornare. Intanto, diviene chiaro che è necessario creare per la Boemia ribelle una forma di governo che sia non solo militare e legato all’andamento della guerra. Viene all’uopo creato un Comitato provvisorio di 20 delegati a rappresentare la nobiltà, i cavalieri, l’esercito, le municipalità di Praga e delle altre città imperiali e le comunità taborite. Tra essi in posizione di rilievo Žižka. Appare poi sempre più evidente che tra gli husité, accanto ai riformatori cittadini moderati, calixtini, kališnície utraquisti; e ai più radicali tàboritès, molto coesi tra loro nel loro comunisteggiare ma soprattutto rigorosi e disciplinati, si sono formate sacche di estremismo religioso e sociale di ogni coloritura, alcune capaci di spingersi oltre ogni forma di costume morale e di pratica civile.

Il più noto di questi raggruppamenti è quello dei Pikarti, o Picardi, liberi pensatori in qualche modo seguaci delle pur indistinte Fratellanze del Libero Spirito, allora ritenute di origine franco-italiana. Tra loro è pratica comune quella della condivisione di ogni bene ma è per di più diffuso il rifiuto di ogni ecclesiologia e di ogni ritualità sacramentale, e di ogni forma di obbedienza. Ma ben oltre si dice si siano spinti in ogni caso (…omnia munda mundis…) gli Adamité, che praticherebbero la più sfrenata indisciplina sessuale e avrebbero preso a mostrarsi in pubblico, uomini e donne, col loro corpo nudo. Loro «profeta» è lo spretato Martin Huska, detto Loquis, e il loro quartier generale è un’isola sul fiume Nezàrka. A Žižka viene chiesto di «normalizzare» la situazione. In entrambi i casi, l’azione di repressione è dura e spietata, numerose sono le uccisioni e le esecuzioni, se non le stragi. A Praga, intanto, le autorità municipali hanno provveduto a neutralizzare il ritorno sulla scena cittadina di Jan Želivský, che aveva tentato di lanciare una nuova campagna di agitazione sociale, mandandolo chiuso in una botte al rogo (!) e decapitando un certo numero dei suoi seguaci. A quel punto, Žižka e i suoi non possono che avvertire un sempre più accentuato disagio per ciò che sta accadendo, e di cui sono corresponsabili, e tornano a rivolgere la loro azione verso le sacche di resistenza filoimperiali che in Boemia non sono state ancora debellate, come quella che fa capo al nobilato cattolico dei Rožmberk. In una di queste battaglie di retroguardia, il leader hussita perde l’altro occhio e rimane completamente cieco, non perdendo con ciò, però, autorevolezza e capacità strategiche. Siamo verso la fine del 1421. A Praga, tra gli utraquisti più moderati, si va facendo strada la convinzione che Žižka e i suoi stiano cominciando a essere un ostacolo verso una possibile pacificazione e una qualsivoglia ricomposizione dei rapporti tra la Boemia e l’Impero.


Guerra, guerra e ancora guerra

A impedire che questa situazione vada sempre più vicina a una crisi interna, provvede inconsapevolmente Sigismondo, che non pago del fallimento della Prima, lancia una Seconda Crociata. L’esercito del Lussemburgo prende di sorpresa la città mineraria di Kutnà Hora e sembra aver accerchiato l’esercito del Cieco, che è accampato nei pressi. Ma non è che un’illusione: con una manovra che gli storici militari considera la prima battaglia nella quale venga impiegata l’artiglieria corazzata, Žižka infligge agli imperiali una terribile lezione. Sigismondo perde 12 mila uomini ed è costretto a una precipitosa ritirata: la nuova Crociata si conclude con un ulteriore massacro di imperiali a Německý Brod, a sud est della capitale. Ma ancora una volta la pace non porta pace. Le armate hussite «lealiste» devono difendersi nell’aprile del ’23 (…lo fanno facilmente!) da un colpo di mano utraquista a Horice. Poco dopo, affrontano vittoriosamente Zygmund Korybut, principe lituano che aveva avanzato pretese nei confronti di alcuni territori di confine e si era alleato con Bořek z Miletínek, nobile utraquista. Quest’ultimo viene sonoramente sconfitto nei pressi di Hradec Králové. È nei pressi di questa città, sulla sommità di una collina subito ribattezzata col nome di Oreb, che intorno a Žižka prende forma stabile una comunità in armi non dissimile da quella dei Taboriti. Subito dopo gli incerti risultati di una breve campagna condotta in Ungheria, il Cieco sconfigge per due volte calixtini e utraquisti e li costringe a una pace che dovrebbe essere resa duratura da una campagna comune contro la Moravia nella quale gli Imperiali sono ancora forti. Muore però improvvisamente e improvvidamente di peste nell’ottobre del 1424. Della sua figura, rimangono aperti e oscuri alcuni lati: soprattutto quello della ferocia da lui usata sul campo di battaglia e nella repressione contro le dissidenze «a sinistra». Tratto abituale comunque al suo tempo. E a ogni rivoluzione, che non è mai, tanto meno nel XV secolo, un pranzo di gala, un’opera letteraria, un disegno, un ricamo. Del suo operato, sono comunque certezze l’abilità in campo militare - è tra i pochissimi condottieri europei di tutte epoche a non aver mai perso una battaglia; e l’amore e la devozione che i suoi uomini gli portano: alla sua morte, gli Orebiti cambiano nome e prendono quello di Sirotcí, gli Orfanelli.


Come viene sconfitta una rivoluzione

La successione al comando delle armate radicali da parte di Prokop il Calvo (o il Buono, o il Grande), ex sacerdote che era stato sino ad allora tra i luogotenenti del Guercio, permette un certo ricompattamento tra le varie fazioni radicali. Che si trovano ad affrontare sempre e comunque gli Imperiali: intanto nel 1426 e poi nel 1429, con una incursione in territorio tedesco che arriva in pratica a Norimberga, e ancora nel 1431, riportando sempre chiare vittorie. Questa rinnovata forza boema porta gli Imperiali a tentare la via della trattativa. Iniziata nel gennaio del ’33, essa non tarda a fallire, anche perché la confusione del Concilio di Basilea, nel cui contesto si svolge, non contribuisce certo a far arrivare a un possibile compromesso. Ancora una volta, dunque, gli hussiti radicali debbono affrontare la guerra. Con i cattolici come sempre, ma anche con i calixtini e gli utraquisti, stavolta più forti e determinati che in passato. Prokop pone l’assedio a Plzen, ma il suo esercito cade in preda ai contrasti interni e si sbanda. Il Calvo ritorna a Praga, e in suo aiuto accorre un comandante taborita che porta il suo stesso nome, e che tutti prendono a chiamare il Minore. Ma la capitale è caduta in mano a una confederazione di nobili, sia utraquisti sia cattolici, che sono determinati a raggiungere, costi quello che costi, una qualunque forma di pace. È la stessa alleanza politico-religiosa che ha trattato a Basilea i Compactata, una rielaborazione dei Quattro Articoli «eretici» del 1420 che tenta con un certo successo di farli ritornare in una qualche sorta di ortodossia. Alla fuga da Praga, segue per i due ultimi capi della grande rivoluzione hussita un ultimo tentativo di resistenza: infranto nella battaglia di Lipany del 30 maggio 1434, nel corso della quale vengono entrambi sconfitti e uccisi da una armata mista di utraquisti e di imperiali.


Un ultimo sguardo

Un epilogo in qualche modo prevedibile. Anche se poi di vero epilogo non si tratta: dopo la sconfitta dei Taboriti, degli Orfanelli e del radicalismo husité si apre in realtà un ulteriore lungo periodo di incertezze politiche e istituzionali, di cui vale la pena di dare qualche cenno. Il titolo di Re di Boemia che Sigismondo vanta di possedere dall’ormai lontano 1420 è stato in qualche modo assorbito, e rafforzato, dalla sua incoronazione a Imperatore di tredici anni più tardi. Ciò non ha impedito comunque che a Praga lo schieramento trasversale dei moderati che aveva battuto i Taboriti non continui nei ripetuti tentativi di ottenere se non una vera e propria riconciliazione con Roma, almeno una qualche forma di sia pur informale tolleranza nei confronti, per esempio, dell’uso delle Due Specie nell’Eucarestia, che tanto favore ha incontrato tra i fedeli ben prima di altre sottigliezze o disquisizioni teologiche. Sigismondo muore comunque nel 1437, e con lui si estingue la dinastia dei Lussemburgo. Il lungo vuoto di potere che si apre provoca un altrettanto prolungato periodo di apparente disinteresse da parte dell’Impero nei confronti della vicenda boema. Vicenda che continua dal canto suo a essere animata dal tentativo di ascendere al trono, protrattosi per lunghi anni, da parte di Jiří z Poděbrad, esponente della nobiltà cattolica, disposto a tutto, anche alla conversione all’utraquismo, per riuscire nell’impresa. Ma capace anche, una volta salito al trono nel 1458, di difendere i Compactata dalle rinnovate pressioni dei Pontefici romani, il bellicoso Pio II Piccolomini in particolare, e garantire ai suoi sudditi una qualche pace religiosa anche oltre il 1471, anno della sua morte. Pace che dura almeno sino al 1512, e sino a una Dieta che sancisce nuovamente le differenze in materia di fede tra kališníci e cattolici. Ciò che accade dopo questa data diventa racconto che non può qui continuare. Vale la pena solo di accennare che all’epoca della Riforma Lutero trova tra quelle di Huse le sue dottrine singolari coincidenze: cosa che spinge molti hussiti a diventare luterani. Va detto anche che un inaspettato riemergere di alcune vene di radicalismo di origine taborita riaffiora per prendere la forma di quelle Unitates Fratrum boeme e morave che come chiese indipendenti accolgono personaggi del più libero, più sofisticato pensiero, del calibro di Jan AmosKomenský - Comenio.


Un tumulto, un’insorgenza, una ribellione diventa una rivoluzione quando propone la totalità di una trasformazione rivoluzionaria, cioè un cambiamento radicale delle strutture economiche, sociali e politiche, insieme a un mutamento radicale della concezione del mondo e del senso della vita umana. È a partire da semplici paradigmi come questi che il grande movimento riformatore nato in Boemia a partire dai circoli universitari praghesi del Carolinum e della Cappella di Betlemme e ben simboleggiato dalla vita e dal sacrificio del predicatore Jan Hus, può e deve essere considerato una grande rivoluzione. Anzi, un vero e proprio paradigma della rivoluzione; lo direbbero in questo senso tutti gli elementi storico-critici attraverso cui potrebbe essere studiata e catalogata: condizioni generali del periodo, crisi economiche, sociali, politiche; irrompere di nuove ideologie e di nuovi orizzonti d’attesa; emergere di una nuova classe portatrice di nuovi bisogni e di nuovi desideri e dunque di un più convinto antagonismo sociale – e così via, comprendendo in questo studio critico anche l’analisi di certe dinamiche interne al processo, dallo slancio iniziale, alla lunga durata; all’inevitabile apparire di conflitti e di rotture tra le parti in gioco, sino al risorgere di nuove, più adeguate forme di autoritarismo. Personalmente, riterrei che una tale analisi sarebbe tanto più stimolante e significativa quanto più non venisse condotta come ricerca sulle antecedenze o sui prodromi di eventi o di cicli storici più significativi, qualificati e qualificanti, magari ancora a venire. Non penso che un qualunque militante hussita, dal Guercio all’ultimo Taborita, avesse di sé la percezione di essere soltanto un ingenuo e sfortunato predecessore di più maturi e risolutivi comportamenti futuri, e che il sistema di valori – sì, la religione, diciamolo pure – da cui aveva tratto ispirazione ed entro il quale stava formulando nuovi sogni e desideri, fosse solo un non aver compreso altre più importanti verità e altre visioni del mondo e della vita che prima o poi si sarebbe disvelate facendo maturare il mondo e la sua coscienza. È in un quadro come questo che si potrebbe apprendere attraverso il suo «sitz-im-leben», come direbbe il grande esegeta Bultmann, il suo «essere nella vita di allora» il reale valore di una espressione come «comunismo», e quali reali pratiche di vita essa implicasse e comportasse… Ma per tornare a una maggiore oggettività: un dato abbastanza poco rilevato, è che la figura di Jan Hus come eretico ed eresiarca sia tra le meno definite e più incerte che si conoscano di tutta la storia del dissenso religioso. Non c’è dubbio che il Concilio di Costanza abbia condannato certe tesi, ma è altrettanto vero che molte di esse non reggono come autentiche se confrontate con gli scritti del Maestro. In realtà Wyclef corredava le sue analisi sulla Chiesa e sugli abusi della Gerarchia con una precisa critica al sacramentalismo e ad altri dogmi di fede, ma lungo questo crinale Hus non si spinse mai. Singolare il fatto che, per esempio, poco prima di essere condotto al rogo il Maestro si confessasse con un altro sacerdote, non certo in segno di resipiscenza o di pentimento, ma come autentico atto di fede. Questa incapacità a emettere un giudizio certo sul personaggio e sulle sue dottrine è non dell’oggi.


«…Nell’istesso regno di Boemia erano li seguaci

di Giovanni Hus che si chiamavano calistini overo sub utraque,

li quali, fuori che in questo particolare che nella santissima communione ministravano al popolo

il calice, nelle altre cose non erano molto differenti dalla dottrina

della Chiesa romana…»

Chi scrive è Fra Paolo Sarpi, nella sua Istoria del Concilio Tridentino.

L’incertezza sull’operato di Costanza è giunta comunque sino a noi: Giovanni Paolo II, per esempio, ha mostrato più volte di considerare Hus un martire che in qualche modo appartiene all’ortodossia romana.

Abbondantissima nel mondo protestante la bibliografia su Hus.

Tra i pochissimi studi in italiano, considerato un classico il saggio di Amedeo Molnar pubblicato nel 1974 dalla Claudiana, la casa editrice della Chiesa Valdese, che contiene anche alcune pagine tratte dalle opere del Magister.


Due notazioni, poco più che aneddotiche: il 23 marzo 1430, Giovanna d'Arco, mentre era in corso una breve tregua con gli inglesi, scrisse una sorta di documento in cui minacciò gli hussiti di organizzare una crociata contro di loro se non fossero ritornati al cattolicesimo.

Nello stesso documento si chiedeva agli inglesi e ai loro alleati di unirsi ai francesi in una spedizione punitiva verso la Boemia. Il proponimento non ebbe alcun seguito.

Nel 1911, invece, un ancora socialista Benito Mussolini pubblicò un veemente ma improbabile opuscolo anticlericale dal titolo Giovanni Huss il veridico. Opuscolo che fece poi distruggere al profilarsi di possibili Patti Lateranensi.


Un’ultima considerazione, a parte: che non può essere che su Praga.

Ho sempre trovato Praga una città meravigliosa, soprattutto per la carica di storia che sa raccontare attraverso i suoi quartieri, le sue strade, i suoi palazzi, i suoi teatri, le sue birrerie: attraverso un’atmosfera di autenticità che sa vincere anche i troppi luoghi comuni, spesso anche pieni di fascino ma non veri, che su di essa si sono accumulati; e il troppo intenso sfruttamento turistico a cui negli ultimi anni è stata sottoposta. Su Praga è stato scritto il più bel libro che secondo me sia stato dedicato a una città: Praga magica, di Angelo Maria Ripellino, Einaudi 1973. Più attuale una storia della città agilmente scritta dal pur non amatissimo e spesso troppo imperioso Franco Cardini, che però di Praga mostra di sapere molto: pubblicata dal Mulino lo scorso 2020.

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