La tentata evasione dal carcere di Alessandria nel maggio del 1974
- Cesare Manganelli
- 9 set
- Tempo di lettura: 25 min
Aggiornamento: 12 set

Apriamo il nuovo corso della sezione «le spalle al futuro» con un articolo del curatore, Cesare Manganelli, dedicato al tentativo di evasione dal carcere di Alessandria del maggio 1974. Un episodio represso con la forza dagli apparati dello Stato, che resta uno dei fatti di sangue più significativi della storia carceraria italiana.
***
Nel numero unico del 1949 de «Il Ponte» Calamandrei raccolse alcune delle più significative testimonianze sul carcere e sul regime di detenzione dei prigionieri politici durante il fascismo. Era una rivisitazione della memoria che aveva, tra l’altro, lo scopo di riannodare alla Resistenza italiana le vicende della storia dell’antifascismo storico. La tesi era che negli «anni bui» del fascismo una minoranza di militanti e dirigenti politici aveva resistito per consentire l’incontro con i giovani protagonisti della Resistenza. Ma non possiamo sottovalutare che Calamadrei, dotato della sua notoria sensibilità di giurista, aveva anche scelto tale strada obliqua per documentare in modo inoppugnabile la condizione, storica e di lunga durata, miserabile e medievale, dei detenuti nelle prigioni in Italia. Il risultato fu sostanzialmente nullo, il sistema carcerario italiano rimase animato e diretto da uno spirito che era una miscela composta da lascito fascista, passato borbonico e ambiente, spesso, semifeudale. Conglomerato micidiale di abitudini e comportamenti extralegali e punitivi. Anche nel dopoguerra il cittadino rinchiuso nel sistema penitenziario perdeva immediatamente i diritti civili e politici come d’altronde non li conservava nell’esercito, negli istituti minorili, e nei manicomi. In generale nelle istituzioni totali in Italia vigeva in pratica un «altro» diritto che oltre a essere oppressivo avvelenava ogni tentativo di rendere meno illegittimo e ingiustificato il suo sistema di governo. Uno dei pochi testimoni attenti fu Antonio Pesenti che nel suo libro La cattedra e il bugliolo fin dal titolo rievocò, con la precisione dell’economista, i dati empirici, le minute angherie del sistema carcerario. Ricordò ad esempio che le verze coltivate nell’orto dai detenuti venivano accuratamente divise in due parti: le foglie gialle della verdura venivano riservate ai soli detenuti, la parte verde prendeva subito un’altra strada.
Dai primi arresti dei militanti di sinistra nel 1969 e negli anni seguenti, tale situazione venne per la prima volta non solo rivelata in tutta la sua crudezza di domino e brutalità, ma anche immediatamente contrastata dai detenuti con ogni mezzo a disposizione, con tutte e forme possibili, violente e non, legali ed extra-legali, con comportamenti individuali o in forme collettive. Venne formulata e preparata nel 1969 alle Nuove di Torino una piattaforma sostanzialmente «riformista» redatta da Sofri e Mochi con alcuni precisi obiettivi, anche se le forme di lotta spesso rimanevano, di fronte alla sordità del sistema politico e delle gerarchie con un’impronta violenta con una inevitabile deriva iconoclasta e distruttiva. La timida riforma del 1974, che era stata prontamente bonificata alla Camera dei suoi aspetti più innovatori (rappresentanza dei detenuti, scarico del debito economico, recidiva, ad esempio) prima di essere approvata, e l’irrompere della lotta armata con la susseguente formazione dell’area delle carceri speciali, il cosiddetto «circuito dei camosci», già peraltro ideato fin dal 1974 nella forma del concentramento del 2% dei detenuti più pericolosi, furono le tappe finali di questo periodo. La strage del carcere di Alessandria del maggio 1974 va quindi collocata all’interno e nella fase calante delle tensioni maturate nel primo periodo del movimento dei detenuti. Le risposte che le istituzioni, passato il primo periodo, decisero, per fronteggiarlo, a freddo e senza indugi. Reazione dello Stato che non prevedeva più un comportamento rivolto comunque anche alla mediazione e alla contrattazione d’urgenza con il movimento, in un rincorrersi parossistico di dure repressioni e di accordi di fatto e non di diritto.
In realtà la strage di Alessandria è stata da sempre allontanata dalla coscienza pubblica e istituzionale in città e nel Paese con un meccanismo di rimozione che in termini psicanalitici viene chiamato «disattenzione difensiva», ma ora sappiamo che il silenzio è soprattutto dovuto a una precisa scelta politica operata fin da subito, in concomitanza con gli eventi. La vicenda di Alessandria ha inizio in realtà il 24 febbraio 1974 a Firenze, nel carcere delle Murate, allorquando Giancarlo del Padrone, un detenuto di vent’anni detenuto per furto di auto e possesso di documenti falsi, viene ucciso, falciato da una raffica di mitra, mentre era sui tetti del carcere durante una delle tante ondate di manifestazioni e lotte nelle carceri fiorentine, uno dei penitenziari più turbolenti e ingovernabili. Proprio in quell’occasione si manifesta la prima aperta rottura fra la Commissione Carceri di Lotta continua, la sede di Lotta continua di Firenze – che era stata l’unica organizzazione che aveva per prima tentato di dare una struttura politica e informativa al movimento – e alcune aree politiche contigue a Firenze e a Napoli. Tra i fondatori e animatori del Collettivo Jackson di Firenze c’erano i fratelli Luca e Annamaria Mantini, entrambi poi morti durante la loro militanza nei Nap. Di sfuggita e solo per dare l’idea del destino crudele di quest’area politica ci basti richiamare il dato che su 65 inquisiti in totale i Nap ebbero 7 morti; la percentuale più alta di perdite (il 10%) e si resero responsabili diretti di 4 uccisioni, 6 ferimenti tra poliziotti e magistrati. Sulla separazione dei Nap da Lc si deve vedere Luigi Bobbio, Lotta continua. Storia di una organizzazione rivoluzionaria, Savelli, Roma 1979 che rimane il testo più serio e onesto sulla separazione di Lotta continua dalla Commissione Carceri. È da consultare anche un nuovo testo di Elisa Santalena e Guillame Guidon, La Lutte Emprisonée. Repression, Droit et revolution dans l’Italie des Annes 1970, Ed. Syllapse, Paris 2023 e, naturalmente il volume di ricordi e riflessioni di Pasquale Abatangelo, Correvo pensando ad Anna. Una storia degli anni Settanta del 2018. Da tenere presente anche L’aria brucia. Rivolta, solidarietà e repressione nelle carceri italiane (196-1977), Red Star Press, Roma 2018. Per quanto riguarda i collegamenti con Alessandria l’articolo che ho scritto nel 2014 La strage del carcere di Alessandria, la lotta armata e la strategia politica dei Nuclei Armati Proletari (1974-1975), in «QSC», 56, 2014 con la bibliografia citata.
La tentata evasione
Il 9 maggio alle ore 9,30 tre detenuti arrivati in infermeria con il pretesto della necessità di cure mediche, sequestrarono in successione ventiquattro tra insegnanti, detenuti e guardie. Dopo poco visto l’eccessivo affollamento si liberarono di alcuni detenuti fino ad arrivare a 14 ostaggi e due detenuti. Alle 10,30 il Procuratore di Alessandria si presentò al cancello dell’infermeria per la presa di contatto e il portavoce dei sequestratori, Cesare Concu, referente di Lotta continua nel carcere cittadino, fece presente che il loro obiettivo era una evasione «negoziata». Concu che era stato il leader della protesta collettiva nel gennaio dello stesso anno, cercherà di inserire la tentata evasione nel quadro delle proteste per il blocco della riforma carceraria. Nel comunicato che viene consegnato alle autorità si legge infatti che «gli ex detenuti». L’azione è stata provocata dal comportamento irresponsabile del Governo che si ostina a non concedere la riforma del sistema penitenziario e del codice penale. «Se essi fossero stati riformati noi avremmo potuto uscire, quindi, stanchi di essere presi in giro decidiamo di prenderci ciò che ci spetta. Togliendoci la recidiva soltanto noi saremmo già liberi, quindi tali ci riteniamo. Attraverso la nostra azione potete ben comprendere che siamo decisi a tutto, quindi niente discorsi inutili. Sappiamo precisamente quello che facciamo e ciò che vogliamo ottenere. Poiché non siamo degli sprovvediti, tutt’altro, abbiamo un buon bagaglio di esperienze, sarebbe quindi inutile e deleterio ogni vostro tentativo per ingannarci o sopraffarci, non pensate neanche lontanamente di usare qualsiasi mezzo di quelli già usati in simili circostanze perché questa volta essi si rivelerebbero inefficaci catastrofici per gli ostaggi». Il comunicato proseguiva dettando in modo preciso e attento i particolari dell’evasione «concordata»: il pulmino con i vetri oscurati nel cortile, i poliziotti come battistrada, una carta geografica del Nord Italia e le cautele tecniche contro i cecchini. E nel finale la minaccia esplicita verso gli ostaggi: dalle 9 del mattino successivo, dopo quattro ore, un’esecuzione ogni mezz’ora. Si lasciava di fatto un’intera giornata per lo svolgersi della trattativa. Nel comunicato consegnato a Reviglio della Veneria risulta evidente che i detenuti, in particolare possiamo ritenere che l’estensore sia stato Concu, già anima politica della sommossa di gennaio, cercavano con il comunicato di legare la loro azione individuale a una prospettiva collettiva, una delle indicazioni politiche che provenivano da Lotta continua, ma avevano dovuto prendere atto che la dinamica riformatrice si era interrotta e gli spazi di contrattazione si stavano restringendosi. In tal caso la parola d’ordine «liberare tutti» non poteva che avere immediata applicazione, si poteva adottava una forma di liberazione individuale che comunque in quegli anni era ampiamente approvata dal movimento. Sta già qui, nel rapporto fra la abituale pratica dell’evasione, con il suo inevitabile corollario della latitanza, prospettiva politica del gruppo e situazione di isolamento effettivo del Ministro Zagari nel quadro generale del Governo, che si vede l’inevitabilità della divisione definitiva fra Lotta continua e l’area politica che formerà i Nap. Nel comunicato viene inoltre precisato che i protagonisti dell’evasione non erano dilettanti, conoscevano tutti i trucchi, e che si era ben decisi a non farsi gabbare con manovre e cecchini e che l’inosservanza delle richieste dei detenuti avrebbe condotto inevitabilmente a una ritorsione spietata sugli ostaggi. Tristemente una previsione esatta di quanto sarebbe poi accaduto.
Dalla testimonianza successiva dell’unico detenuto sopravvissuto si venne a sapere che il tentativo era stata preparato in un lasso di tempo di 8 o 9 giorni e che le armi, due pistole, una mal funzionante e una in piena efficienza, erano state procurate da Di Bona attraverso i normali canali utilizzati per introdurre armi nelle carceri. Giovanbattista Lazagna nel suo libro più politico, Carcere, repressione, lotta di classe pubblicato nel del 1975 da Feltrinelli, dopo la sua carcerazione preventiva, indagato per i rapporti con le Br, dedica al problema una nota nella quale, in modo esplicito, ricorda a tutti, e senza tema di smentita, che nelle carceri italiane entra illegalmente tutto quel che è necessario ai detenuti purchè si abbiano contatti esterni affidabili e denaro. Nel nostro caso probabilmente il mezzo di introduzione nel carcere fu una latta d’olio che non venne debitamente visionata, anche perché la struttura del controllo era stata fortemente indebolita dalle lotte dei detenuti che, ad esempio, contestavano duramente il metodo con cui si controllavano i pacchi. Dalle indagini dei carabinieri i magistrati vennero a sapere che il pacco aveva mittente inesistente e anche la sua numerazione postale era stata alterata. Su tale questione si è costruito, insieme ai mancati trasferimenti, il romanzo e le sue inevitabili derive di trame nascoste, di provocazioni e, inevitabile e ripetitiva, della riproposizione della «strategia della tensione». Nella trappola dei «misteri d’Italia», con la conseguente abdicazione alla formulazione del giudizio politico e della ricerca storica sono caduti quasi tutti i commentatori, anche i più informati e attenti, della vicenda del carcere di Alessandria, spesso distratti, o meglio abbagliati, dalla concomitanza di due avvenimenti che si svolgevano in parallelo, e cioè il rapimento Sossi e il referendum sul divorzio. Eventi paralleli alla rivolta che in realtà hanno solo agito da copertura mediatica, come d’altronde era capitato con il famoso piano «arancia meccanica», che si rivelò poi essere un mero tentativo di allarmare l’opinione pubblica sul pericolo politico-criminale che avrebbe minacciato il Paese. Un ennesimo corollario della campagna «d’ordine» che avrebbe voluto identificare nel ciclo delle lotte del 1968-69 soltanto una sommossa della canaglia. La telefonata del 10 maggio del sindaco di Alessandria al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Sarti fu un disperato tentativo di fermare la gestione diretta di Reviglio e aveva lo scopo di trovare una soluzione negoziata si concluse con l’affermazione di Sarti che la domenica seguente, era venerdì, si sarebbe svolto il referendum sul divorzio e che non c’era alcuna intenzione da parte del Governo di impelagarsi con una rivolta in un carcere di provincia. La lettura della sentenza e degli archivi restituiscono invece la singolarità della vicenda pur collocata in un quadro in trasformazione. I critici dell’operazione del Procuratore della Repubblica di Torino, in particolare i gruppi extraparlamentari presenti in Alessandria, ed estensori dell’opuscolo La strage, infatti inseriscono nella cronaca e nell’introduzione alcune domande che trascinano il testo, puntuale nella ricostruzione e nell’analisi dei comportamenti istituzionali, alcune domande che ritenevano irrisolte:
– I mancati trasferimenti;
– L’ingresso delle armi;
– La composizione politica dei tre (un rosso e due fascisti);
– Il responsabile della morte del Dott. Gandolfi;
– Il ruolo dell’unico sopravvissuto Levrero.
A distanza di più di cinquant’anni nessuno di quei dubbi ha ancora una residua fondatezza, ora basta limitarsi a leggere la sentenza del 1979 pubblicata sulla più importante rivista giuridica italiana non su un oscuro bollettino delle avanguardie rivoluzionarie e ora consultare i documenti d’archivio. A parziale giustificazione degli estensori dell’opuscolo, e degli animatori nei mesi successivi del «Comitato 10 maggio», c’è da considerare che fino al 1974 il 94% degli attentati aveva, secondo le carte di polizia, una evidente matrice fascista; era difficile superare per tutti gli attori della sinistra italiana il problema della comparsa della lotta armata e quindi dei «sedicenti» o della «provocazione». A ciò bisogna aggiungere che il 1974 è l’anno di inizio di una nuova stagione stragista. Solo in una lettera su «Controinformazione» alcuni detenuti politici che erano stati militanti della XXII ottobre, dei Gap e dei commontisti non misero in discussione la scelta politica di Concu, riconoscendogli altresì la responsabilità politica della presenza dei fascisti nel gruppo; come aveva dichiarato Concu «in carcere si agisce con chi ci sta», e comunque il diritto all’evasione.
Solo per fornire anche un elemento quantitativo sull’episodio della tentata fuga dal carcere alessandrino si deve dare atto che ha costituito il più grave fatto di sangue della storia carceraria italiana, ancora più sanguinosa delle rivolte delle carceri nell’immediato dopoguerra, sommosse che furono soffocate con l’ausilio dell’esercito come quella ricordata come «Pasqua Rossa» a San Vittore. Nel 1974 trovarono la morte 7 persone (i due detenuti Cesare Concu e Di Bona Domenico, due guardie carcerarie Brigadiere Gennaro Cantiello e l’Appuntato Sebastiano Gaeta, l’assistente sociale Graziella Vassallo, il professor Pier Luigi Campi e il dottore Roberto Gandolfi). Nel settembre dello stesso anno a questa lista di morti ammazzati si deve aggiunge la morte di Bruno Soci, un giovane detenuto di 25 anni, che venne colpito da una raffica di mitra mentre stava scavalcando il muro di cinta in un tentativo di evasione. Cadde, ferito mortalmente, all’esterno della cinta del carcere sotto gli occhi allibiti e terrorizzati della sorella Marisa che lo attendeva fuori con l’auto, presumibilmente, per facilitarne la fuga e l’allontanamento dalla città. Il legame diretto della morte di Soci con la strage del maggio fu immediatamente colto e annotato dai commentatori più avveduti. «Il carcere di Alessandria tristemente noto come il più insanguinato d’Italia, è tornato al centro dell’attenzione in seguito ai due recenti episodi di cui si è occupata la cronaca: l’uccisione di un detenuto, raggiunto da una raffica di mitra sparate dagli agenti di custodia mentre si accingeva a superare il muro di cinta per evadere; e il tentativo […] che avrebbero fatto alcuni di far pervenire una pistola a un detenuto» Dal sacerdote e professore universitario Maurilio Guasco in un articolo da l titolo, Nel carcere di Alessandria, in «Il Regno» 15 ottobre 1974. L’autore fu coinvolto con Luciano Raschio, consigliere regionale comunista, in un tentativo di mediazione e di scambio di ostaggi che avrebbe dovuto svolgersi nella giornata del 10 maggio, ma che non era altro, per il Procuratore Reviglio, una semplice schermatura per preparare l’intervento armato. Naturalmente né Guasco, né Raschio erano consapevoli, così come la collega di Torino, Bandini, che si offerse anch’ella per essere scambiata con l’assistente sociale Vassallo, di essere solo parte di un offuscamento comunicativo il cui scopo era soltanto e unicamente a guadagnare tempo nell’offrire una speranza e una prospettiva ai tre detenuti. C’erano già stati due morti ammazzati il giorno prima e, in realtà, si erano probabilmente superati tutti i confini di ogni possibile e ragionevole e possibile mediazione tra le parti. Dopo l’arrivo di Reviglio e di Della Chiesa si formano due aree, due catene di comando che, comunque, non comunicavano tra loro e, soprattutto, non condividevano gli obiettivi e i metodi per ottenerli. Per il Procuratore di Torino, erede diretto di Giovanni Colli magistrato torinese che si era incaricato di demolire Lotta continua di Torino, rea del delitto di lesa Fiat, quel che contava in prima e ultima istanza era l’affermazione fino in fondo, della ragione di Stato; nessun ostacolo poteva impedire l’affermazione di questa linea e ogni altra via era considerata non solo errata, ma tendenzialmente complice del crimine. Orientamento diffuso nella magistratura italiana come si legge nel parere di Coco sull’ammissibilità dei ricorsi presentati in Procura dai cittadini di Alessandria. «Anche le censure dei cittadini Guasco Maurilio e altri, che potrebbero apparire più concrete e meglio articolate [ricorso avvocato di Levrero, unico sopravvissuto, Nino Musa Sale], risentono dell’indirizzo erroneo contro le autorità, in essi instillati da una propaganda male orientata e dissennatamente faziosa, (la quale, tra l’altro può risolversi, sia pure indirettamente e inconsapevolmente, nell’incoraggiare il ripetersi di siffatte condotte criminose)». Un’idea di Stato che aveva come immediata genealogia il codice Rocco, e che partiva da una cruda presa d’atto dello Stato come fonte unica della «dittatura «(limpidamente ancorate all’analisi di Carl Schmitt esposta ne Le categorie del politico e ne La dittatura, e cioè difesa a priori, extra legale dell’ordine politico e sociale anche solo astrattamente minacciato). Questa costellazione di poteri, che decise sempre senza esitazioni le diverse operazioni ebbe solo un aperto appoggio in città e nella folla che circondava il carcere. Ne erano protagonisti la sparuta pattuglia di fascisti che tentarono inutilmente di trasformare la gente assiepata in una folla pronta al linciaggio. Fallita questa manovra il Movimento sociale di Alessandria si dedicò alla ricerca dei colpevoli tra i militanti di Lotta continua con una precisa segnalazione sul giornale di partito e in Parlamento; una segnalazione con nome, cognome e funzione di una giovane militante che nel frattempo si era già prudentemente allontanata da Alessandria insieme ad Irene Invernizzi: Anna Rivera, questo era il nome della militante di Lc di Alessandria e Irene Invernizzi, erano state le interlocutrici della corrispondenza politica di Cesare Concu, la figura carismatica del movimento dei detenuti e riferimento politico del gruppo dentro il carcere di Alessandria. Alla strategia del Procuratore di Torino si contrapponeva l’altra area politica che era composta dal resto delle forze politiche, dagli amministratori locali – con il sindaco protagonista –, dai parlamentari, dalle autorità di polizia locale e dalla magistratura del Tribunale di Alessandria e dai gruppi extraparlamentari. Tali forze tentarono con ogni mezzo di evitare l’intervento diretto dei carabinieri. In realtà quando venne inventata l’esplosione di due colpi di pistola al solo scopo di giustificate il primo intervento, detonazione che indicava l’intenzione dei sequestratori di dare inizio all’uccisione sistematica degli ostaggi, i giochi ormai erano chiusi. Di Bona aveva effettivamente sparato nel pomeriggio, ma solo per dare conto della esistenza di armi funzionanti, come già d’altronde aveva avvertito in modo silenzioso il Dott. Gandolfi e come la Vassallo, ormai ostaggio anch’ella, con il segno della «V» di vittoria aveva informato sul numero delle armi. Durante la prima irruzione furono uccisi per ritorsione i primi due ostaggi da Di Bona e nulla e nessuno avrebbe potuto più interrompere la tragica catena degli eventi. Il finto incidente di frontiera di Gleiwitz, che segnò l’inizia della seconda guerra mondiale, rimane un classico caso che non viene mai sottovalutato per imprimere una direzione al corso degli avvenimenti.
Giudici e sentenze
Le conclusione del Tribunale di Genova forse riassumono meglio di qualunque altra il giudizio sugli avvenimenti.» a) dopo l’esperienza del giorno 9, che era costata la vita a due ostaggi, la decisione di ordinare un nuovo attacco contro i detenuti asserragliati con 16 persone in un vano di circa 9 metri quadrati, non poteva essere presa senza la previsione e la consapevolezza che un numero elevato di ostaggi sarebbe stato, in ogni caso, uccisa; b) per l’attuazione del primo tentativo di risolvere con un’azione di forza il giorno 9 maggio non si attese neppure l’avvicinarsi della scadenza dell’ultimatum [i fantomatici due colpi di pistola N.d.R.] posto dai tre rivoltosi (le ore 9 del successivo giorno); pur essendo evidente e notorio che il trascorrere del tempo, in tali circostanze, opera un progressivo logorio psico-fisico degli agenti che facilita e aumenta la le probabilità di insuccesso di un eventuale intervento; c) l’eventuale predisposizione di un’azione di forza doveva essere attuata con cautela e modalità tali da non indurre minimamente in sospetto i rivoltosi; al contrario, il Dott. Buzio nel rapporto in atto riferisce che «… il Concu … era stato messo in sospetto da questi movimenti e si mostrava più diffidente. Anzitutto non si mostrava più come prima davanti al cancello, non veniva più i generi alimentari che erano stati preparati…; infine aveva cominciato a barricare la porta interna dell’infermeria.»; d) l’azione di forza, sia il giorno 9 che il giorno 10, fu condotta con modalità tali da escludere completamente non solo la sorpresa, ma da impedire un effettivo contatto fra le forze dell’ordine e i rivoltosi: il giorno 9, l’apertura del cancello adducente all’infermeria si protrasse per oltre 10 minuti, consentendo ai tre rivoltosi un facile ripiegamento nel vano «vuotatoio»; sfondato il cancello la forza pubblica si fermò in corrispondenza della corsia precedentemente occupata senza proseguire verso il vano «vuotatoio»; il giorno 10, dopo il lancio di un ordigno lacrimogeno nella stanza occupata dai tre detenuti e dagli ostaggi, non vi fu alcun assalto da parte della forza pubblica, schierata in fondo alla corsia, tanto che Di Bona ebbe il tempo di sparare almeno 6 colpi di rivoltella su bersagli diversi (e quindi di ricaricare l’arma a cinque colpi), di raggiungere Concu in uno dei gabinetti, uccidere la Sig.a Vassallo e suicidarsi, prima che qualche agente facesse irruzione nella stanza; le deposizioni d’altra parte, hanno consentito che il lancio del lacrimogeno non fu seguito da una pronta irruzione della forza pubblica, ma che questa attese che gli insorti uscissero dal vano per effetto del gas; d) che, per tali considerazioni nella condotta di coloro che, in quelle particolari circostanze, decisero reiteratamente l’uso della forza pubblica, nonostante la prevedibilità delle conseguenze per l’incolumità dei civili e degli ostaggi militari, nonché nella condotta di coloro che organizzarono e diressero tali interventi con modalità di attuazione dissennate, possono ravvisarsi elementi di colpa penale che meritano un vaglio adeguato».
Partiti politici e scelte mediatiche
Un giudizio negativo netto e che non lascia spazio ad alcuna altra considerazione o giustificazione. La conduzione delle giornate del 9 e 10 maggio era stata avventata e inefficace nei tempi e nelle modalità operative. Soprattutto gravemente lesiva dei diritti degli ostaggi allorquando si rilevava che, dopo il lancio dei lacrimogeni e la faticosa apertura delle porte blindate, non vi fu irruzione delle forze dell’ordine, ma vennero lasciati gli ostaggi in balia dei detenuti il tempo necessario per ucciderne ancora tre. Concu infatti fu ferito mortalmente mentre correva verso i carabinieri; elemento di fatto che ci dice che polizia e carabinieri non erano entrati nel «vuotatoio» se non alla fine della mattanza e della resa di Levrero. L’indicazione della Corte di Genova di indagare sulla rilevanza penale di quanto accaduto non venne raccolta e il giudizio negativo sull’operato di Reviglio fu espresso solo in sede di risarcimento civile delle vittime. Come osservava la rivista «Quale giustizia» nel 1979 «di Procuratore generale si muore». Affermando che l’unico scampato alla strage fra i tre detenuti ribelli, Everardo Levrero, non sarebbe stato processato prima che Reviglio della Veneria fosse andato in pensione». I dubbi, le critiche, il senso di frustrazione dovuta alla brutalità dell’intervento e all’emarginazione di ogni altra istituzione o partito si concretizzarono molto prima in un esposto al tribunale di Genova, il 10 febbraio 1975. Nell’esposto preparato dopo pochi mesi dalle forze politiche locali vennero riunite tutte le osservazioni critiche alla gestione della crisi da parte del Procuratore generale. Tra le altre accuse di inefficacia, incapacità e uso fraudolento di notizie false, quella più fragorosa e cioè di non aver salvaguardato la vita degli ostaggi. «Un’attenta analisi dei fatti […] rende inevitabile la domanda: tra i due valori, incolumità degli ostaggi e ripristino dell’ordine pubblico, momentaneamente incompatibili, quale fu sacrificato dalle decisioni delle autorità? «. Le osservazioni critiche avevano rigorosamente come base le fonti pubbliche e giornalistiche, anche perché le notizie che venivano da fonti interne non potevano essere citate e i testimoni diretti dovevano essere salvaguardati. Lotta continua conservava dei rapporti politici con altri detenuti che, infatti, una volta usciti in carcere, si fermarono in Alessandria. L’estensore del testo era sicuramente l’avvocato Andrea Ferrari, prestigioso professionista alessandrino, che fra i firmatari era l’unico ad avere sufficiente cultura giuridica per cercare di collocare al centro del processo il ruolo della Procura. Se l’obiettivo principale dei firmatari dell’appello era individuare le responsabilità politiche, c’era anche il problema di coprire gli informatori «informali» che avevano raccontato i particolari più compromettenti della vicenda. Difatti ogni contestazione è ufficialmente ricavata da dichiarazioni raccolte dalla stampa. I firmatari erano i più importanti uomini di cultura, dei partiti e del governo locale. Tutte le aree politiche presenti in città erano rappresentate: il mondo cattolico, i socialisti, i repubblicani, i democristiani, gli intellettuali che provenivano dal Psiup e i gruppi extraparlamentari. Salta agli occhi la mancata presenza dei comunisti, ma noi sappiamo che fin dall’inizio della vicenda, presumibilmente il giorno 9 maggio, il segretario di federazione aveva ricevuto una comunicazione telefonica da Pecchioli.
Franco Livorsi, professore di storia del pensiero politico e, al tempo, assessore comunale alla cultura per il Pci, in un articolo sul giornale locale nel 2004 scriveva che l’orientamento generale del Partito anche a livello nazionale, era diverso da quello di tutti gli altri partiti e organizzazioni e partiva da basi che conducevano a scelte opposte a quelle di Luciano Raschio. L’ex partigiano Raschio non si era tirato indietro di fronte all’emergenza proponendosi come ostaggio. Nel novembre del 1974, sul giornale locale del Partito, Maurilio Guasco prendeva atto della messa in disparte della loro ipotesi che riassumeva in poche parole. «Le alternative erano due: permettere l’evasione, sapendo che questa non garantiva la vita di tutti gli ostaggi (i detenuti avevano dato garanzie sulla loro vita, ma non si può escludere categoricamente che non pensassero, in seguito, di compiere qualche vendetta personale); tentare l’irruzione con la forza, con la "sicurezza" che qualcuno degli ostaggi sarebbe stata ucciso. (…) Personalmente essendo stato sul posto per le trattative, ero assolutamente convinto che la prima ipotesi fosse la sola ragionevole. Tre evasi in più fra i tanti e conosciuti da tutta la polizia italiana, aveva detto un magistrato alessandrino [Marcello Parola, Sostituto procuratore] non saranno certo un colpo mortale al prestigio dello Stato», «La Svolta» Novembre 1974. Uno dei massimi dirigenti provinciali di Alessandria, Carlo Pollidoro (1927-2003, Senatore dal 1976 al 1987) si era messo immediatamente in contatto con Ugo Pecchioli per mettere ordine nello scontro interno di opinioni e atteggiamenti. Secondo Pecchioli la linea corretta del Partito era quella di impedire il successo degli evasi per evitare il dilagare del fenomeno delle evasioni con ostaggi. Ma, e forse dato ancora più importante, e da tenere riservato, Pecchioli comunicò ai dirigenti provinciali che il neo generale di brigata Alberto Della Chiesa «era un uomo di cui avremmo dovuto fidarci totalmente, uno dei pochi servitori dello Stato costituzionale per noi affidabili». Per un altro contesto politico e geografico lo stesso Livorsi informa che già nel 1974 era stata attivata una struttura informativa parallela composta e diretta dal Partito che aveva lo scopo di monitorare le prime esperienze della lotta armata nella zona del Basso Piemonte con una particolare attenzione alla figura del comandante partigiano Giovan Battista Lazagna. Che non si trattasse di una iniziativa estemporanea si può desumere dal fatto che era composta dall’ex combattente di Spagna e prigioniero per tre anni dei titini, Andrea Scano, e dal presidente dell’Anpi di Alessandria. Ed è alla luce di questa indicazione di carattere generale e, nel contempo in quel tempo assolutamente confidenziale, che dobbiamo leggere il manifesto e il volantino diffuso in citta dal Pci alessandrino.
«Tre delinquenti del carcere di Alessandria hanno sollevato coi loro atti criminali sdegno e costernazione nella nostra città. I comunisti alessandrini esprimono alle innocenti vittime della follia omicida e alle loro famiglie la più fraterna e commossa solidarietà. Il Pci incita tutti i cittadini a essere uniti in questo grave momento di dolore per salvaguardare la convivenza civile e l’ordine democratico. Sia respinta fermamente ogni provocazione, siano isolate nel disprezzo le ignobili speculazioni fasciste. La grande forza dei cittadini di Alessandria sta nella loro coscienza democratica, nella loro unità, nel loro senso di responsabilità». Un testo che commenta un fatto di delinquenza comune e si accontenta di invitare alla calma. Le uniche parti di testo del manifesto che alludono a temi politici sono quelli riferiti alle possibili «provocazioni» e alle strumentalizzazioni fasciste dell’accaduto. Dei tentativi dei fascisti alessandrini di spingere verso una resa dei conti con la sinistra e della spinta a scatenare una piazza «d’ordine» ne abbiamo già accennato, ma delle difficoltà del gruppo dirigente locale e nazionale del Partito comunista a orientare una linea politica che andasse oltre la semplice «vigilanza democratica» ne fa fede anche un documento successivo redatto dallo stesso Pecchioli. In una bozza della interrogazione parlamentare sulla vicenda del carcere scriveva:
«A seguito del tragico, criminale gesto dei tre detenuti del carcere di Alessandria che ha provocato la morte di civili e di agenti i sottoscritti […]
1. Se corrisponde al vero la notizia secondo la quale i detenuti responsabili del gesto criminale erano in lista di trasferimento già inoltrata dalla Direzione del carcere al Ministero e il perché di questa richiesta;
2. Se l’azione condotta dai tre detenuti nel carcere alessandrino è da inquadrare in un piano più nella protesta di carattere generale definita «arancia meccanica» di cui i ministeri sarebbero stati informati tempo prima;
3. Se il Direttore del carcere e il capo delle guardie carcerarie avevano avuto sentore che all’interno del carcere vi erano o vi potevano esserci armi;
4. Se il Direttore del carcere e e il comandante avevano sentore della circolazione di lettere e missive fra l’esterno e i detenuti che avevano chiesto il trasferimento; «(Fondazione Istituto Gramsci, Fondo Pecchioli, bozza interrogazione Parlamentare, s.d. (maggio 1974).
Il testo dell’interrogazione è rivolto esclusivamente a determinare se vi erano state errori e mancanze nella gestione del carcere. I due accenni alle proteste e ai comportamenti dei detenuti sono cancellati dal dattiloscritto con tratti di penna. Ora che conosciamo le indicazioni che Pecchioli diede e dettò al Partito ci possiamo valutare la linea che Pecchioli impose a livello locale, forte del preminente ruolo di referente politico del partito nella lotta contro le Brigate rosse e «ministro dell’interno» ombra. L’assenza di un qualunque giudizio, un silenzio-assenso de facto, sull’operato delle forze dell’ordine e del Procuratore di Torino era quindi direttamente conseguente alla scelta politica di non muovere critiche a personalità politico militari considerate vicine. (sul percorso della riflessione del Pci nella definizione del rapporto con le forze alla sua sinistra fino alla lotta armata si veda Alessandro Naccarato, Difendere la democrazia. Il Pci contro la lotta armata, Carocci editore, Roma, 2015, pp. 15-90). Una conferma dell’orientamento del Partito Comunista viene dalla riflessione sul rapporto del Pci con la lotta illegale e violenta praticata e teorizzata alla sua sinistra. «Da questo momento [l’ultima proposta avanzata ai quadri reggiani delle Br che provenivano dall’»appartamento» di consegnarsi a un giudice amico], in particolare dopo il sequestro Sossi, il Pci sarebbe passato a forme di contrasto più nette e a una collaborazione senza riserve con il nucleo di Dalla Chiesa» (Davide Serafino, Dal Gruppo 22 ottobre alle Brigate rosse, Pacini Editore, Ospedaletto 2016, p. 140). La scelta della collaborazione con le aree politico-militari che nelle istituzioni (i carabinieri di Della Chiesa e Improta per la Polizia di Stato) si stavano attrezzando a combattere il nascente fenomeno della lotta armata era rimasta sottotraccia, ma aveva indotto a incontri riservati e accordi informali che avranno un peso decisivo nello sviluppo della politica del partito. «Il generale Nicolò Bozzo ha testimoniato che fin dal dicembre 1973 – dopo il sequestro Labate a Torino nel febbraio dello stesso anno, ma soprattutto quello del dirigente Fiat, Ettore Amerio – Pecchioli e alcuni collaboratori, tra cui il segretario del Pci genovese Lovrano Bisso, si erano incontrati con il generale Dalla Chiesa e il Procuratore Reviglio della Veneria. «Anzi, per essere più precisi ricordo che la prima riunione, alla quale parteciparono anche i carabinieri e il questore di Genova, De Longis, si tenne immediatamente dopo l’irruzione delle forze dell’ordine nel carcere di Alessandria». testimonianza di Lovrano Bisso nel 2007 Roberto Bartali, Il Pci e le Brigate rosse in Le vene aperte del delitto Moro. Terrorismo, Pci, trame e servizi segreti a cure di Salvatore Sechi, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2009, pp.93-94. Il generale in accordo con Pecchioli «aveva combinato una serie di contatti permanenti tra i dirigenti locali del Pci e Ufficiali superiori del Nucleo Speciale. […] con Bisso ci incontrammo una prima volta in un circolo culturale, un’emanazione del Pci, lontano da sguardi indiscreti e da quell’incontro nacque poi una solida amicizia» (Michele Ruggiero, Nei secoli fedele allo Stato. L’Arma, i piduisti, i golpisti, i brigatisti, le coperture eccellenti, gli anni di piombo nel racconto del generale Nicolò Bozzo, Fratelli Frilli Editore, Genova 2006, p. 157). I due uomini, Pecchioli e dalla Chiesa, sempre secondo l’opinione del generale Bozzo, erano fatti per intendersi l’un l’altro: uomini d’azione, fedeli alla loro organizzazione, piemontesi della stessa generazione e combattenti della Resistenza, sapevano di parlare la stessa lingua concreta. Naturalmente si trattava di un rapporto politico-militare di sapore nettamente anticostituzionale ed extralege che non venne parzialmente alla luce se non dopo l’uccisione di Aldo Moro e Guido Rossa parecchi anni dopo. In realtà possiamo pensare a entrambi come i custodi della stabilità generale come furono analizzati da politologo Albert Dahl, e cioè responsabili di quelle aree di potere funzionale che non avevano prerogative di governo, ma in realtà vigilavano e agivano anche contro le direttive del sistema complessivo. Anche nel caso delle memorie del generale Bozzo è evidente la compressione temporale verso gli avvenimenti più vicini e importati. Più prudente il ricordo di Pecchioli che fa riferimento a incontri riservati solo durante il sequestro Moro e al periodo successivo. Di certo Dalla Chiesa è citato nel libro più di Cossuta e Pajetta (Ugo Pecchioli, Tra misteri e verità. Storia di una democrazia incompiuta, Baldini&Castoldi, Milano 1995, pp. 144-148). È evidente che le testimonianze orali e i ricordi autobiografici di protagonisti, pentiti e mitomani vanno accolte con una grande prudenza per evitare di riscrivere la storia a partire dal futuro e cioè dalla legittimazione del Pci nella lotta contro le formazioni armate. Ma la rimane il dubbio che forse la svolta del compromesso storico, elaborata in interiore homine da Berlinguer e illustrata dal Segretario tra il settembre e l’ottobre del 1973, con tre articoli su «Rinascita», è stata accompagnata successivamente da una presa di contatto, informale e coperta, con alcuni apparati e strutture profonde dello Stato come ad esempio i carabinieri e l’organigramma dei Pubblici Ministeri. Una «lunga marcia» all’interno delle istituzioni che si alimenta della prassi che i partiti comunisti hanno sempre avuto di assoluta indifferenza del rispetto della legalità istituzionale. Di tutte le caratteristiche «antagoniste» del partito italiano alla fine era rimasta solo questa: la sostanziale capacità di non avvertire gli obblighi costituzionali, come la divisione dei poteri, quando erano in ballo la sicurezza del partito, la presenza di concorrenti a sinistra e il finanziamento. Per arrivare alla radice di tale posizione, e non scomodare Lenin conviene andare al saggio György Lukács Legalità e illegalità in Storia e coscienza di classe. Si tratta di una ipotesi, la coincidenza temporale fra il quadro progettuale del compromesso storico e l’avvicinamento, la ricerca di sponde nel corpo dello Stato, che sorge da un avvenimento minore della storia italiana, ma che è comunque innegabile e rimane come un punto di partenza per chi volesse pensare a una ricerca che arricchisca il contesto di quel programma politico che ebbe inizio alla fine del 1973 e si chiuse nel 1980.
Il 14 febbraio 1975 il Comitato 10 maggio inviava alla stampa nazionale un documento nel quale si riepilogavano i temi della critica e della protesta contro i metodi utilizzati per soffocare l’evasione dei tre detenuti. Nel documento si prendeva atto con soddisfazione del radicamento del processo a Genova, sottraendolo al Tribunale di Torino, e si auspicava un giudizio rapido sui fatti di Alessandria. Il documento era sottoscritto da una settantina di firme raccolte a livello nazionale, ma sembra in modo caotico. La maggior parte dei firmatari erano magistrati come Giuseppe Branca e Luigi di Marco, avvocati, scrittori (Franco Fortini), giornalisti (Camilla Cederna e Giuseppe Turani), avvocati e docenti universitari (Luciano Canfora e Nicola Tranfaglia). Il manifesto non venne mai pubblicato sugli organi di stampa ed ebbe scarsa eco. Nulla di quanto che si riteneva ovvio nella larga parte della città riuscì a superare i suoi confini. Il risentimento della classe politica e degli intellettuali di Alessandria, nella sua accezione più ampia, nei confronti dell’azione delle autorità viene ribadito apertis verbis nel testo del manifesto. «Vada rifiutata la logica di anteporre l’onore e la ragione di Stato al rispetto della integrità e della vita umana; che in esempi come questo debba essere determinante il peso e il giudizio delle forze locale democratiche e popolari e che il loro intervento attivo oggi debba servire a respingere eventuali prevaricazioni sull’istruttoria in corso come purtroppo altri esempi insegnano». In poche righe si legge la frustrazione di chi in nessun modo era riuscito, almeno a rallentare, il corso degli eventi. Tutte le istituzioni locali, elettive e non, erano state sistematicamente escluse dalle decisioni operative. Uno schiaffo terribile che la città intera decise di dimenticare, ma che rimane come il simbolo e il ricordo di una umiliazione collettiva. Il giovane magistrato Marcello Parola in quei terribili frangenti venne allontanato da Reviglio mentre esprimeva francamente la sua opinione avversa all’intervento, (rivolgendosi a Buzio, procuratore Generale di Alessandria «ma questo giovane procuratore non ha nulla da fare…). «Al momento avevamo in Italia 50 evasi, potevamo anche arrivare a 53.» Tale la dichiarazione che esprime una valutazione realistica e svela che il vero motivo della strage non risiedeva nella salvezza degli ostaggi e della legge, ma interamente nella intenzione di annientare il movimento dei detenuti ancora in grado di mettere in crisi un sistema carcerario che tutti sapevano di dover, prima o poi, almeno riformare e intimidire i gruppi sovversivi che minacciavano la stabilità politica e istituzionale. Se si scorrono le carte conservate negli archivi si nota con evidenza che magistrati e forze dell’ordine erano all’opera, principalmente e senza alcuna limitazione legale, per spazzare via i due movimenti che venivano classificati come i più pericolosi: detenuti e soldati. Con l’affermarsi della lotta armata negli anni successivi questo quadro di movimento sovversivo e/o riformista si esaurisce fino all’irrompere del Settantasette e della crisi Fiat nell’80. Da lì, da quegli avvenimenti possiamo collocare i confini cronologici del periodo al centro del quale ricollocare la strage del carcere di Alessandria.
Bibliografia e fonti
Le poche pagine che abbiamo presentato sono una anticipazione di un lavoro più ampio sulle vicende del maggio 1974 nel carcere di Alessandria. I primi preziosi materiali che hanno consentito la ripresa della riflessione e della ricerca sono già nel libro di controinchiesta La strage nel carcere. Alessandria, maggio 1974, a cura delle Sezioni di Alessandria di Avanguardia Operaia, Lotta continua, Pdup, CELUD, Torino 1975 e nell’archivio di Robertino Nani-allora responsabile della controinformazione di Lotta continua – depositato nell’Archivio dell’Istituto per la storia della Resistenza e della Società Contemporanea di Alessandria e gli atti del processo Levrero raccolti dal regista Luca Ribuoli che li ha condivisi con lo scrivente. A tale materiale preparatorio si è dovuto aggiungere una larga e approfondita ricerca archivistica nell’Archivio Centrale dello Stato, nell’Istituto Gramsci, all’archivio personale di Mario Zagari presso l’Archivio Turati e l’archivio del Procuratorie generale Giovanni Colli presso il Quirinale, nonché una consultazione ad ampio raggio sulla bibliografia di merito e di contesto. In occasione del cinquantennale della strage l’ISRAL e l’Associazione Nazionale delle Assistenti Sociali hanno tenuto un convegno e preparato una mostra, oggi disponibile presso l’ISRAL.
***
Cesare Manganelli (1959) è direttore della Biblioteca dell’Istituto per la storia della Resistenza in Alessandria. Fa parte della Redazione della rivista di «Quaderno di Storia contemporanea». Ha pubblicato saggi sulla deportazione politica e razziale. Ha curato una raccolta di saggi di Herman Langbein, La resistenza europea nei campi di concentramento nazista. Non come pecore al macello.
Dirige per Machina la sezione «le spalle al futuro».








Devo dire che tra i casinò live che ho provato, powbet casino it mi ha lasciato davvero un’ottima impressione. L’atmosfera è molto realistica, i croupier sono professionali e gentili, e la qualità dello streaming è sempre stabile, anche da mobile. Mi piace anche il fatto che il sito offra tantissimi giochi con dealer dal vivo, dai classici come la roulette e il blackjack fino a versioni più moderne e interattive. Se qualcuno è alla ricerca di un casinò online affidabile e divertente, consiglio sicuramente di dare una possibilità a Powbet Italia. Oltre alla sezione live, ha una parte dedicata alle scommesse sportive con ottime quote, bonus di benvenuto generosi e un programma VIP interessante. Personalmente lo trovo uno dei miglio…
La tua esperienza di gioco in un casinò live: quale casinò ti è piaciuto di più?
Precise timing and quick reflexes in geometry dash are key to conquering spikes, portals, and moving hazards.
Every second requires precision and focus, making it perfect for players who love fast-paced, adrenaline-filled gameplay. If you’re looking for a game that’s easy to learn but hard to master, Slope 2 is the ultimate choice.