Estratto da Vita e malefatte di Winston Churchill
È recentemente uscito per DeriveApprodi Vita e malefatte di Winston Churchill scritto da Tariq Ali.
Il libro racconta i misfatti di uno dei miti liberali per eccellenza, sottolineando come egli fu uno dei principali sostenitori e fautori dei crimini dell'Impero britannico e del razzismo che lo permeava.
Pubblichiamo oggi un estratto particolarmente significativo, sull'ascesa del fascismo in Italia e su come Mussolini fu apprezzato, se non appoggiato, dallo stesso Churchill. Una vicenda storica che ci parla anche dell'oggi e dei rapporti tra figure liberali e partiti (tardo)fascisti.
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Nel settembre del 1919, mentre nella sua tana di Whitehall Churchill inveiva contro i bolscevichi, l’esercito tedesco, sotto la pressione rivoluzionaria, si trovò costretto a permettere dibattiti politici tra i non graduati, anche se sotto stretta sorveglianza. In un’unità bavarese, un caporale trentenne convalescente dalle ferite di guerra (era rimasto intossicato dal gas), osservava la scena politica della Germania. L’esercito aveva da poco represso un’insurrezione comunista a Monaco di Baviera. Anche il caporale era ormai ossessionato dalla vittoria bolscevica in Russia.
Un soldato della sua unità aveva chiesto perché la Germania avesse perso la guerra e il comandante della compagnia aveva premurosamente incaricato il promettente caporale Hitler di fornire una risposta. L’episodio è ripreso da Raul Hilberg, considerato universalmente il più grande studioso del giudeocidio:
La risposta di Hitler, datata 16 settembre 1919, è il suo primo scritto esplicito sugli ebrei. In questo lungo memorandum, affermò che gli ebrei stavano sfruttando le nazioni, minandone le forze e infettandole con la tubercolosi razziale. Continuò poi a discutere dell’antisemitismo, facendo una distinzione tra un antisemitismo emotivo, che poteva dare luogo solo a eruzioni temporanee, o pogrom, senza portare a una soluzione del problema ebraico, e un antisemitismo della ragione, che si sarebbe tradotto in una serie di misure legali volte all’eventuale eliminazione degli ebrei […]. Si riferiva all’emozione (Gefühl) come a un sentimento mobile.
La ragione (Vernunft) è invece stabile. Voleva questa fermezza per il raggiungimento del suo obiettivo, la rimozione totale, la scomparsa o l’eliminazione degli ebrei, espressa nella parola tedesca Entfernung.
Questo nucleo fondamentale della struttura intellettuale di Adolf Hitler fu praticamente ignorato dai suoi numerosi simpatizzanti nei circoli dominanti della Gran Bretagna e degli Stati Uniti. I quali erano, in misura sorprendente, antisemiti emotivi e casuali. La teologia politica di Hitler era stata assai meglio recepita in Francia, dove una tradizione intellettuale antisemita, fortemente radicata in gran parte della destra conservatrice e cattolica, l’aveva preceduto.
Churchill vedeva il fascismo come una corrente extraparlamentare con bande armate proprie in grado di sconfiggere i comunisti. Su questo era rimasto coerente fino al 1937. Sostenne cordialmente Mussolini, le sue speranze in Franco sarebbero sopravvissute alla guerra e, per alcuni anni, fu ben impressionato da Hitler e
dalla robusta e patriottica Gioventù Hitleriana. Nel dopoguerra fu a favore dell’uso dei residui fascisti per difendere i possedimenti coloniali occidentali in Asia e tenere soggiogata la Grecia, oltre a rimettere in sesto e utilizzare pezzi degli Stati fascisti sconfitti in Germania, Italia e Francia: capi della polizia, personale militare, capi dell’intelligence, giudici e magistrati furono mantenuti in servizio attivo per aiutare a vincere la guerra fredda.
La domanda «Che cos’è il fascismo?» emerse per la prima volta dalle fiamme della prima Casa del Popolo incendiata dai Fasci di combattimento in Italia nel 1919. La risposta stava nell’azione. I Fasci erano stati creati da Benito Mussolini a Milano quell’anno con uno scopo chiaro: opporsi ai socialisti e distruggerli. Era un conflitto iniziato nel 1914, quando i gruppi interventisti avevano combattuto gli attivisti contro la guerra del Partito socialista. Mussolini si vantava spesso delle ferite riportate durante quel conflitto. Il sostegno più irriducibile gli venne inizialmente dagli Arditi, le unità di commando che, credendo di aver salvato il paese, si sentivano autorizzati a governarlo. Erano attratti dalla retorica del patriottismo di Mussolini, dai suoi appelli alle riforme sociali e dalla sua ostilità verso gli intellettuali1. Ma fu la lotta contro i socialisti rivoluzionari ad attrarre l’appoggio dei capitalisti e delle autorità statali.
Così Antonio Gramsci spiegava la crescita rurale dei Fasci e del loro movimento:
Il fatto che la loro nascita abbia coinciso con la necessità dei proprietari terrieri di formare una guardia bianca contro il crescente potere delle organizzazioni operaie ha permesso al sistema delle bande create e armate dai grandi proprietari terrieri di adottare la stessa etichetta di Fasci. Con il loro successivo sviluppo, queste bande hanno conferito a questa etichetta il loro tratto caratteristico di guardia bianca del capitalismo contro gli organi di classe del proletariato.
Si trattava di una nuova forza pronta a difendere il capitalismo e il latifondismo con metodi illegali, violenti ed extra-costituzionali. E nel farlo, a uccidere.
Il dibattito sul fascismo continua a generare libri i cui autori dissentono sul fatto che si sia trattato di un fenomeno rivoluzionario o controrivoluzionario. Raramente lo scoppio di qualcosa di nuovo ha portato a un dibattito teorico e storico così simultaneo sul suo carattere, sulla sua probabile evoluzione e obiettivi finali.
L’evidenza empirica dell’ascesa del fascismo in Italia e in Germania suggeriva che fosse l’ultima risposta di una borghesia spaventata.
Era solo quello, o qualcosa di più? E che dire degli ibridi politici che ha ispirato in Austria, Spagna, Giappone, India, Ungheria, Romania ecc.? Oggi è di gran moda decontestualizzare il fascismo, ignorarne o minimizzarne la nascita e le sue ragioni. Perché era così popolare tra le èlite? E perché, in Germania, un grande blocco della vecchia classe dirigente, compresi i resti della dinastia degli Hohenzollern e altri aristocratici, si aggrapparono ai fascisti come se ne dipendesse la loro stessa vita?
Nonostante la contemporanea rivisitazione del fascismo da parte di storici conservatori e revisionisti, i fatti relativi alla sua ascesa ostinatamente permangono: fu creato per distruggere e sconfiggere la sinistra, e se le classi dominanti gli avessero rifiutato il proprio sostegno finanziario e politico non avrebbe trionfato. In un periodo di grave crisi economica e politica, il fascismo si specializzò nel mettere i poveri l’uno contro l’altro.
A spaventare tanto le classi dominanti in Italia era stato lo scoppio, nel 1919-20 del Biennio rosso: un’ondata di scioperi militanti nel Nord, accompagnata da occupazioni di fabbriche e dalla creazione di consigli operai (incipienti soviet); rivolte contadine nelle campagne con scioperi, grandi manifestazioni di massa e scontri
tra milizie contadine e fasciste; la nascita di una crescente intellighenzia marxista a sostituire l’anarco-sindacalismo; e, soprattutto, un’elezione generale in cui il Partito socialista (Psi) s’era imposto come il singolo maggiore partito, il che significava la sconfitta per la coalizione liberale al governo.
Il Partito socialista era un’organizzazione unificata. I socialisti moderati e rivoluzionari discutevano all’infinito su tattica, strategia e sulla Rivoluzione russa, ma non si spaccarono. Presero il maggior numero di voti nella massima parte delle regioni più. importanti: Emilia Romagna (60%), Piemonte (49,7%), Lombardia (45,9%) e Toscana (41,7%). Le liste liberali vinsero nel Mezzogiorno. Altrove, il cristiano-democratico Partito popolare italiano (Ppi), fondato nel 1919 da un sacerdote, Luigi Sturzo, e sostenuto dal Vaticano per contrastare i socialisti, ottenne il 20% dei voti e 100 seggi alla Camera dei deputati. Sosteneva alcune riforme sociali, il suffragio femminile e la rappresentanza proporzionale, ma si sciolse poco dopo in contrapposte fazioni filo- e antifasciste. Salito al soglio di Pietro nel 1922, Papa Pio XI firmò un concordato con Mussolini e in seguito aiutò i leader fascisti croati a sfuggire alla giustizia dopo la Seconda guerra mondiale. Molti sacerdoti cattolici, in netto contrasto con il «collaborazionismo» del Vaticano, combatterono con la resistenza e aiutarono alcuni ebrei italiani a sfuggire ai loro carnefici.
Gli eventi del Biennio rosso includono i disordini per il pane del 1919, gli scioperi generali a Torino e in Piemonte nell’aprile 1920 e ad Ancona un ammutinamento di soldati che rifiutavano il trasferimento in Albania. Era ovvio che movimenti semi-insurrezionali stessero emergendo sia al Nord che al Sud. Come sottolinea lo storico del fascismo italiano Philip Morgan, il carattere del movimento nel Sud, dove il Partito socialista era debole o inesistente, differiva da quello del Nord: «Nel Sud aveva una forma tradizionale: l’occupazione dei latifondi. Diffusesi inizialmente dal Lazio nella primavera all’autunno del 1919, in contemporanea con la smobilitazione dell’esercito contadino italiano, le occupazioni delle terre ripresero nella primavera del 1920 e furono particolarmente intense nell’autunno del 1920, interessando parti della Sardegna, della Sicilia, della Calabria, della Campania e della Puglia».
In molti casi a prendere l’iniziativa furono soldati smobilitati, la cui capacità di usare le armi era importante quanto le loro richieste politiche. Furono le leghe contadine cattoliche sostenute dal Ppi a sfidare politicamente i proprietari terrieri. Purtroppo, entrambe le organizzazioni erano inclini ad accettare inutili compromessi.
In questo periodo sorsero anche due confederazioni sindacali, una cattolica e l’altra socialista. Nel 1920 la Federterra, la federazione sindacale agricola dei socialisti, contava un milione di iscritti.
Il suo nucleo di membri era costituito da braccianti senza terra dell’Emilia e della Puglia, ma dopo la guerra le lotte tra braccianti agricoli e agricoltori capitalisti furono più intense in Lombardia, nella Toscana centrale e nel Veneto. Nella maggior parte dei casi i contadini e gli operai, guidati dai socialisti, ebbero la meglio. Queste vittorie crearono una nuova coscienza politica tra i lavoratori italiani, portando a una serie di trionfi socialisti nelle elezioni amministrative dell’autunno del 1920.
Mentre le coalizioni antisocialiste conquistavano la maggior parte delle città, l’aumento dei voti socialisti nelle campagne spazzò via i rappresentanti liberali dei proprietari terrieri: «Nella provincia di Siena, 30 dei 36 consigli comunali passarono ai socialisti, così come 149 dei 290 comuni della Toscana nel suo insieme. In Emilia, culla del socialismo rurale, il Psi si aggiudicò il controllo di ben 223 consigli comunali su 280, e nella sola provincia di Bologna di 54 su 61»3.
Il Psi aveva condotto una campagna elettorale basata su un programma rivoluzionario, affermando apertamente che il suo scopo era quello di utilizzare i municipi locali come istituzioni di potere per sfidare lo Stato borghese a livello nazionale. Queste «dittature del proletariato» municipali erano ben lungi dall’essere politica di provincia. Rappresentavano le vittorie di una classe contro l’altra, e non c’era da stupirsi che un ricco agricoltore riferisse ai suoi colleghi dell’associazione agraria bolognese che «a volte non so se mi trovo in Russia o in Italia». Era preoccupato, e ne aveva ben donde. La combinazione di scioperi e trionfi elettorali basati su mobilitazioni di massa era un potente elisir, il monito che la rivoluzione socialista era imminente e l’uso di metodi parlamentari non avrebbe potuto evitarla.
Così la pensavano i professionisti della classe media minacciata, la borghesia rurale e i capitalisti. Furono i fascisti a soddisfarne il bisogno di una dura organizzazione controrivoluzionaria. Il leader liberale, Giovanni Giolitti, si era rifiutato di prendere il fascismo sul serio.
Credeva che Mussolini e la sua cricca potessero essere blanditi dalla condivisione del potere, e si rifiutò di discutere una coalizione parlamentare antifascista con i socialisti a meno che… non avesse incluso Mussolini. La ragione dell’intransigenza liberale su questo aspetto era che molti dei sostenitori del partito preferivano Mussolini ai socialisti. Osservando compiaciuto il caos politico, nel 1922 il leader fascista annunciò la sua marcia su Roma. Non era del tutto certo che le sue legioni potessero prendere e mantenere il potere, ma pensò valesse la pena provarci. Il suo successo finale entusiasmò i conservatori di tutta Europa.
La mitomania di Mussolini dipinse la «marcia su Roma» a tinte forti. La realtà era un po’ diversa. La marcia in sé non fu né violenta né un atto decisivo. Quanto realmente accaduto differiva da come sarebbe stato presentato in seguito. Una cricca di cortigiani e leccapiedi ingannò deliberatamente il Re, facendogli credere che l’esercito si stesse rifiutando di difendere Roma contro la prevista marcia fascista da Milano. Figura debole e penosa, al monarca non servirono troppi suggerimenti. Contattò Mussolini e gli offrì la carica di Primo Ministro.
Mussolini fu subito d’accordo. Le camicie nere arrivarono a Roma il giorno successivo alla sua grata accettazione della regale offerta di formare un nuovo governo. Mitomane com’era, prese seriamente in considerazione la pensata di far fermare il treno prima di raggiungere Roma e di fare il suo ingresso in città su un bianco destriero. Giunse invece in un vagone letto e si recò a palazzo proprio mentre i suoi sgherri in camicia nera saccheggiavano le case degli avversari politici e cacciavano a forza olio di ricino – la «medicina fascista» – in gola al direttore di un giornale liberale.
Tutte le promesse fasciste iniziali, risalenti a subito dopo la Prima guerra mondiale furono abbandonate senza tante cerimonie. Abolire la monarchia? Il Re rimase saldo sul trono. Riforma agraria ed espropriazione dei beni ecclesiastici? Una magistratura indipendente? Democratizzazione del governo locale? Promesse vacue e mai realizzate. Il paese era nella morsa di paura e conformismo.
Nel 1927, cinque anni dopo la presa di Roma e dell’Italia da parte dei fascisti, Churchill incontrò il Duce. Ben presto si convinse che Mussolini e il fascismo italiano rappresentavano l’unico tipo di forza extraparlamentare in grado di sconfiggere il bolscevismo e i suoi seguaci in Europa. I fascisti mobilitavano il popolo nelle strade, cosa che i partiti conservatori tradizionali non riuscivano a fare. «Se fossi italiano», disse durante il suo viaggio, «sono certo che sarei stato con tutto il cuore con voi dall’inizio alla fine della vostra lotta trionfale contro gli appetiti e le bestiali passioni del leninismo. Ma in Inghilterra non abbiamo ancora dovuto affrontare questo pericolo in forma altrettanto letale. Facciamo le cose a modo nostro».
Dopo uno dei suoi incontri con Mussolini, Churchill si rivolse esaltato a una folla di giornalisti in attesa:
Non potevo che rimanere affascinato, come lo sono state tante altre persone, dal suo portamento gentile e semplice e dalla sua calma e distaccata compostezza, nonostante tante preoccupazioni e pericoli. In secondo luogo, è chiaro a tutti che non pensi ad altro che al bene duraturo, come lo intendeva lui, del popolo italiano, e che nessun trascurabile interesse gli risultasse tale.
In un’autobiografia – pubblicata in diverse edizioni in Gran Bretagna e negli Stati Uniti con l’ammirata prefazione dell’ex ambasciatore americano in Italia – Mussolini orgogliosamente citò quanto gli aveva detto Churchill. Churchill gli aveva dato del «genio Romano», «il più grande legislatore vivente», dicendogli che «il vostro movimento ha reso un servizio al mondo intero». Aveva elogiato l’Italia «con i suoi ferventi Fascisti, il suo rinomato leader e il severo senso del dovere nazionale».
Non c’è quindi da stupirsi che all’epoca il «New Leader» commentasse: «Abbiamo sempre sospettato che Winston Churchill fosse fascista nell’animo. Ora l’ha apertamente confessato». La moglie di Churchill lo informò che C.P. Scott del «Manchester Guardian» era «irritato per la sua parzialità nei confronti di “Pussolini”». L’elogio di Churchill a Pussolini gli fece fare le fusa. Fatto insolito, Churchill preferì ignorare le pretese imperiali del Duce.
Mussolini non faceva mistero del suo desiderio di trasformare ancora una volta il Mediterraneo in un lago italiano, se non per rivaleggiare con Gran Bretagna e Francia.
Sia gli storici di Churchill conservatori che quelli liberali sono un po’ a disagio per quest’adulatoria stravaganza e tendono a eluderne le effusioni più goffe. Roy Jenkins si riferisce sommessamente al pellegrinaggio italiano di Churchill come parte di un giro turistico esteso al Vesuvio e conclusosi con «due incontri con Mussolini a Roma, sui quali aveva rilasciato dichiarazioni fin troppo amichevoli». Andrew Roberts fa il prestigiatore, citando Churchill nel 1923, quando criticò il dittatore italiano per aver destabilizzato la Società delle Nazioni, prima di affermare: «Sarebbe stato meglio per la reputazione di Churchill se si fosse attenuto a questa opinione […] ma col passare del tempo cominciò a vedere [Mussolini] come un baluardo contro il comunismo, che temeva si sarebbe diffuso verso ovest nell’Europa del dopoguerra». Nessuno dei due storici cita direttamente Churchill, evitando così di parlare del suo genuino entusiasmo per il fascismo italiano.
Nel 1926, un anno prima del suo viaggio a Roma, da Ministro delle Finanze Churchill aveva espresso la sua ammirazione per il corporativismo italiano:
L’Italia è un paese preparato ad affrontare la realtà della ricostruzione postbellica. Possiede un governo sotto la guida del signor Mussolini che non arretra di fronte alle conseguenze logiche dei fatti economici e che ha il coraggio di imporre i rimedi finanziari necessari per assicurare e stabilizzare la ripresa nazionale.
E non era il solo. Nella claque di Mussolini c’erano molti conservatori inglesi, alcuni dei quali accorsero a Roma per anni dopo l’ascesa del Duce. Uno di loro, il deputato Henry «Chips» Channon, il 6 luglio 1934 confidava al suo diario:
C’è qualcosa di classico nell’idrovolante di Mussolini in volo a Roma colpito da un fulmine. Come se gli Dei stessi s’ingelosissero di quest’uomo dinamico. L’ho incontrato un’unica volta. Era il 1926 […] a Perugia. Tutta la città era in festa con ghirlande, bande musicali e fotografi e ci dissero che il Duce sarebbe arrivato la mattina successiva. Alle quattro del mattino seguente le strade brulicavano di ragazzi in camicia nera che cantavano. Presi i biglietti per una conferenza che Mussolini avrebbe tenuto all’Università, e puntualmente arrivammo per trovarci una piccola stanza insieme ad altre 40-50 persone, la crème della società perugina.
All’improvviso si aprì la porta […] un ometto, di statura napoleonica, in cappotto nero, levò la mano destra nel saluto fascista e percorse la sala mentre il pubblico si alzava in piedi. Il mio italiano non è mai stato molto buono, tuttavia ne capivo ogni parola. Incantò il pubblico facendomi correre un brivido lungo la schiena. Fu più elettrizzante della mia intervista con il Papa. Al termine ci fecero salire perché eravamo inglesi, gli fummo presentati e io gli strinsi la calda e grande mano […]. Ora tutti i nostri amici romani lo incontrano spesso, negli ultimi anni si è degnato di uscire in società.
Un altro diarista conservatore dell’epoca, Harold Nicolson, scrisse dell’allure fascista in un momento di personale scontento: «Tutto va storto […] Sono incorso in inimicizie: l’inimicizia di Lord Beaverbrook; quella della BBC e dell’Atheneum Club; l’inimicizia di parecchi parrucconi». Aveva perso il lavoro (un contratto con la BBC per una serie di conferenze sulla letteratura moderna, revocato perché aveva elogiato l’Ulisse di Joyce), aveva perso alle
elezioni e temeva che «il mio legame con Tom (Oswald) Mosley mi nuoccia». Ma «life is fun», e così lui e Mosley fecero un giretto a trovare Mussolini a Roma, con sosta successiva a Berlino per controllare i progressi di Herr Hitler. Era il gennaio del 1932. Mosley, un ex deputato laburista che di lì a poco avrebbe lanciato la British Union of Fascists confessò le proprie fantasie a Nicolson: «Tom non riesce a non pensare alle truppe d’assalto, all’arresto di MacDonald [il Primo Ministro] e di J.H. Thomas [il Segretario di Stato per le Colonie], dal loro internamento nell’Isola di Wight e dal rullo dei tamburi intorno a Westminster. È un romantico. È questa la sua grande pecca».
A Roma, Mussolini consigliò a Mosley di adottare per il suo nuovo partito il titolo di fascista, ma di non perdere tempo con il militarismo. Questi, di conseguenza, dichiarò che il dittatore italiano gli aveva fatto «scarsa impressione». A differenza di Nicolson, Mosley era ben più tranquillo e incoraggiato dalla continua ascesa di Hitler, e suggerì all’amico che al loro ritorno in Inghilterra avrebbero dovuto discutere seriamente la formazione di un movimento giovanile che «corrispondesse all’organizzazione delle SS o delle Schutzstaffel dei nazisti». Nicolson disse a Mosley che sarebbe stato meglio entrare in Parlamento e limitare le sue lotte alla Camera dei Comuni, cosa che Mosley pensava di poter fare «con il sostegno di Winston e della stampa di Harmsworth».
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Tariq Ali è uno storico, scrittore e film-maker inglese di origini pachistane. È membro del comitato editoriale della «New Left Review» ed editorialista del «Guardian». Autore di molti saggi e lavori di grande successo, è riconosciuto come uno dei pensatori critici più influenti sul piano internazionale. Per DeriveApprodi ha pubblicato: Vita e malefatte di Winston Churchill (2024).
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