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In cerca di altre mappe 4.«Tout se tient. Animali, veganesimo e fine dell’antropocene»





Ritorna la rassegna sul fantastico femminista curata da Giuliana Misserville: In cerca di altre mappe. Un percorso di lettura, in quattro tappe attraverso la narrativa fantastica di questi anni, alla ricerca dei «sentieri non mappati» che possano offrirci «esiti altri della crisi attuale». Ha già esplorato la fantascienza femminista (Decolonializzare la fantascienza), l’africanfuturismo (Io non scrivo afrofuturismo) e la narrativa gotica contemporanea (Gotiche postumane). In questo testo, che conclude la rassegna, segue l’«itinerario» delle «storie antispeciste», delle narrative che mettono al centro la «questione animale» e offrono gli scenari di possibili «metamorfosi», a partire dalla nostra comprensione del mondo che ci circonda e delle «specie animali, umane e non» che, insieme, lo abitano.





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– Quanto credi possa costare costruire un mattatoio, John? Non uno grande, solo un modello, per dimostrazione.

– Una dimostrazione di che?

– Una dimostrazione di quello che succede in un mattatoio. Della macellazione. Ho pensato che la gente sopporta il massacro degli animali solo perché non lo vede. Non lo vede, non lo sente, non fiuta l’odore. Ho pensato che se ci fosse un mattatoio in funzione al centro della città, dove ognuno può vedere, sentire e odorare quello che succede lí dentro, la gente potrebbe cambiare atteggiamento. Un mattatoio di vetro. Un mattatoio con le pareti di vetro. Che ne pensi?


Inizia così, con questo dialogo che potrebbe sembrare paradossale o provocatorio, un racconto di J. M. Coetzee, Mattatoio di vetro, scritto nel 2017 e inserito da Niccolò Scaffai nel bel volume curato per Einaudi, Racconti del pianeta Terra, che in una delle sue parti «si concentra sulla relazione tra umano e animale: al piano morale ed ecologico, su cui si colloca la denuncia dello sfruttamento e degli abusi negli allevamenti intensivi, si affianca e si sovrappone il piano simbolico, su cui si dispongono le rappresentazioni di un’animalità ibrida, straniante, dove la soglia tra esseri umani e altre creature si assottiglia fino a smarrirsi». La dicotomia messa in luce da Scaffai ci aiuta a collocare di volta in volta, nell'orizzonte appropriato, una serie di volumi apparsi negli ultimi tempi aventi al centro delle loro teorizzazioni e narrazioni figure e storie di animali reali o immaginari.

Grazie al lavoro di Scaffai, sono andata a recuperare un vecchio lavoro di Coetzee e la sua formidabile personaggia Elizabeth Costello, scrittrice e probabile alter ego dell'autore. Nel 2007, con La vita degli animali, Costello viene utilizzata dallo scrittore sudafricano, premio Nobel 2003, per dar voce alla sua visione dei diritti (negati) degli animali e all'etica vegetariana. Quello che Costello serve agli ascoltatori delle sue due conferenze oggetto del libro è il parallelo tra ciò che avviene negli allevamenti intensivi e i lager nazisti. In realtà il libro scatenò un putiferio perché in un passaggio Coetzee andava giù deciso affermando che «È stato dai mattatoi di Chicago che i nazisti hanno imparato a lavorare industrialmente i corpi» (p. 91). Il raffronto esplicito o soltanto suggerito del resto non era del tutto nuovo giacché nel 1975 il controverso accostamento veniva evocato tra le righe del saggio del filosofo Peter Singer, Liberazione animale. E non sarà neanche l'ultimo dal momento che Jonathan Safran Foer utilizzerà i racconti della nonna sopravvissuta all'olocausto per parlare del rifiuto di mangiar carne (Se niente importa. Perché mangiamo gli animali!, Guanda 2009).

Se il racconto di Coetzee, Mattatoio di vetro, sembra costruito sulla speranza che basti portare alla coscienza quello che realmente sta dietro ai nostri consumi alimentari per innescare il rifiuto della carne [1], scopro che invece tale strategia è assai controversa anche all'interno dell'antispecismo.

In uno dei saggi contenuti nel recentissimo Feminist Animal Studies, un volume curato da Erika Cudworth, Ruth E. McKie e Di Turgoose (Routledge 2023), Jonna Håkansson si sofferma ad analizzare le conseguenze delle tattiche denominate dello «shock morale»; quelle tattiche appunto, evocate da Mattatoio di vetro di Coetzee, che consistono nel mettere davanti agli occhi di un gran numero di persone le condizioni in cui vivono e muoiono gli animali utilizzati dall'industria alimentare e tessile, dalla sperimentazione sulle cavie [2] e negli allevamenti per gli animali da compagnia. Se indubbi risultati possono essere conseguiti attraverso tali pratiche che comportano l'utilizzo di fotografie e filmati, già Susan Sontag [3] parlava del rischio di un «affaticamento della compassione» intendendo con esso l'esaurimento della nostra capacità di farci carico del dolore che vediamo attorno. Anche Sarah Ahmed sottolinea la possibilità che la reazione allo shock morale possa consistere in un tentativo di allontanare il dolore mettendo in atto, per difendersi, un senso di estraneità e deresponsabilizzazione. In ogni caso, conclude Håkansson per rendere sopportabile il dolore degli animali senza che ci sia necessità di autoproteggersi voltando le spalle, occorrerebbe che ci venisse offerta una direzione in cui incanalare emozioni così devastanti.

Feminist Animal Studies ha il pregio di esplorare i multiformi e complessi rapporti tra animalismo e un femminismo che ha riflettuto sullo status degli animali non umani e sulla loro difesa per gran parte della sua storia [4]. Basti pensare che nel Regno Unito, c'erano stretti legami tra il movimento vegetariano e il movimento per il suffragio femminile della tarda epoca vittoriana. Ma anche prima, con Mary Shelley e Percy Bysshe Shelley, il vegetarianesimo impregnò passaggi importanti delle loro opere e la Rivendicazione della dieta naturale (1813) dell'uno trova echi importanti nel romanzo dell'altra, quel Frankenstein; or, The Modern Prometheus (1818), in cui la creatuta in un passaggio esplicita la propria filosofia:


Io non mi nutro come gli uomini; non uccido l’agnello e il capretto per soddisfare la mia gola; ghiande e bacche sono per me nutrimento sufficiente. La mia compagna avrà la mia stessa natura e si accontenterà della stessa dieta. Faremo i nostri letti con le foglie secche; il sole splenderà su di noi come sull’uomo, e renderà maturo il nostro cibo. Il quadro che ti presento è pacifico; è umano.


Il corto circuito tra sesso e cibo

L'attivista americana Carol Adams, in Carne da macello. La politica sessuale della carne [5] (VandA.edizioni) del 1990 dedica molta attenzione al fatto che le abitudini vegetariane dell'essere creato da Frankenstein siano passate, nel discorso critico corrente, quasi inosservate. Inoltre, merito del saggio di Adams è di aver sviluppato la tesi della corrispondenza tra animalizzazione dei corpi delle donne, rilevanti in alcuni contesti (la pubblicità di alcuni prodotti alimentari derivati dagli animali è particolarmente immaginifica per usare un eufemismo) soprattutto per le loro funzioni erotiche sessuali e riproduttive, e la sessualizzazione delle femmine degli animali; un parallelo profondamente insito nelle pieghe dell'immaginario patriarcale. La tesi radicale di Adams è che la società occidentale sia abituata a trattare donne e animali come referenti assenti. Che cos’è la «politica sessuale della carne»? È un’attitudine – scrive Carol Adams - e una prassi che animalizza le donne e sessualizza e femminilizza gli animali:


Nel 2008 abbiamo saputo che il presidente della IX Corte d’Appello degli Stati Uniti aveva pubblicato su un sito internet del materiale che includeva una foto di donne nude, ritratte come delle mucche, e un video di un uomo seminudo che si intratteneva con un animale da allevamento sessualmente eccitato. La donna, animalizzata; l’animale, sessualizzato. Questa è la «politica sessuale della carne».


Il testo di Adams sottolinea l’assunto secondo cui «l’uomo ha bisogno di carne», ha diritto alla carne, e il mangiare carne è un’attività maschile associata alla virilità. Adams collega il suo lavoro con quello di Derrida, dal momento che sia il filosofo francese sia la stessa Adams collocano il carnivorismo nel cuore della nozione classica di soggettività, specialmente maschile. Il termine «carnofallogocentrismo» di Derrida è un tentativo di nominare le prime pratiche sociali, linguistiche e materiali che identificano e consolidano una soggettività piena e riconosciuta nella società occidentale. Secondo Adams, Derrida suggerisce che, al fine di essere considerato totalmente come un soggetto, una persona debba essere un mangiatore di carne, un uomo, e un uomo autorevole, che parla per se stesso. Da qui una narrativa che cortocircuita sesso e cibo.

Il corto circuito tra sesso e cibo è un meccanismo messo spesso a frutto dal cinema (basti pensare al Tom Jones di Tony Richardson nel 1963) e dalla narrativa, che però non sempre ne hanno fatto strumento per una critica feroce. Cosa che invece fa Margaret Atwood in La donna da mangiare (Ponte alle Grazie, 2020), il suo romanzo d'esordio nel 1969:


Abbassò gli occhi sulla sua bistecca mangiata a metà e improvvisamente la vide come un pezzo di muscolo. Rosso sangue. La parte di una vera mucca che una volta si muoveva e mangiava e era stata uccisa, colpita al capo mentre era in una fila, come uno che aspetta il tram. Naturalmente tutti lo sapevano. Ma per lo più non ci pensavano mai.


Alla protagonista del romanzo la carne sembra qualcosa di vivente e lei pertanto a poco a poco si accorge di non poterla più mangiare. L’equazione che Atwood mette in piedi è quella della identificazione della protagonista, Marion, con la carne che ha nel piatto, perché anche lei si sente usata e mangiata dalla relazione col suo compagno.


Dio ha creato gli animali sottomessi all'uomo

Il consumo di carne quindi come pilastro del patriarcato e forse non meraviglia che la Chiesa cattolica se ne sia fatta sostenitrice a sua volta condividendo l'idea della strutturazione gerarchica del mondo.


- Le faccio vedere una cosa.... quello è un luogo di riposo per gli animali. Quasi tutti sono stati uccisi dai cacciatori. I miei cani, lei crede che anche loro potrebbero essere stati uccisi da qualcuno, padre? Vorrei almeno poterli seppellire

- Non puoi trattarli come fossero persone. Fai peccato! E quei cimiteri sono per gli uomini. Dio ha creato tutti gli animali sottomessi all'uomo. È questo l'ordine delle cose.

- Ma lui non ci ha dato il diritto di ucciderli. Non uccidere dice il comandamento...

- Si riferisce agli uomini, non agli animali


Questo dialogo è una scena del film Pokot di Agnieszka Holland che nel 2017 esemplifica assai efficacemente il senso della denuncia dell'antropocentrismo su cui si fonda la Chiesa cattolica, contenuta nel romanzo di Olga Tokarczuk Guida il tuo carro sulle ossa dei morti (Bompiani, 2020). Film e romanzo sono al centro di forti polemiche. La scrittrice polacca stabilisce un parallelo tra l’asservimento della natura e l’asservimento delle donne da parte della società patriarcale e clericale. Una storia dura di dolore e morte, ma anche di resurrezione perché le presenze epifaniche che vi compaiono, in forma di donne e animali, ci fanno intravedere la possibilità di una ricostituzione dell’armonia spirituale dei viventi. Tokarczuk non scrive di un animale particolare ma in quelle pagine compaiono cani, volpi, cinghiali, cervi, insetti e perfino batteri. Sono animali che costeggiano e accompagnano la vita di uomini e donne; animali domestici, animali selvatici, da compagnia, da allevamento. Sono animali che a volte guardano gli umani con uno sguardo giudicante perché Tokarczuk scrive soprattutto di quello che è il rapporto che intratteniamo con loro, un rapporto che nel corso degli ultimi cento anni è divenuto di estrema violenza e sfruttamento. E di questa sofferenza riteniamo che mai verremo chiamati a rispondere, che mai ce ne verrà chiesto il conto. Una sofferenza di cui si rende responsabile anche la Chiesa cattolica che predica dai suoi altari la sottomissione degli animali.


Ora mi era chiaro perché le torrette di tiro, che pure ricordano piuttosto le torrette delle sentinelle dei campi di concentramento, si chiamano pulpiti. Sul pulpito l’Uomo si pone al di sopra degli altri Esseri e si attribuisce diritto di vita e di morte nei loro confronti. Diventa tiranno e usurpatore.


Il romanzo è un atto di accusa nei confronti della gerarchia ecclesiastica, e tiene ben distinti i due piani costituiti da una parte dalle derive patriarcali della religione cattolica e dall'altra dalla rilevanza di un sentimento generale di spiritualità che unisce le creature viventi in una possibile resurrezione laica costituita dalla memoria degli affetti. Spiritualità che si tinge di fantastico per le presenze soprannaturali in forma di donne e animali, le creature più amate …la madre .. la nonna .. le due cane (Lea e Bialca), le bambine… così le chiama Janina, la protagonista. Fantasmi che attraversano il quotidiano e spingono il romanzo verso livelli di lettura più complessi.


Make kin. Scelte di vita

Più di altre, la questione animale resta al centro - sanguinante - delle nostre scelte di vita, scelte che destabilizzano pesantemente l'equilibrio del pianeta. Basti pensare al riscaldamento globale cui contribuiscono grandemente le emissioni degli allevamenti intensivi.

In Capitalismo carnivoro (il Saggiatore 2022), Francesca Grazioli ricostruisce, cifre alla mano, l'impatto degli allevamenti sull'ambiente, sia per quel che riguarda le emissioni di gas a effetto serra sia per quel che riguarda i residui animali: solo negli Stati Uniti, per esempio, ogni minuto vengono prodotte più di tremila tonnellate di scarto animale[6] che vanno a contaminare i terreni agricoli con batteri, germi e funghi. Inoltre, nella popolazione umana che abita le zone in cui esistono gli allevamenti è dimostrata una maggiore probabilità di sviluppare malattie respiratorie, asma, eczemi ed eruzioni cutanee.

Colpa degli animali? Certamente no. Tutta la responsabilità va alla dissennata proliferazione della popolazione di animali da reddito spinta all'estremo dal ciclo dell'alimentazione carnivora. Bene fa Angela Balzano a collegare la questione animale al problema della sovrappopolazione mondiale invocando la decrescita ri/produttiva [7], presa in prestito da Donna Haraway [8]. Si tratta di una prospettiva tutta da immaginare, per questo Haraway ricorre alle storie e alla fantascienza eco/cyborg/transfemminista e, per farla finita con il capitalocene, ci invita al make kin not babies. Drastico? vi starete chiedendo; no, forse semplicemente realista di fronte alla catastrofe che si prospetta.

Fine dell'antropocene o fine del capitalocene? La discussione su queste due diverse letture della crisi attuale, che vantano ciascuna ricchissime bibliografie, aiuta a comprendere meglio le dinamiche in atto tra chi decide e chi subisce le conseguenze di quelle decisioni. In ogni caso è indiscutibile che stiamo assistendo alla messa in scrittura della necessità di riequilibrare il rapporto tra le specie animali, umane e non, indispensabile se vogliamo sopravvivere come specie, dato che il pianeta invece sopravviverà anche senza di noi, e se vogliamo far sì che la terra, non più selvaggiamente saccheggiata, inquinata, stuprata, ritrovi i suoi equilibri. Haraway parla di Chtulucene,: «uno spazio-tempo costantemente diffratto: tempo della respons-abilità, non della speranza» [9].


Ma gli animandri sono vegani?

Se la ricetta di Haraway è diventare, farsi compost [10] un racconto in forma di fiaba, pubblicato in Italia nel 2020, parla del farsi animali, mandando in frantumi qualsiasi pretesa o visione gerarchica e specista del mondo. L'assemblea degli animali. Una favola selvaggia, di autore o autrice che si firma Fidelfo, narra di come gli animali decidano di riunirsi per salvare il pianeta dai disastri umani. L'epidemia (il Covid-19) sarà la vendetta degli animali che riempirà la terra, di «decine di migliaia di corpi ai quali il contagio aveva tolto il fiato» e che in quella terra non riuscivano più neppure a essere seppelliti. Contrastando il volere del re dei topi che vorrebbe procedere allo sterminio totale, una gatta si erge a difendere i pochi o tanti umani che hanno capito la lezione e quindi una nuova assemblea dovrà essere riunita:


Ma l’assemblea sarà, questa volta, ancora più grande. Perché dovranno partecipare, pronunciarsi e deliberare, insieme agli animali, anche quegli esseri umani che nella solitudine, nell’isolamento e nella lotta contro il contagio diffuso dal pipistrello hanno estinto il germe della dimenticanza e ridestato la reminiscenza. Questi giusti si sono ricordati che i capelli, le foglie e le piume degli uccelli sono un’unica cosa. Che se uomini, fiere, alberi, pesci vivranno puramente, diverranno veggenti, poeti, medici e capi sulla terra, e infine dei immortali. La gatta appiattì le zampe anteriori ad assumere la posizione della sfinge: – Si sono rivelati allo sguardo di noi bestie, – continuò, mentre il corvo annuiva, – anche se non ancora l’uno all’altro, assumendo la loro parte animale non solo dentro di sé. Alcuni di loro, trasformando anche la loro apparenza fisica, sono diventati animandri, sacri ibridi. Come te, ma seguendo il percorso opposto: mentre tu, da cane che eri, sei divenuto in parte il padrone che amavi, loro, da umani, sono diventati parzialmente animali, mescolandosi alla natura che hanno scoperto di amare. Perché in ogni metamorfosi è sempre il desiderio che si esprime, è l’unione amorosa che si manifesta, la stessa che tiene insieme l’anima del mondo. Perché alberi, umani, fiere, uccelli nascono dal dissidio dell’odio e dell’amore. Nell’uno tutto è difforme, nell’altro tutto si riunisce.


È assai suggestiva la figura degli animandri, frutto di una metamorfosi soprattutto morale di alcun3 uman3. Anche se il racconto di Fidelfo non si pronuncia sul consumo di carne. Gli animandri sembrano pescare le loro origini nei bestiari medievali dove comparivano animali fantastici come gli unicorni e le fenici. O forse siamo dalle parti di Borges e della sua zoologia fantastica. In ogni caso gli animandri sembrano essere estremamente attuali e costituire un fertile e immaginifico arricchimento delle figurazioni che abbiamo a disposizione per inventarci esiti altri della crisi attuale. Cosa che invece non fa il meno interessante I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni, che pur avvalendosi di una scrittura tesa e coinvolgente, resta nell'ambito della riflessione umana sulla vita e sulla morte, cui gli animali antropomorfi si prestano alla maniera di ventriloqui.


Più scrivo, più l'ossessione della morte si fa leggera. La sconfiggo ad ogni pagina, specchiandomi nel colore, nelle linee che traccio. Dio porterà la mia anima chissà dove, disperderà il mio corpo nella terra, ma i miei pensieri rimarranno qui, senza età, salvi dai giorni e dalle notti. Quanto basta a darmi la pace, come il Paradiso per Solomon. Forse, come aveva scritto lui, davvero sono un uomo anch'io, e sarò salvato. Forse Dio mi ha reso un animale per mettermi alla prova.


Al contrario Fildelfo sembra aver metabolizzato il tout se tient di Federica Timeto: «Mai in sé, sempre con, le specie compagne si riconoscono parziali e aperte e si rendono respons-abili a vicenda, e dal momento che - dal momento in cui - scongiurano il mito dell'origine, sono in grado di affrontare anche la propria finitudine.

Non si può fare la conta dei viventi, dei morti, dei non morti, dei mai nati e dei dissolti i separando le specie (...) tout se tient» [11].

Anche l'italianista Carla Benedetti parla della necessità di una metamorfosi dell'umano (La letteratura ci salverà dall'estinzione, Einaudi 2021). Secondo lei il rischio dell'estinzione, la crisi epocale in cui viviamo (il futuro «non si dà più per scontato che ci sarà, anzi sappiamo che potrebbe anche non esserci e che occorre lavorare per salvarlo») ha il merito di chiudere un ciclo:


ci siamo liberati delle categorie della modernità occidentale, della sua metafisica, e di quel palcoscenico antropocentrico dove si avvicendavano fasi (...) nel supposto cammino progressivo della civiltà. In questa emergenza muove una concezione della natura e dell'uomo che è agli antipodi dell'antropocentrismo dei moderni. E in cui l'uomo non è un'entità che si contrappone alla natura, ma un terrestre tra i terrestri.


Riconoscersi, terrestri tra terrestri dunque, un'identità che se accettata dovrebbe provocare una rivoluzione nella comprensione del mondo e del nostro agire. Come a volte raccontano alcuni romanzi di fantascienza che sembrano esplorare le possibilità aperte da questa nuova visione di noi e del pianeta. Il rifiuto di nutrirsi di morte diventa, allora, come in Carnivori di Franci Conforti (Kipple Officina libraria 2017), trampolino di lancio per immaginarsi non solo vegani ma mangiatori di luce, protesi verso l'universo. Conforti gestisce con sapienza la mescolanza di utopia e distopia che rende la storia raccontata, assai intricata, fin troppo umana; come se non fosse possibile distaccarsi, se non attraverso il lavoro di generazioni e generazioni, dall'impronta terrestre; anche se alla fine dell’itinerario, che vediamo dispiegarsi nei secoli a venire, sarà la terra il pianeta a cui tornare mondati (forse) del dolore di cui siamo responsabili.

Riconoscersi terrestri è - per Carla Benedetti - una sorta di seme in grado di favorire il formarsi di un pensiero e una sensibilità adeguata all'enormità del pericolo planetario. Per me invece quel seme è collocato nel ripudio della sofferenza animale, emblema di qualsiasi sofferenza di cui la specie umana può essere responsabile.

Insieme sono il primo passo verso la metamorfosi che dobbiamo attraversare e di cui la letteratura sembra continuare a offrirci sovversive suggestioni e impensate visioni.



Note [1] Tuttavia il racconto è assai complesso, muovendosi su tematiche che incrociano la consapevolezza della morte, la memoria, cioè che resta degli affetti e il valore della letteratura. [2] Sulla sperimentazione sugli animali da laboratorio e sulla lotta degli attivisti antispecisti contro l'industria farmaceutica, si può vedere il docufilm The Animal People, girato da Casey Suchan e Denis Hennelly nel 2019. [3] Sontag si riferiva alle immagini di guerra di cui discute in Davanti al dolore degli altri, Mondadori 2003. [4] Come scrivono le curatrici nell'introduzione di Feminist Animal Studies, nel femminismo attuale la questione animale è stata affrontata da angolature diverse e le teoriche femministe come Rosi Braidotti o Judith Butler hanno incluso gli animali nelle loro riflessioni che partivano da prospettive poststrutturaliste, materialiste, postcoloniali e queer. [5] Il testo di Carol Adams è stato tradotto in italiano da Matteo Andreozzi e Annalisa Zabonati; a proposito del lavoro di Adams, si veda anche la lunga intervista che Zabonati mi ha rilasciato, disponibile al seguente link https://www.spreaker.com/user/la_mano_sinistra/1x3-ladonnamangiata. [6] Si veda Cowspiracy. Il segreto della sostenibilità ambientale del 2014, prodotto e diretto da Kip Andersen e Keegan Kuhn. Il docu-film indaga come l’impatto sulla Terra dell'industria animale, tanto di quella intensiva quanto di quella biologica, sia enorme in termini di deforestazione, consumo di acqua e spreco di risorse. Giunge così alla conclusione che per ridurre l'allevamento intensivo e l'impatto di questo sulla vita, la soluzione più efficace consiste nello smettere di consumare carne e scegliere un regime di vita vegano. [7] Si veda A. Balzano, Per farla finita con la famiglia. Dall'aborto alle parentele postumane, Meltemi 2021, p. 119. [8] Sono peraltro note le posizioni di Haraway, sostenitrice della cosiddetta «carne felice», in materia di alimentazione carnivora; nel 2020, in Bestiario Haraway. Per un femminismo multispecie di Federica Timeto (per Mletemi), la studiosa americana intervistata dall’autrice, ha ribadito le sue tesi (peraltro condivise da un numero francamente imbarazzante di femministe che sembrano non individuare il legame tra industria della carne/capitalismo/patriarcato) restando su posizioni che sembrano parzialmente contraddire l'etica dei compagni di specie. [9] Si veda il prontuario del lessico harawayano: Dizionario per lo Chthulucene, redatto nel 2019 da Federica Timeto e disponibile sul sito di Not Nero-editions; «Chthulucene [è]: l’era nella quale viviamo, dal nome del ragno californiano Pimoa Cthulu, e non da quello del mostro di H.P. Lovecraft, con un’acca in più che rompe l’unità dell’essere singolare come un metaplasmo. Antropocene è una definizione chiusa in sé e incapace di rendere conto della complessità eterogenea del mondo. Al contrario, Chthulucene richiama le concatenazioni fra umano, altro da umano e humus, e la generatività rischiosa dei processi simpoietici. Lo Chthulucene è adesso, ma è anche uno spazio-tempo costantemente diffratto: tempo della respons-abilità, non della speranza». [10] Ivi,«Siamo compost, non postumani. Abitiamo le humusità, non le umanità. Solo adottando un approccio compostista possiamo assistere alla definitiva decomposizione dell’umano elevato sopra il corpo della natura. Compost è il mondeggiare, il farsi comune del mondo [worlding]. Non tutti portano la stessa storia e lo stesso peso nel compost, c’è chi è più respons-abile di altri in questo incessante lavoro di composizione-decomposizione. Le Comunità del Compost sono aperte e ospitali, coltivano parentele queer, realizzano il Comune. Compost è il contrario di accumulazione». [11] F. Timeto, Bestiario Haraway. Per un femminismo multipsecie, Mimesis, Milano 2020, p. 27.



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Giuliana Misserville si occupa di critica letteraria femminista e ha contribuito alla fondazione della Società Italiana delle Letterate (SIL). È autrice, tra altro, di Donne e fantastico. Narrativa oltre i generi (Mimesis 2020) e del podcast La mano sinistra. Storie fantastiche.

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