La produzione del sapere come campo di battaglia e l’esercizio del pensiero radicale nero. In questo testo acuto e dissacrante, John Gillespie rilancia l'appello afropessimista per «un nuovo linguaggio dell’astrazione» che spieghi l’«orrore» del «terrore anti-Black». Una sfida a tutto tondo al pensiero occidentale, al multiculturalismo e all’universalismo della Whiteness.
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A volte: Voglio
uccidermi
solo per vedere
cosa c'è
oltre
Una delle conseguenze della «violenza metafisica» [1] è stata la violenta cancellazione della produzione di idee e dello stesso processo di astrazione del pensiero nero, con la sua conseguente dislocazione nell'impensato. Questa violenza non ne ha solo impedito l’esercizio ma ha reso praticamente impossibile che il processo di astrazione del pensiero nero colorasse i termini e le gradazioni della sensibilità, della (intel)leggibilità e della stessa realtà. L'assenza delle nostre idee dall'economia della produzione concettuale ha l'effetto di rendere sospetto a prima vista ogni esercizio di astrazione. Un sospetto, va, tuttavia, riconosciuto, che non è particolarmente diverso da quelli che in genere la figura astratta del nero solleva. A metà strada tra buffonata e atto osceno, l’astrazione del pensiero nero è il bersaglio di ogni scherno e, allo stesso tempo, il piano su cui indagare seriamente e fare esperienza del terrore anti-Black.
Innalzata a livello del Pensiero, l'astrazione del pensiero nero è «priva di significato» perché al pensatore nero viene sempre richiesto di rimanere sul piano immediato del terrore. Pertanto, il pensiero nero esiste in una sorta di doppio legame o, forse, meglio, in una visione di parallasse in cui è il terrore dell'anti-Blackness a sollevare la necessità di un pensiero radicale nero, eppure è la tenacia e l'intensità di questo stesso terrore a giustificare l’dea che l'astrazione del pensiero nero sia un'attività priva di significato, elitaria e/o borghese. Ad esempio, l'appello afropessimista per «un nuovo linguaggio dell’astrazione che spieghi [l’]orrore» [2] del terrore anti-Black viene spesso frainteso come «borghese» [3] o «elitario» [4], come se le questioni filosofiche sollevate dalla catastrofe della violenza anti-Black non possano che essere mera teorizzazione da salotto.
La visione di parallasse aperta dalla domanda: «che tipo di Pensiero è quello che produce questo terrore?» andrebbe dunque dritta «al cuore etico-politico [del problema], alle questioni dell'ontologia politica» [5]. Nel suo essere «astratto», il pensiero nero solleva domande antagoniste al Pensiero stesso, che però restano allo stesso tempo incorporate nella violenza che produce la logica delle sue domande. Il pensatore nero si trova a un crocevia di violenza, bloccato in un dibattito senza senso tra l’«immediatezza» dei bisogni e l'immanenza di schemi concettuali anti-Black. Per me, i punti di vista filosofici non sono mai al di fuori della materialità. Sono impressi nel modo in cui discutiamo – e nel fatto che lo facciamo – se il pensiero nero debba occuparsi delle cose che riguardano «l’immediatezza» della vita dei neri o di questioni più «astratte» sulla violenza immanente dell'assiologia anti-Black. Ho parlato di «visione di parallasse» perché queste posizioni non devono essere contrapposte, anche se spesso lo sono. Il nero ha sempre avuto, nella sua carne senziente, la volontà di astrarre e il desiderio di ideare. Questo «pensare in disordine» [6] – la folle creatività dell'astrazione del pensiero nero – si manifesta nel modo più appropriato nella teoria afropessimista.
Per gli afropessimisti il riconoscimento, la reciprocità e le riparazioni per i neri non sono mai arrivati. Questa affermazione ha portato molti a ritenere che i teorici afropessimisti, per poter oggi affrontare la grande questione della morte violenta dei neri, debbano esprimere le loro astrazioni in modo più concreto. La proposta è discutibile. In primo luogo porterebbe a pensare che il proletariato legga Il Capitale di Marx da cima a fondo senza alcun insegnamento critico o che la complessa e astratta analisi marxiana della struttura del capitale non abbia alcuna funzione o scopo nella lotta contro il capitale perché Marx «usa paroloni». In secondo luogo, una simile critica dimentica che la teoria sociale, in quanto analisi di un sistema astratto e complesso fatto di caos e terrore sistemico, è un'attività astratta e linguisticamente complessa. Non è certo questa una ragione per non imparare, studiare, riassumere, sintetizzare e divulgare in vari modi. Al contrario, ciò diventa possibile credendo nella capacità delle cosiddette «masse nere» di apprendere, crescere e avere un «intelletto creativo», un «intelletto in azione» [7]. Inoltre, un'idea del genere presuppone che le «masse nere» non siano di già impegnate nel produrre e costruire l’analisi astratta che descrive la grammatica della loro sofferenza, in un modo che il mondo accademico legge come anti-filosofico o non filosofico. Terzo e ultimo punto: perché il terrore anti-Black dovrebbe impedire l’astrazione del pensiero nero – a ogni livello – e perché la prassi filosofica e concettuale dell'astrazione non sarebbe importante per «il rovesciamento assoluto, il capovolgimento assoluto di questa merda?» [8] In altre parole, perché il Pensiero stesso non è un campo di battaglia?
Uno dei grandi fallimenti del pensiero politico odierno è, infatti, l’incapacità di collegare realmente la politica concettuale astratta del mondo accademico con la più generale economia politica e libidica. Questa è la funzione e l'utilità del concetto che ho chiamato «economia concettuale» [9]: Nel mondo accademico c'è ancora la tendenza a considerare i problemi all’interno di una «torre d’avorio», mentre invece i problemi del «mondo reale» stanno «al di fuori» del mondo accademico. È un sincero fallimento del pensiero e dell'analisi. È la riproposizione del divario Natura/Cultura, moltiplicato e ampliato fino a raggiungere un livello inquietante. In questo divario, il mondo esterno all'università viene trasformato nel mondo «reale» e l'università diventa un’istituzione «esterna» per l’astrazione culturale. Ma no! L'Università è un terreno di lotta genuino e reale, il terreno della storia dello studio e del pensiero nero. La lotta dei neri stessa è la testimonianza di una sfida sia all'impresa accademica sia all’espropriazione coloniale delle comunità locali che l’accademia abita e allo stesso tempo esclude. Dalla politica segregazionista nei programmi di istruzione fino alla storia del terrore bianco contro ogni tentativo dei neri di leggere, di pensare, contro ogni politica per l'istruzione e l’apprendimento (che è per l'università in Occidente il più alto livello di astrazione), è sempre una questione di violenza reale. Questa violenza reale è legata all'economia concettuale dell'Occidente nella misura in cui la rimozione dell'astrazione del pensiero nero dal sistema formativo, l'annientamento storico dei neri che hanno studiato da autodidatta e in generale la messa al bando dei neri dall'apprendimento sono tra loro collegati. Non è quindi esagerato affermare che la storia dell'apprendimento e del pensiero nero è una storia di violenza, cancellazione e abiezione. In ogni tentativo di pensare e produrre idee, il nero ha dovuto infatti scontrarsi con la legge ed è questa stessa legge che ha bandito l’astrazione del pensiero nero.
Una parte di ciò che deve essere fatto, è rifiutare apertamente l’idea pretestuosa secondo cui essere nell'accademia significhi provenire o essere ufficialmente entrati nella classe media. Ogni «sporco negro» con un dottorato di ricerca sa di essere ancora essenzialmente Rubi Bridges il primo giorno di scuola, ogni giorno di scuola. Il lavoro di Franco Bifo Beradi sul «cognitariato» si avvicina, ma non racchiude completamente cosa significhi essere uno Schiavo pensante. Dobbiamo quindi collegare il terrore dell'università alla gentrificazione delle strade. Dobbiamo collegare i costi per l’istruzione alla sottrazione di risorse alle comunità. Dobbiamo individuare nell'accumulo strutturale di debito delle università la disseminazione dell’anti-intellettualismo reazionario. Dobbiamo rifiutare e disinnescare il dentro-fuori dell'università. I Black Studies non sono un'impresa accademica ma un esercizio di pensiero nero, di studio e di lotta. L'Universo è la nostra università. L'università, tuttavia, è un parassita dell'Universo, nella misura in cui segna il recinto nel quale il suo apparato concettuale costruisce se stesso e ne stabilisce arbitrariamente l’accesso. Ecco perché la soluzione al «problema del linguaggio gergale» dei Black Studies in accademia non è «zittire l'intellettuale nero» ma abolire l'università e aprire al pubblico – gratuitamente – tutte le aule, le classi, i cicli di conferenze, i dibattiti e l’intero armamentario delle forme mercificate di istruzione.
L'università opera un taglio nell'Universo, ne accorpa le risorse, poi misura chi apprende e chi non apprende in base a una metrica ad attitudine anti-Black, e limita le risorse a disposizione a pochi auto-selezionati. L'università è un country-club per l'intellighenzia. Queste risorse sono politiche più che economiche. Ridurre l'università a una valutazione finanziaria significherebbe riprodurre l'assunto neoliberista che equipara istruzione e apprendimento al conseguimento economico. L'università è un'impresa ma è una forma unica di impresa. È un'impresa di astrazione, un mercato per la produzione di concettualizzazioni egemoniche. Il pensiero nero è un esercizio di lotta, produzione di idee e di astrazione. Così come in passato molti non riuscivano a capire quale funzione o utilità uno Schiavo potesse trarre da un libro, vietandogli contemporaneamente di leggerlo, oggi questa stessa logica funziona contro l'astrazione del pensiero nero. Secondo questa logica la domanda sarebbe: quale funzione o utilità potremmo trarre dall'astrazione noi che siamo Schiavi (consciamente o inconsciamente, la visione di parallasse è infestata dai postumi della schiavitù)? Quasi a dire: «se non mi dà da mangiare, dà da vestire, se non pone fine alla mia schiavitù, non lo tollererò». Ma seguiamo dove ci porta questa strada buia. Vediamo cosa succede nelle sciocchezze, nei borbottii e nell'ottusa oscurità. Entriamo nella Blackness dell'astrazione. Forse, troveremo quella cosa che abbiamo sempre cercato. Il nulla, ecco tutto. Forse, finalmente, troveremo il nulla.
Note [1] Chiamiamo «violenza metafisica» (metaphysical violence) l'abolizione delle consuetudini e della soggettività dei neri, l'imposizione di una nuova civiltà che ha posto queste consuetudini e questa soggettività come «contraddizione», nonché la violenza che ha reso possibile tutto ciò. Nel solco aperto dal pensiero di Frantz Fanon, la violenza metafisica è alla base della grammatica e della sintassi del mondo anti-Black; è il tipo di violenza che restituisce «coerenza» al mondo. Senza questa violenza «creatrice di mondo» non ci sarebbe il mondo come lo conosciamo. Sul tema, Jared Sexton ha efficacemente scritto che si tratta di «una metafisica che continua a vivere ben oltre e nonostante la sua distruzione», Affirmation in the Dark: Racial Slavery and Philosophical Pessimism, «The Comparatist», vol. 43, 2019, pp. 90-111, p. 103. [2] F. B. Wilderson III, Red, White & Black: Cinema and the Structure of US Antagonisms, Duke University Press, Durham (NC) 2010, 99. In italiano si veda Afropessimismo. Intervista a Frank B. Wilderson III (di C.S. Soong), «Machina», 5 marzo 2021. [3] J. Sanchez, Against Afro-Pessimism, «Jacobin» 2022, https://jacobin.com/2022/06/afro-pessimism-frank-wilderson-socialism-flattening-racism. [4] Kevin Ochieng Okoth, The Flatness of Blackness: Afro-Pessimism and the Erasure of Anti-Colonial Thought, «Salvage», 2020. [5] F. B. Wilderson III, Red, White & Black: Cinema and the Structure of US Antagonisms, cit., p. 3. [6] R. A. Judy, Sentient Flesh: Thinking in Disorder, Poiésis in Black, Duke University Press, Durham (NC) 2020, p. 17. [7] Ivi, p. 17. [8] F. Moten, Blackness and Nothingness (Mysticism in the Flesh), «South Atlantic Quarterly», vol. 112, 2013, p. 742, https://doi.org/10.1215/00382876-2345261. [9] J. Gillespie, Anarcha’s Science of the Flesh: Towards an Afropessimist Theory of Science, «Catalyst: Feminism, Theory, Technoscience» 8, n. 1 2022.
Immagine: Untitled 2022, di J.T. Crestwell @nottjyo
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John Gillespie, scrittore, poeta e musicista, allievo di Frank B. Wilderson, è dottorando di Letteratura comparta alla University of California Irvine. Per «Vortex» ha scritto Sono uno Schiavo.
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