Insorgenze femministe, riproduzione sociale e lotta delle donne contro il Capitale
- Silvia Federici
- 19 ore fa
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Estratto da Scritti sulla riproduzione

È da poco uscito per ombre corte il volume Scritti sulla riproduzione. Dal Salario al lavoro domestico alle «insorgenze femministe» di Silvia Federici.
Proponiamo oggi un estratto dal capitolo conclusivo, in cui l'autrice riflette sulle nuove mobilitazioni che dall'America Latina aprono nuove prospettive al femminismo.
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Abbiamo inaugurato un tempo nuovo. Siamo scese nelle strade delle nostre città per quattro anni ogni volta che una donna veniva assassinata. Abbiamo affrontato la violenza. Abbiamo messo sottosopra il mondo mentre ne costruivamo uno nuovo. Abbiamo discusso, abbiamo pianto, riso, ci siamo abbracciate, ci siamo prese cura l’una dell’altra. Stiamo inventando nuovi mondi per dire ciò che ci manca e per cosa lottiamo. Collettivo Minervas, Montevideo 2022
Le parole scritte dal collettivo Minervas di Montevideo (Uruguay) esprimono bene il significato di «insorgenza femminista» a cui faccio riferimento nel titolo di questo saggio. Mi riferisco, in particolare, al fatto che siamo oggi testimoni, sul piano internazionale, e soprattutto nella cosiddetta America Latina, della crescita di un nuovo movimento femminista rivoluzionario che non lotta per l’uguaglianza con gli uomini o solo per migliorare le condizioni di vita delle donne, ma si mobilita per attivare un ampio processo di cambiamento sociale sistemico, in aperto antagonismo con i piani dello Stato e delle istituzioni economiche e religiose. È questa l’«insorgenza femminista» a cui faccio riferimento. È l’insorgenza di movimenti come Ni una menos in Argentina, come la Coordinadora in Cile (una rete di movimenti che ha organizzato, nel 2018, lo sciopero delle donne) e i movimenti del «femminismo popolare» che in America Latina hanno profonde radici nelle organizzazione di massa delle donne anche all’interno dei sindacati. Sono movimenti che portano nelle strade migliaia di donne e altri soggetti antagonisti che non fanno più affidamento sui governi per raggiungere i propri obiettivi, ma assumono invece posizioni anticapitaliste e anticoloniali. Per noi, negli Stati Uniti, in un momento in cui il femminismo sembra attraversare una profonda crisi, e la perdita del diritto all’aborto ne è solo l’espressione più significativa, questi movimenti sono fonte di grande ispirazione. Ci aiutano a comprendere la necessità di dare al femminismo nuove fondamenta o quantomeno a capire che cos’è che ne limita la crescita. In questo articolo, sullo sfondo della storia del femminismo anticapitalista degli anni Settanta, rifletto sui nuovi orizzonti della lotta femminista sul terreno della riproduzione sociale e sugli ostacoli che oggi, negli Stati Uniti, si frappongono alla formazione di un’alleanza ampia tra movimenti femministi e non solo, capaci di influenzare la politica istituzionale e promuovere un processo di cambiamento radicale.
Riscoprire il femminismo
La crescita di questo nuovo femminismo, forte specialmente nell’ America del Sud – oggi ridefinita Abya Yala – non è casuale. Le giovani che scendono a migliaia nelle strade – spesso istoriando i propri corpi o denudandoli provocatoriamente, come tradizionalmente facevano le donne in Africa in segno di protesta – sono cresciute in società destabilizzate dalle politiche neoliberiste, o hanno assistito a brutali repressioni, come nel caso di Cile e Argentina. Sono quindi ben consapevoli dell’eredità e della continua presenza del dominio coloniale nelle loro regioni. I movimenti che organizzano sono «trasversali«, riguardano questioni ecologiche, protestano contro la monocoltura, la commercializzazione e la devastazione dell’ambiente, si oppongono alla distruzione prodotta sia dall’estrattivismo delle compagnie minerarie e petrolifere sia dall’estrattivismo finanziario e denunciano la «politica del debito» in particolare rispetto agli effetti che ha sulle donne. In questo processo, stanno costruendo alleanze ampie che riuniscono gruppi molto diversi di donne: donne delle aree rurali e urbane, studentesse, lavoratrici del sesso, donne che lavorano nei sindacati e nelle economie solidali, donne nei campi di immigrati e nelle favelas, donne indigene e persone trans e travestite. Mi concentro su questi movimenti perché credo che siano le forze politiche oggi più capaci di contrastare i progetti distruttivi del capitale internazionale, che attraverso la guerra, l’espulsione di milioni di persone dalle loro terre e la distruzione ambientale, stanno producendo un processo di desertificazione sociale e globale. Sono anche i movimenti meglio posizionati per avviare un processo di ricostruzione sociale e gettare le fondamenta di una società più giusta. La forza della loro opposizione al potere costituito e la loro capacita propositiva e costruttiva sono radicate nell’esperienza che le donne hanno acquisito da generazioni attraverso l’impegno nel processo della riproduzione sociale, sia come lavoro che come terreno di lotta.
Riproduzione sociale e lotta femminista
A partire dagli anni Settanta e, per molti versi, anche in fasi precedenti, a livello internazionale le femministe hanno denunciato che le stesse attività con cui la vita umana viene riprodotta nel capitalismo sono state trasformate in un terreno di sfruttamento delle donne. Poiché il capitalismo ha sussunto la riproduzione della vita umana alla riproduzione della forza lavoro, le stesse attività senza le quali – ci viene insegnato – la vita non esisterebbe, si sono trasformate in uno strumento di oppressione. Abbiamo, dunque, denunciato l’esistenza di un sistema politico, incentrato sulla famiglia nucleare, che ha trasformato il matrimonio in una transazione economica, contrattata per motivi di sicurezza, in un contesto in cui alle donne per generazioni si è negato l’accesso al lavoro salariato. Abbiamo smitizzato il significato dell’amore, dimostrando che per le donne ha significato lavoro non pagato, grazie a una perversa divisione sessuale del lavoro che ha trasformato la nostra vita in una costante fonte di fatica e preoccupazioni. Tuttavia, dobbiamo riconoscere che l’esperienza acquisita attraverso il lavoro di riproduzione è stata anche una fonte di grande conoscenza per le donne – una conoscenza che ha ampliato la prospettiva del movimento femminista. Produrre esseri umani è un’operazione molto diversa dal produrre automobili o altre merci. Attraverso il lavoro di riproduzione – che rimane l’occupazione primaria delle donne anche in presenza di lavoro extradomestico, e che molto spesso è un’estensione del lavoro domestico – le donne hanno acquisito una comprensione più profonda di ciò che è necessario per la vita umana e una maggiore propensione a difenderla. Inoltre, l’essere confinate al lavoro di riproduzione ci ha aperto gli occhi sulla logica che guida l’accumulazione capitalistica, mostrando la sfera del lavoro non salariato e non retribuito molto più ampia di quanto immaginato da Marx. Come i movimenti anticoloniali e anti-apartheid degli anni Sessanta, il femminismo ha «decentrato» la concezione di chi fossero i soggetti dell’accumulazione capitalista e i soggetti rivoluzionari. La tesi che propongo è che i nuovi movimenti che oggi scendono in massa nelle strade di Abya Yala, realizzano il potenziale del movimento femminista degli anni Settanta, disperso negli anni Ottanta, quando il femminismo è stato catturato dalle Nazioni Unite e dalle istituzioni finanziarie, in risposta alla necessità del capitale di reclutare le donne per la sua nuova fase di sviluppo, che, come ho scritto in «Andare a Pechino» si è basata in gran parte sullo sfruttamento dei corpi e del lavoro delle donne.
Nuovi femminismi e orizzonti politici
Nati nella lotta contro la violenza sulle donne e per il diritto all’aborto, i nuovi femminismi hanno assunto la riproduzione della vita quo-tidiana come orizzonte politico delle lotte. Hanno riconosciuto (nelle parole di Verónica Gago, una delle principali portavoce di Ni una menos in Argentina) che la riproduzione non è solo un settore particolare dell’economia capitalistica, «la controparte della produzione», e non è solo la fabbrica in cui viene prodotta la forza lavoro, come lo era per noi nel movimento per il Salario al lavoro domestico degli anni Settanta. Piuttosto, considerano la riproduzione, in tutti i suoi aspetti, sia come il principale terreno dello sfruttamento capitalistico sia come lo spazio della lotta per la valorizzazione delle nostre vite. In questa prospettiva la riproduzione è il terreno in cui forgiare alleanze, valutare le politiche dello Stato, la loro capacità di soddisfare i nostri bisogni, proteggere il mondo naturale, garantire la vita delle generazioni presenti e future. È soprattutto il terreno su cui costruire la nostra forza per rivendicare la ricchezza che abbiamo prodotto e che lo Stato ci ha sottratto. In questo processo, il concetto di riproduzione si è ampliato rispetto alla comprensione femminista della riproduzione sociale e del lavoro riproduttivo negli anni Settanta. Allora, l’analisi femminista si concentrava sul lavoro domestico, ne sottolineava il carattere non retribuito e la sua naturalizzazione come prerogativa e destino delle donne. Nei cinque decenni successivi, molto è successo. Le donne e gli altri soggetti antagonisti che militano oggi nei movimenti femministi sono cresciuti in un mondo neoliberale, che ha visto la distruzione sistematica di intere comunità. È un mondo in cui le nuove generazioni non hanno futuro e persino la vita sul pianeta è in questione. Le nuove soggettività femministe sono cresciute – certamente in America Latina – in un mondo circondato da «zone di sacrificio», il che significa in realtà «popolazioni sacrificate». È questo un mondo in cui il lavoro è organizzato in «zone di libero scambio», spesso aree offshore dove chi lavora, prevalentemente giovani donne, non hanno diritti e lavorano letteralmente dall’alba al tramonto, in ambienti polverosi e velenosi, per una miseria, con il divieto di organizzarsi, brutalmente represse se tentano di formare un sindacato. Sono donne che hanno visto l’invasione delle proprie terre, l’inquinamento dei fiumi e delle aree costiere dei loro paesi da parte dell’agribusiness e di altre industrie alimentari, o da parte di industrie che si appropriano di terre, acque e spiagge per la produzione della «benzina verde» o per l’installazione di impianti eolici. In questo contesto, la riproduzione e l’impegno a «mettere la vita al centro» («poner la vida al centro») hanno acquisito un significato diverso. Mentre la lotta contro la svalutazione del lavoro domestico e la depenalizzazione del lavoro sessuale rimangono cruciali, la lotta per la riproduzione si è estesa fino a includere la difesa dell’agricoltura di sussistenza, la difesa della terra, dell’acqua, delle foreste. Include la lotta contro il disboscamento, contro le trivellazioni petrolifere, per la rigenerazione ecologica e, non ultimo, la lotta contro l’indebitamento. «Ci vogliamo vive e senza debiti: vivas y desendeudada la queremos», come hanno gridato le donne in Argentina, in occasione della Giornata internazionale della donna, considerando anche l’«indebitamento» una forma di estrattivismo.
Carattere comunitario e speranza per il futuro
Muovendosi in questa prospettiva i nuovi movimenti femministi sono apertamente e programmaticamente anticapitalisti, anticoloniali, anti-statali. «Lo stupratore sei tu: polizia, governo e Stato» hanno scandito migliaia di donne in Cile e, in breve tempo, il loro grido ha fatto eco tra le donne di tutto il mondo, in almeno trecento città. Il suo carattere comunitario è uno degli aspetti che più colpisce del femminismo in America Latina: Argentina, Uruguay, Cile. Risalta la sua capacità di aprire spazi decisionali collettivi in cui discutere questioni, confrontare agende, riunire donne provenienti da ambiti lavorativi e sfere di vita molto diverse. Importante, in questo contesto, è la tradizione della lotta delle donne appartenenti ai movimenti indigeni, come gli Zapatisti, e delle organizzazioni di base che, nelle periferie delle città latinoamericane, hanno creato forme collettive di riproduzione: cucine popolari, orti urbani, banche di semi e così via. È in virtù di questo spirito, che non solo fornisce aiuto reciproco e supporto economico, ma genera fiducia, solidarietà e legami affettivi, che i movimenti femministi in America Latina e a livello internazionale sono cresciuti, come lo ha dimostrato, nel 2017, la potente risposta internazionale all’appello delle femministe argentine per uno sciopero globale delle donne. Comprendere come le istanze femministe siano riuscite a prevalere sulle molte forze – politiche e religiose – che hanno cercato di vanificare i loro sforzi – nonostante la grande violenza scatenata contro di loro – è cruciale anche per i movimenti in altre parti del mondo. Lo è certamente negli Stati Uniti, dove siamo testimoni del tentativo di riportare la politica statale a ciò che era prima del New Deal, verso un capitalismo totalmente deregolamentato e illimitato. Il risultato è una società militarizzata, in cui migranti, giovani neri, e dissidenti già vivono sotto la minaccia della deportazione, del carcere e della morte, e il movimento femminista fatica a riprendersi dalla grande sconfitta dell’annullamento della sentenza Roe vs Wade che nel 1973 aveva garantito il diritto d’aborto a livello federale. Rispetto a questo quadro politico preoccupante, la crescita di questo nuovo femminismo internazionalista e rivoluzionario rappresenta una controtendenza e una grande fonte di ispirazione.
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Silvia Federici, filosofa e femminista, negli anni Settanta è stata tra le fondatrici della campagna internazionale Salario al lavoro domestico. È una delle figure di riferimento dei movimenti femministi internazionali. Ha pubblicato con ombre corte Il punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista (2014-2020) e Reincantare il mondo. Femminismo e politica dei commons (2018-2021). Per DeriveApprodi ha pubblicato Genere e capitale (2020) e Caccia alle streghe e capitale (2022).








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