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Continua la discussione aperta dalla rivista sulla nuova «resistenza». L’articolo di Valeria Finocchiaro, pubblicato in questa sezione la scorsa settimana (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/giorgia-meloni-e-l-album-di-famiglia-del-femminismo), ha stimolato un vivace dibattito, nella cui cornice va letto il contributo che qui proponiamo: «Hanno ragione le Spice Girls», di Francesca Ioannilli, Veronica Marchio e Gigi Roggero. Come viene sottolineato nell’articolo, è chiaro «che in ballo in questa discussione, per noi, non è affatto il giudizio su Meloni o sul suo rapporto col femminismo (!), ma la determinazione storica del femminismo oggi, dentro la società capitalistica, nella trasformazione dei rapporti di potere tra i generi». Auspichiamo che queste riflessioni vengano riprese e discusse da altri interventi, che siamo lieti di pubblicare, per allargare una discussione di cui avvertiamo un grande bisogno.


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Margaret Thatcher è la prima Spice Girl, cioè la vera iniziatrice del Girl power, il potere alle ragazze.

Geri Halliwell


Dopo un’estate come quella che abbiamo vissuto, con un caldo opprimente e senza soluzione di continuità, il desiderio istintivo è quello di aria fresca, di tornare a respirare. Ecco, l’articolo di Valeria Finocchiaro è questo: una boccata, anzi una ventata di aria fresca.

Già, perché il tormento della canicola estiva è stato accompagnato dal tormento del dibattito sul rapporto tra Giorgia Meloni e il femminismo, già menzionato nel testo di Finocchiaro con particolare riferimento agli interventi di Michela Murgia e Rosi Braidotti. Un dibattito del femminismo «mainstream», si dirà, perché il femminismo «radicale» il problema non se l’è proprio posto: Meloni è di destra, una femminista non può essere di destra. Punto. Anzi, ancor di più. Una femminista non può che essere per la liberazione di tutte e di tutti, contro qualsiasi forma di oppressione e sfruttamento. Come se esistesse una contrapposizione ontologica tra femminismo e capitale, una verità oggettiva che non ammette discussioni e repliche. Se si assume questa prospettiva, è chiaro che lo stesso femminismo «mainstream», o «emancipazionista», è un falso femminismo.

Prima di entrare nel merito di questo postulato, restiamo sul dibattito estivo. A scatenare la polemica è stato un appello/manifesto firmato da varie femministe, gruppi o singole, dal significativo titolo Un orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti. In esergo, una frase pronunciata nel 1791 da Olympe de Gouges, riconosciuta antesignana e progenitrice del femminismo moderno: «Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico?». Segue il richiamo a un’altra nume tutelare: «Nel segno di Carla Lonzi a quarant’anni dalla scomparsa: elettrici e attiviste di tutti i partiti si uniscono nel dono di un “programma imprevisto” comune, orizzonte per un cambio di civiltà». Poi l’incipit, esplicito: «Siamo donne che votano ogni parte politica. Viviamo in ogni parte del paese. Apparteniamo a ogni condizione sociale. Siamo madri e non madri. Abbiamo una fede, o siamo agnostiche, o atee. Ci tiene insieme l’essere donne e la consapevolezza che quello che è buono per una donna e per le sue figlie/figli è buono per tutte e tutti». A partire da questo assunto, semplice e chiaro, si staglia la pretesa universale del femminismo: «Giustizia per le donne e giustizia per il mondo sono la stessa cosa».

Apriti cielo! In particolare «la Repubblica», da tempo principale partito in pectore della sinistra, strepita di indignazione. Natalia Aspesi bolla come «falsa illusione» quel manifesto, perché la candidata premier «ragiona al maschile». Cosa significa? Aspesi non lo spiega. Forse, sembrerebbe di capire, è l’aspirazione al potere? Ciò però contrasta con le lodi alle donne che, al potere, dimostrano di poterlo esercitare in modo diverso. Insomma: esistono donne vere e donne false. Le prime esercitano un potere buono, femminile, le altre un potere cattivo, maschile. Le prime sono di sinistra, le altre di destra. Dimenticando, tra l’altro, che la mitica Olympe de Gouges era comunque una girondina, quindi traducendo nel lessico politico contemporaneo era femminista, di destra e liberista.

Concita De Gregorio, in modo imbarazzato e confuso, ovviamente non può che espellere Meloni dal pantheon del femminismo, pur ammettendo che la sua ascesa costituisce una lezione per l’unico schieramento abilitato a definirsi femminista, ossia quello di sinistra. La nota firma repubblicana si cimenta in un’ambiziosa premessa, affrontando teoricamente l’impegnativo problema di cosa definisca una donna, che in sé «è un soggetto di fantasia, un’entità mitologica come l’unicorno o l’ircocervo, una figura che esiste solo nelle fiabe della buonanotte, nelle leggi sulle quote rosa e nel dibattito pubblico pre-elettorale». Il problema, chiaramente, va ben al di là dello spazio di un articolo, e – osiamo pensare – eccede parecchio la penna di De Gregorio. Se ciò da un lato le consente di affermare che avere «Una Donna Presidente o La Prima Donna Presidente non significa assolutamente niente», dall’altro rischia di darsi la zappa sui piedi. Un lettore o una lettrice pignola, infatti, avrebbero buon gioco a obiettare: ma se le donne sono figure di fantasia, se «come ogni essere vivente rispondono alle categorie degli umani: ce ne sono di intelligenti e di idiote, di generose e di avide, di corrotte e di integre, di coraggiose e di pavide», se dunque si toglie al genere femminile qualsiasi sostanza e connotazione storica, riducendolo a una sommatoria indistinta di esseri viventi, allora su che cosa si basa il femminismo?

Già a questo punto della lettura, pensiamo che non sia proprio il caso di richiamare l’abusata metafora del dito e della luna per capire che in ballo in questa discussione, per noi, non è affatto il giudizio su Meloni o sul suo rapporto col femminismo (!), ma la determinazione storica del femminismo oggi, dentro la società capitalistica, nella trasformazione dei rapporti di potere tra i generi. Consapevoli – ci sembra banale premetterlo – che nel corso del tempo il femminismo si è composto di una molteplicità di pratiche e prospettive, di femminismi, spesso molto diversi e talora in aspro conflitto tra di loro, a partire però da un minimo comune denominatore, che consente a tutte di definirsi femministe, ognuna a suo modo.


Il capitalismo può vivere senza patriarcato?

Finocchiaro affronta le questioni e le domande che nei succitati contributi restano irrisolte e inevase. Sostiene, correttamente, che il femminismo non è riducibile al semplice sesso biologico, purché non lo si consideri irrilevante, scivolando così in una discussione completamente astratta e disincarnata, dal sapore mistico e teologico. Piuttosto, «al nocciolo del femminismo, al netto dei suoi – pur drammatici e inevitabili – conflitti interni, c’è l’idea che il sesso biologico non debba predeterminare il destino di un individuo, i suoi desideri e il suo ruolo nel mondo. Non solo, il femminismo, come è noto, non è mai stato solo un insieme di teorie e di enunciati raccolti nei manuali; esso è stato anche un eccezionale incubatore di prassi, di esperienze vive, di modelli e di immaginari simbolici». Perciò, negare che l’ascesa delle donne al potere abbia a che vedere con il femminismo, costituendo «senza dubbio passi in avanti», significa negare al femminismo uno «spazio di esistenza autonomo».

L’autrice può così, senza timori ideologici o paura di scomuniche, arrivare alla radice delle cose, laddove non riescono o non vogliono arrivare la maggior parte delle femministe, «mainstream» o «radicali» che siano. Perché le une e le altre sono affette da quella «presunzione concettuale che caratterizza la sinistra occidentale da molto tempo: l’errata convinzione di essere la misura di tutte le cose». Solo dal pulpito di questa presunzione concettuale, ovvero di una scala valoriale e morale a cui non corrisponde una materialità di posizioni, comportamenti sociali e processi storicamente determinati delle donne che si vorrebbero rappresentare, si possono distribuire patenti di femminismo e decretare espulsioni. Allora, leggiamo con pacato rigore analitico e politico: «Sforzandoci di considerare Giorgia Meloni non del tutto estranea alla storia del femminismo avremo cioè ottenuto un guadagno teorico importantissimo: l’idea, non proprio rassicurante e tuttavia storicamente efficace, che il femminismo non è la soluzione a tutti i problemi del mondo, e che femminismo significa una cosa molto più semplice, precisa e, probabilmente, più settoriale. Il femminismo è l’insieme delle istanze legate alla questione femminile».

Ecco, questo è il punto. Identificato il femminismo come un insieme di teorie e incubatore di prassi che, a partire dalla condizione di genere, esercitano un obiettivo autonomo, specifico, perfino «settoriale», per emancipare ovvero liberare la condizione femminile dal giogo dell’oppressione maschile, dobbiamo chiederci se questa emancipazione o liberazione siano incompatibili con il sistema capitalistico. O per porla in altri termini, se le donne liberando se stesse liberino automaticamente tutti. Il femminismo radicale non ha ovviamente dubbi nel rispondere affermativamente, accusando così il femminismo «mainstream» o «emancipazionista» di essere compromesso con il capitalismo neoliberale, tradendo il vero spirito del femminismo. Su questa base, la cosiddetta intersezionalità non è un obiettivo da raggiungere, ma una caratteristica fondante e astorica del vero femminismo.

Ora, non c’è dubbio che per secoli, fin dalle sue origini, il capitalismo si sia sviluppato anche attraverso l’oppressione di genere, del maschio sulla femmina. Ma è un dato contingente o necessario? Ovvero, potrebbe essere diversamente? Domanda scabrosa, ne siamo consapevoli. Senza affrontarla, però, il discorso politico scivola nell’ideologia, si arrocca nella fede religiosa, si fa scudo di sicurezze autoreferenziali.

Diverse analisi, anche in questa rivista, mostrano come alla femminilizzazione del lavoro si sia accompagnata una femminilizzazione del potere. Non ci riferiamo solo al potere nella politica istituzionale, ambito nel quale Giorgia Meloni si aggiungerebbe a una fenomenologia internazionale sempre più ampia e ormai di lungo corso. Ci riferiamo anche al potere nelle industrie della produzione e soprattutto della riproduzione, dalla scuola alle cooperative sociali, dagli ospedali al settore della cura mentale e fisica, dentro quello che Christian Marazzi ha definito il modello antropogenetico del capitalismo contemporaneo. Al di là o al di qua di approfondite analisi teoriche è sufficiente l’osservazione quotidiana, dei luoghi in cui lavoriamo o dei rapporti familiari e relazionali in cui siamo immersi, soprattutto nei nostri «ambienti», che sono per la maggior parte quelli dei ceti medi cognitivi, più o meno precarizzati, più o meno rampanti. Oppure si leggano romanzi come La fabbrica di Joanne Ramos, per non parlare del profetico occhio ballardiano de Il paradiso del diavolo; o si guardino i film, tra i tanti il primo paio di titoli che ci viene in mente: I care a lot e La jefa. E nelle serie tv, ve ne viene in mente qualcuna in cui la questione di genere non abbia un ruolo di primo piano?

La presenza delle donne nelle posizioni di potere non è solo quantitativa, è anche qualitativa. Determina cioè una mutazione del potere e del suo modo di esercitarlo. Quando era salda e indiscussa l’egemonia patriarcale, le poche donne ammesse nelle stanze dei bottoni erano cooptate per «ragionare al maschile». Con buona pace di Aspesi non è più solo così, o almeno lo è sempre di meno.

Quello che stiamo provando a dire è che il patriarcato è finito, come già il femminismo della differenza affermò diverso tempo fa. L’affermazione è forse troppo sbrigativa, se non spieghiamo cosa significa. Non intendiamo dire che il patriarcato sia scomparso, sarebbe evidentemente una sciocchezza. Stiamo invece sostenendo che il patriarcato non fa più sistema, benché siano ancora diffusi e quantitativamente consistenti i suoi effetti e ancor più i suoi terribili colpi di coda, come l’infame violenza contro le donne dimostra. Anzi, questa mostruosa violenza squaderna tutta la debolezza del genere maschile. Non a caso avviene soprattutto in basso, dove il maschio non trova più nell’esercizio di potere sulla donna, soprattutto in ambito domestico, un perverso «salario psicologico» che possa sublimare la sua crescente impotenza e il duro impoverimento imposto dalla crisi.

«Se adesso il potere se lo prendesse una donna, una giovane donna, la cultura patriarcale sarebbe sconfitta oppure semplicemente sostituita da un matriarcato altrettanto violento?». Ecco, senza volerlo, Aspesi pone una questione centrale. Se il potere patriarcale è violentemente verticale, picchia con il bastone e riconosce con la carota, il potere matriarcale è ipocritamente orizzontale, cura con l’abbraccio e ferisce con il senso di colpa. «Devi farlo e basta, perché sei un sottoposto», è il «ragionare maschile»; «mi deluderesti se non lo fai, perché siamo una comunità», è il «ragionare femminile».

Questa tendenziale mutazione del potere – ripetiamo, a scanso di equivoci: ancora limitata e a macchia di leopardo, certo non a tutti i livelli della società – non mette fine al dominio del capitale. Rappresenta anzi una sua nuova forma di gestione, comando e controllo. Ciò significa che il rapporto tra capitalismo e potere patriarcale è di natura storica, ossia contingente, e non di natura ontologica, dunque necessaria.

Avventurandoci – troppo rapidamente, ne siamo consapevoli – in un parallelismo con un’altra questione che ha un suo «spazio di esistenza autonomo», ci pare che spesso anche diverse teorie ecologiste assumano senza verificarlo un presupposto analogo. Quante volte negli ultimi anni si è ripetuta la frase di Chico Mendes (tralasciamo qui il fatto che l’abbia veramente detta o sia stata presa dai baci perugina di internet): l’ambientalismo senza lotta di classe è semplicemente giardinaggio. Chi può affermare senza tema di smentita che il capitale sia incompatibile con quella forma di «giardinaggio», ossia che non possa esistere una vera svolta ecologica se non superando l’attuale sistema? E se l’attenzione capitalistica al genere e all’ambiente non fossero semplicemente pinkwashing e greenwashing, ma reali processi di innovazione, nuove forme di accumulazione e reindustrializzazione? E se il capitalismo divenisse pink e green, noi che facciamo?


Il girl power è buono per tutti?

Si potrebbe obiettare che lo stesso discorso qui condotto per la questione di genere potrebbe essere esteso al rapporto di classe. La facciamo breve, pronti ad approfondire e articolare la discussione come meriterebbe. Se è pensabile un capitale senza oppressione del maschio sulla femmina, e in alcuni ristretti ambiti ciò è già realtà, o addirittura con un’oppressione contraria, non è pensabile un capitalismo senza sfruttamento di classe, cioè – perdonateci la semplificatoria brutalità marxiana – senza estorsione del plusvalore. Non può esistere un capitalismo senza capitalisti e capitaliste da una parte, senza proletari e proletarie dall’altra.

Prendere sul serio questa obiezione, tuttavia, ci consente di riflettere su un aspetto di notevole rilevanza. L’appello citato in apertura afferma che «quello che è buono per una donna e per le sue figlie/figli è buono per tutte e tutti», che «giustizia per le donne e giustizia per il mondo sono la stessa cosa». In modo conseguente con quanto sostenuto qualche riga sopra, sottoscriveremmo un appello che affermasse che «quello che è buono per un proletario o una proletaria e per le sue figlie/figli è buono per tutte e tutti», che «giustizia per i proletari e le proletarie e giustizia per il mondo sono la stessa cosa»? No, proprio no. Ciò lo affermava la tradizione socialista, con la sua vocazione universalistica e umanitaria, secondo cui la liberazione degli operai significava la liberazione dell’intero genere umano. Quel socialismo è finito con il deflagrare della Prima guerra mondiale, diventando dopo la grande crisi del ’29 forma di gestione del capitale. L’Ottobre rompe con il socialismo, e solo così può osare l’assalto al cielo. Un assalto fallito, certo, comunque gli sviluppi successivi hanno dimostrato che non c’era incompatibilità tra socialismo e capitalismo.

Quando la lotta di una parte si immedesima nell’interesse generale, bisogna sapere che quell’interesse generale è sempre l’interesse del capitale. L’universalismo non è mai il punto di partenza di un conflitto. Perché un conflitto, quando arriva materialmente a mettere in discussione i rapporti di dominio e di potere esistenti, rompe innanzitutto con l’universalità dell’interesse umano, ne disvela la mistificazione, fa emergere l’irriducibile parzialità di una parte contrapposta a un’altra parte. Gli operai e i proletari, in sé, non sono portatori di alcuna verità storica. Sono, potenzialmente, portatori di una forza, che diviene rivoluzionaria solo se agita nella rottura, con il nemico e con se stessi. Viceversa, è puramente una forza di innovazione del sistema.

A partire dalla loro specificità, vorremmo provare ad azzardare un ragionamento analogo per la questione di genere. Dalla metà dell’Ottocento, per diverso tempo le lotte proletarie hanno trovato nel socialismo una forma di organizzazione contro il capitalismo. Similmente, nei decenni scorsi le lotte di quella parte di donne che voleva rompere con il capitalismo hanno trovato nel femminismo una prassi importante. Non si tratta né di fustigarci per come sono andate le cose, né di dar la caccia morale ai traditori: i processi storici sono fatti di lotte, catture, innovazioni, rotture, salti in avanti e indietro. Il capitalismo contemporaneo, perciò, non rappresenta la sconfitta del femminismo, come argomentano diverse teoriche (si pensi a Nancy Fraser). L’unica sconfitta, qui, è la supposta «naturalità» del potere maschile – e di questo non c’è alcunché di cui dolersi. Questa situazione è la vittoria del femminismo. Da qui bisogna ripartire, con disincantato realismo e implacabile sete di sovversione. Non cercando una continuità innovativa, che rischierebbe di farci ricadere nella trappola dell’interesse generale. E ovviamente non contro il femminismo, ça va sans dire. Ripartire assumendone l’eredità di lotte, pratiche, linguaggi e pensiero, per ripensarli in un’altra direzione. Ricercando la possibile forza nell’ambiguità del nuovo contesto materiale, anziché ricavando la propria identità dalla debolezza della vittima. Tanto più che le nuove generazioni di donne correttamente rifiutano di sentirsi vittime, e non lo sono affatto. Percorrendo allora la strada opposta a quella suggerita da Olympe de Gouges, spaccando cioè il corpo unico delle donne. Perché laddove è già ricomposto, quel corpo produce la nuova forma matriarcale del potere.

Ci sentiamo, infine, di consegnare al dibattito un’ulteriore ipotesi. La lotta di classe, nelle forme che assumerà in futuro, se ci sarà, vedrà sempre più come protagoniste le donne. Saranno protagoniste, però, in entrambe le classi. Se il fronte a noi avverso pare averlo piuttosto chiaro, il nostro – qui come per il resto – è ahinoi drammaticamente arretrato.

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