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Dimenticare la Libia, ignorare Gaza

Un secolo di complicità italiane


Délio Jasse, Pontus, 2011, dettaglio
Délio Jasse, Pontus, 2011, dettaglio

Il genocidio in Palestina non è, come raccontano la stampa e il governo italiani, né una tragedia, né una crisi umanitaria, né una perversione estremista del governo israeliano di Netanyahu. Recuperare la memoria storica del genocidio italiano in Libia commesso tra il 1924 e il 1934 ci permette di opporre a questa narrazione una comprensione alternativa, materialista e decoloniale, che intende il genocidio come meccanismo fondamentale della riproduzione del sistema coloniale-capitalistico in relazione ai movimenti di resistenza anticoloniali. Le responsabilità italiane, oggi come allora, sono chiare.


***


E Gaza è semplicemente un esperimento dei mega-ricchi che cercano di dimostrarea tutti i popoli del mondo come si risponde a una ribellione dell'umanità.Pensano che bombarderanno tutti, almeno noi che siamo nel Sud,ma finiranno come a Guernica,bombardandosi con armi straniere.

Gustavo Petro, Presidente della Colombia,Conferenza di Emergenza del Gruppo dell’AIA, Bogotà, 16 luglio 2025

 

L’atteggiamento del governo italiano di fronte alle mobilitazioni di fine settembre ed inizio ottobre ha rivelato tutta la fragilità politica dei suoi ministri. Lo sciopero del 22 settembre e quello del 3 ottobre, nonché le numerosi manifestazioni e la pratica del blocco di stazioni, tangenziali, autostrade, porti, aeroporti, scuole e università hanno rimesso in primo piano la potenza della pressione sociale. Eppure, il governo ha continuato a far finta di nulla, mostrando incertezza e incoerenza. Tajani, messo alle strette di fronte all’interruzione del blocco navale da parte della Flotilla, si è lasciato scappare che «il diritto internazionale vale fino a un certo punto»; Crosetto, invece, ha ceduto alla pressione popolare, ma solo momentaneamente: dopo aver inviato una nave a scorta della Flotilla, l’ha poi ritirata poco prima che raggiungesse le acque di Gaza; Meloni, infine, ha cercato di lavarsi la coscienza ricordando alcuni gesti di «falsa generosità»[1] fatti in passato, come l’invio di aiuti umanitari a Gaza o l’accoglienza di alcune famiglie palestinesi espulse dalle proprie terre. Questa ambiguità ci restituisce il senso del limite dell’azione di questo governo all’interno del campo politico: da un lato, quello che il governo ha fatto è stato intervenire superficialmente – lasciando intatti accordi diplomatici ed economici con Israele; dall’altro, ha provato a salvaguardare le apparenze con alcune concessioni volte a rispondere alle agitazioni delle piazze.

La tradizione radicale nera, il sapere delle resistenze anticoloniali e l’esperienza incarnata delle comunità razzializzate ci restituisce però un senso di continuità e non di eccezionalità rispetto a questa linea politica del complesso Stato-capitale – soprattutto per ciò che riguarda le questioni imperialiste, coloniali e razziali. Se per la classe lavoratrice bianca e le sue istituzioni di riferimento l’assenza di mediazione e di ascolto governativi è un elemento di sorpresa e indignazione, che le porta alla denuncia del fascismo come eccezionalità della democrazia, per i popoli e le comunità razzializzate la violenza e l’indifferenza fascista sono in continuità con l’esperienza della violenza razziale e coloniale[2]. Il silenzio, i tentennamenti, l’imbarazzo e la fragilità del governo Meloni sono elementi di una continuità storica che difende il suprematismo bianco, non come dettaglio, ma come struttura materiale, e che unisce lo Stato e il complesso militare-industriale-carcerario con le economie coloniali.


La questione del genocidio è in questo senso centrale: essa va interrogata oltre la sua eccezionalità, per riconoscerne il valore politico. Per noi che viviamo in Italia, questo significa smettere di rimandare il confronto con la storia coloniale italiana e assumere la responsabilità di questa ignoranza come un progetto politico. Così scopriremmo che tra il 1929 e il 1934, in Libia, l’Italia condusse un vero e proprio genocidio contro le popolazioni arabe e beduine, di cui oggi rimane una debole traccia. Eppure, questo crimine oggi rimosso dalla memoria collettiva, oscurato da narrazioni revisioniste che continuano a coltivare il mito degli italiani «brava gente» [3], fa parte della storia italiana, e come tale dovrebbe essere raccontato. Una tale rimozione non è un errore di valutazione, ma assolve un ruolo nel mantenimento dell’egemonia suprematista bianca: se l’Italia ammettesse di essere responsabile di un genocidio nel passato, inevitabilmente si aprirebbe la questione della propria corresponsabilità nel genocidio a Gaza, e viceversa. Riconoscere Gaza significherebbe riconoscere anche la Libia, e con essa la natura violenta e genocidaria degli Stati e del colonialismo europeo. Cosa accadrebbe se ciò costituisse un precedente storico, un obiettivo di ricerca, un trauma storico collettivo di cui prendersi la responsabilità?



Le gerarchie razziali italiane all’alba dell’imperialismo di fine ‘800

I bianchi, scriveva Baldwin, vivono in un mondo di bugie[4]. Tra queste, ce ne portiamo dietro molte rispetto alla storia coloniale italiana. Anche in questo caso c’è una ragione strategica: il sistema dell’informazione, della cultura, nonché quello del potere economico e del consenso, traggono ancora vantaggio da queste omissioni. Non solo il governo neofascista in carica, ma anche le opposizioni e le istituzioni liberali. Non dobbiamo infatti pensare che dalla colonizzazione abbiano tratto vantaggio solo i fascisti: anzi, a cominciarla sono state proprio le élite liberali italiane che, a fine Ottocento, nell’epoca dell’imperialismo europeo, si gettarono nell’impresa coloniale nel tentativo di competere con le altre potenze capitaliste europee. È questo il momento in cui la storia del colonialismo italiano verso l’esterno si fonde con la storia della creazione di una subalternità interna, quella che Mignolo e Tlostanova chiamano differenza imperiale interna[5]. È il momento in cui la differenza coloniale – ossia quella tra Stato-nazione italiano e le colonie in Libia, Eritrea, Etiopia, Somalia, Albania, per citarne alcune – si impone attraverso le conquiste di terre e lavoro esterni, e la differenza imperiale – ossia quella tra lingue, territori e corpi interni allo stesso Stato-nazione – si impone attraverso la subalternizzazione e la creazione del Meridione. Il momento in cui viene suggellato il mito orientalista dell’Africa, tribale, selvaggia, retrograda, fa da specchio a quello sul mito del Mezzogiorno, sottosviluppato, barbaro, arretrato[6]. È il momento in cui il dispositivo coloniale della razza viene riformulato per creare delle gerarchie razziali interne ed esterne, per decidere chi sia più o meno bianco, chi troppo nero. Se i liberali fanno tutto ciò, non è per una distorsione di alcuni dirigenti della classe politica italiana di fine Ottocento: il suprematismo, ovvero l’idea che la propria cultura, religione, istituzioni, e razza siano superiori e metro di paragone di quelle degli altri, è piuttosto l’espressione compiuta della loro identità storica, e la colonizzazione – attraverso cui nei secoli hanno costruito la propria ricchezza, insieme a genocidio e sfruttamento della razza – il mezzo attraverso cui contano di esprimerla.

C’è voluto il lavoro di una vita, 20 anni di ricerca, per formulare, documentare ed elaborare l’ipotesi di genocidio italiano ai danni delle comunità libiche tra il 1929 e 1934. È questo il lavoro che Ali Abdullatif Ahmida, ricercatore e professore libico, ha svolto con grande perizia, tenendo insieme l’elaborazione del trauma coloniale, la scrittura, la ricerca e la condivisione. Analisi di canti, poesie, modi di dire, testimonianze di genitori, familiari, amic3, e membri della propria comunità hanno interrogato l’archivio sepolto delle violenze coloniali italiane[7] sollevando profonde domande sul privilegio: perché Ahmida ha dovuto ricorrere all’interrogazione della storia orale più che ai documenti scritti? Che tipo di sforzo, di lavoro emotivo, gli è stato richiesto per condurre le interviste, per portare alla luce un passato incistato nella memoria e nei non detti, nei gesti e nelle nevrosi? Che significa essere una voce isolata di fronte ai giganti dell’Impero? Che riparazione è possibile di fronte ad una storia cancellata?



Il genocidio in Tarabulus Gharb (ora Libia), 1929-1934

Quello che il lavoro di ricerca di Ahmida ha portato alla luce è che tra il 1929 e il 1934 il regime coloniale fascista italiano mise in atto in Libia un genocidio pianificato, con l’obiettivo di annientare la resistenza locale e riorganizzare la regione per l’insediamento di coloni italiani[8]. Non si trattò di un effetto collaterale della guerra, ma di una strategia deliberata, in linea con un progetto razzista e coloniale che considerava gli arabi musulmani nomadi come «subumani», un ostacolo alla modernizzazione e alla colonizzazione. Fu un caso esemplare di colonialismo di insediamento, paragonabile per modalità e scopi ad altre esperienze storiche, come quella israeliana. E come Israele ha compiuto un genocidio per schiacciare la resistenza palestinese, così l’Italia commise un genocidio per schiacciare la resistenza libica.

La resistenza anticoloniale era guidata da Umar al-Mukhtar, che coordinava un movimento di guerriglier3, profond3 conoscitor3 del territorio sostenut3 dalla popolazione locale attraverso reti di informazioni, rifornimenti e volontari3. Di fronte al rifiuto della resistenza di arrendersi in cambio di denaro, i generali fascisti italiani – Graziani, De Bono, Badoglio, e Mussolini sopra tutti i principali responsabili del genocidio – adottarono una politica di terra bruciata: bombardamenti aerei, attacchi con carri armati, distruzione di villaggi, taglio delle linee di rifornimento e costruzione di una recinzione di 300km lungo il confine egiziano per isolare l3 ribell3. I fascisti sperimentarono sui libici il gas tossico – arma chimica il cui uso è considerato un crimine di guerra[9] – già nel 1929, ancor prima di farlo sull3 etiopi nel 1935.

Parallelamente all’attacco alla resistenza, lo Stato coloniale italiano avviò una deportazione di massa: circa 110.000 persone – uomini, donne e bambini – furono costrette a lasciare le proprie case e marciare per centinaia di chilometri fino a zone desertiche. Durante queste marce forzate, molt3 morirono di fame, sete, malattie e stenti. Il trasferimento svuotò le campagne, privando l3 guerriglier3 di supporto. L3 deportat3 vennero rinchius3 in 16 campi di concentramento. Sì, proprio campi di concentramento, come quelli che verranno usati più tardi per costringere al lavoro forzato milioni di ebre3. Furono proprio i campi di concentramento italiani in Libia e le adiacenti operazioni coloniali a fornire utili informazioni per la progettazione dei campi di concentramento nazisti[10]. I campi erano protetti da doppie reti di filo spinato; al loro interno il cibo era razionato fino alla fame e alla malnutrizione, si svolgeva lavoro forzato, gli aiuti medici erano inadeguati, le epidemie proliferavano e la gente veniva fucilata o impiccata. Un campo, quello di Al-Agaila, era destinato specificamente all3 parenti dell3 ribelli.

A questo si aggiunse la confisca sistematica del bestiame – principale risorsa economica dell3 semi-nomadi – che completò la strategia di annientamento. Entro il 1934, il 90–95% di pecore, capre e cavalli, e circa l’80% di bovini e cammelli, furono uccisi. Per una popolazione indipendente e semi-nomade come quella libica il colpo fu devastante: colpire il gregge fu un atto deliberato di punizione non solo verso gli animali ma anche verso la gente libica, diretto al proprio modo sociale e culturale di vivere. Lo scopo era quello di cancellare non solo le persone, ma anche le loro istituzioni, la loro lingua, la loro cultura e la loro proprietà, con l’obiettivo prossimo di ripopolare la regione con insediamenti di coloni e una cultura fascista.

Queste pratiche, però, non nacquero con il fascismo. Già tra il 1911 e il 1928 circa 1.500 simpatizzanti della resistenza furono esiliat3 su isole italiane, preludio alle deportazioni di massa che avrebbero fatto seguito negli anni successivi. Con l’arrivo al potere del Partito Fascista nel 1922 venne abbandonata la politica di trattativa con le élite locali, seguita sin dal 1911, e sostituita da una repressione militare sistematica. Dopo la repressione, nel 1934, la colonia fu ribattezzata «Libia», richiamandosi all’antica romanità per legittimarne il dominio. L3 libic3 continuarono a essere deportat3, sfruttat3 come manodopera a basso costo e arruolat3 forzatamente nei conflitti, fino al 1943.

Alcuni storic3 e studios3 del colonialismo italiano parlano nei loro testi dei crimini di guerra commessi dall’Italia nel periodo coloniale: Rochat, Del Boca, Borruso, Curcio, Giuliani, Lombardi-Diop, per citarne alcun3. Tuttavia, è il lavoro di Ali Abdullatif Ahmida a costruire un vero e proprio capo d’accusa per genocidio, legalmente coerente con i criteri giuridici definiti da Raphael Lemkin, fondatore degli studi sul genocidio, e successivamente adottati dalla Convenzione ONU del 1948 per il genocidio[11]. Si tratta dello stesso codice legale al quale ha fatto riferimento la relatrice speciale ONU per i Territori Occupati palestinesi, Francesca Albanese, per argomentare il caso di genocidio a Gaza[12]. Lemkin individuava come condizioni necessarie per la formalizzazione dell’accusa di genocidio 1. l’intenzionalità dell’uccisione e 2. l’adozione di politiche volte a distruggere i modi di vita fisici, biologici e culturali di un popolo. Abbiamo già parlato della seconda condizione. Per ciò che riguarda la prima, nel caso libico l’intenzionalità appare evidente nei documenti d’archivio che attestano la volontà dello Stato fascista di distruggere la resistenza, anche a costo di colpire indiscriminatamente la popolazione civile. È una retorica che abbiamo imparato a riconoscere: quante volte, negli ultimi anni, Israele ha denunciato l’esistenza di «covi di Hamas» sotto le scuole e gli ospedali bombardati? Per ciò che riguarda la Libia, è del 20 giugno 1930 una lettera del governatore Badoglio al generale Graziani nella quale il governatore affermava la necessità di creare un ampio e netto divario territoriale tra l3 ribell3 e la popolazione soggetta, ammettendo che tale misura avrebbe potuto significarne la rovina[13]. Un prezzo da pagare, insomma, perché quelle vite erano considerate sacrificabili, deumanizzate, ridotte a carne da macello. Tornano in mente le dichiarazioni di Netanyahu e Gallant sulla presunta animalità dei palestinesi, che ne avrebbe giustificato l’uccisione e deportazione di massa. Anche sulle deportazioni abbiamo delle prove: i tre generali italiani di più alto grado – Graziani, De Bono e Badoglio – ordinarono la deportazione forzata di circa due terzi della popolazione dell’est della Libia, pari a 110.000 persone, trasferite via mare e via terra verso campi di concentramento durante il rigido inverno del 1929. Anche questo ci ricorda le trattative intercorse con gli USA e i paesi vicini per la deportazione dell3 gazawi. Le somiglianze tra gli eventi sono così numerose e precise da mostrare qualcosa di più di una semplice coincidenza: rivelano piuttosto i passaggi di un metodo, una metodologia possibile di pulizia etnica.



I nomi di ieri, i nomi di oggi

«Prima di Auschwitz, ci furono Agalia, Slug, Braiga e Magrun»[14]. Oggi, c’è Gaza. La storia del sistema capitalistico-coloniale è costellata di genocidi, ma facciamo ancora fatica a riconoscerlo. C’è una continuità tra il genocidio nazista in Europa, il genocidio israeliano in Palestina, il genocidio italiano in Libia. Aimé Césaire nel 1955 scriveva che ciò che scandalizza la coscienza borghese, cristiana e umanista del XX secolo che si confronta con il genocidio ebraico non è tanto che in Europa sia stato commesso un genocidio, ma «il fatto di aver applicato in Europa quei trattamenti tipicamente coloniali che sino ad allora erano stati prerogativa esclusiva degli arabi d’Algeria, dei coolie dell’India e dei negri dell’Africa»[15]. Oggi questo doppio standard abita ancora la memoria, nei programmi scolastici, nelle vie delle città, nei discorsi che abbiamo paura o siamo incapaci di fare: una memoria che seleziona cosa ricordare e cosa cancellare, attribuendo diverso valore alle vite sulla base della loro presunta appartenenza a gerarchie razziali che ancora strutturano questa società.

In Italia, la memoria del genocidio libico è stata deliberatamente cancellata. I fascisti vollero far sparire il crimine dagli archivi mondiali, fecero propaganda sulla propria immagine, nascosero i documenti sulle uccisioni di massa. Il silenzio storiografico fu favorito dal resto dell’Europa e dell’Occidente: d’altronde, gli Alleati avevano bisogno di servirsi di ex funzionari fascisti durante la Guerra Fredda, ed esercitarono pressioni affinché non si celebrasse un processo all’Italia analogo a quello di Norimberga – come invece aveva richiesto la Jugoslavia di Tito, allora alleata dell’URSS[16]. E così, nessun gerarca fu adeguatamente processato. Nel 1998 l’Italia riconobbe parzialmente le atrocità commesse, ma senza menzionare il genocidio né assumersene piena responsabilità. Ciò non ha aiutato a guarire le ferite della storia: l’agonia nei campi e la perdita duratura di dignità e autonomia hanno lasciato profonde cicatrici nella coscienza nazionale libica. Ciò ha segnato anche la coscienza del colonizzatore, la coscienza italiana: non è possibile affrontare gli effetti della violenza inflitta nascondendola, e anzi questa omissione non fa che rinforzare le strutture emotive e sociali che tengono in piedi quella violenza e preparano le condizioni per riproporla. Se non ricordiamo il genocidio in Libia, non realizziamo che «la società italiana è una società post-genocida»[17]: una società che ha commesso un genocidio e adesso vive nel tempo successivo ad esso. È scioccante pensare di vivere in quel tempo senza saperlo. Forse, di fronte a quello che sta accadendo a Gaza in questi anni, riusciamo a renderci conto della gravità della situazione. Si tratta di un debito nei confronti dei popoli colonizzati, e anche di un furto della nostra memoria: che vita possiamo condurre senza memoria? Che immagine reale possiamo avere di noi senza un pezzo così importante di questa storia? E di chi è la responsabilità di questa troncatura?



Note

[1] Cfr. Freire, P. 1971. La pedagogia degli oppressi, Mondadori, Milano, citato in Jabr, S. 2024. Il tempo del genocidio, sensibiliallefoglie, Roma, p. 30 e ss.

[2] Cfr. i contributi di Cedric Robinson, George Padmore, Albert Memmi, Walter Rodney, Langston Hughes, Amiri Baraka riportati in Toscano, A. 2024. Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere, Bologna, DeriveApprodi, p. 33 e ss.

[3] Cfr. Curcio, A. 2024. L’Italia è un Paese razzista, DeriveApprodi, Bologna; Del Boca, A. 2008. Italiani, brava gente? Neri Pozza, Vicenza.

[4] Baldwin, J. 2010 [1984]. «On Being White… and Other Lies», in Kenan, R. (eds), The Cross of Redemption: Uncollected Writings, Pantheon Books, New York, p. 166.

[5] Mignolo, Walter. 2010. «Delinking: The Rhetoric of modernity, the logic of coloniality and the grammar of de-coloniality». In Mignolo, W. Escobar, A. (ed.) Globalization and the decolonial option, pp. 302-68. London/New York: Routledge; Lugones, M. Jiménez-Lucena, I. Tlostanova, M. 2023. Genere e decolonialità, ombrecorte, Verona.

[6] Conelli, C. 2022. Il rovescio della nazione. La costruzione coloniale dell’idea di Mezzogiorno, tamu, Napoli.

[7] Cfr. Mbembe, A. 2002. «The Power of the Archive and its Limits», in Hamilton, C., Harris, V., Taylor, J., Pickover, M., Reid, G., Saleh, R. (eds), Refiguring the Archive, Springer, Dordrecht.

[8] Cfr. Ahmida, A.A. 2024. Confronting Silence and Cover-Up of the Colonial Genocide in Libya: Researching Italian Fascism from the Standpoint of Its Victims, in «Comparative Studies of South Asia, Africa and the Middle East», 44 (3): 391–395; Ahmida A.A. 2023. “Eurocentrism, Silence and Memory of Genocide in Colonial Libya, 1929–1934”, in Kiernan B, Lower W, Naimark N, Straus S, eds. The Cambridge World History of Genocide, Cambridge University Press, pp. 118-140; Ahmida, A.A. 2020. Genocide in Libya. Shar, a Hidden Colonial History, Routledge, Londra.

[9] UN General Assembly, 1998. Rome Statute of the International Criminal Court (l.a. 2010), Art. 8 (2)(e)(XVIII).

[10] Bernhard, P. 2013. Borrowing from Mussolini: Nazi Germany’s Colonial Aspirations in the Shadow of Italian Expansionism, in «The Journal of Imperial and Commonwealth History», 41(4), 617–643.

[11] UN General Assembly, 1948. Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide, United Nations, Treaty Series, vol. 78, p. 277.

[12] Albanese, F. 2024. Anatomy of a Genocide – Report of the Special Rapporteur on the situation of human rights in the Palestinian territory occupied since 1967 to Human Rights Council (A/HRC/55/73).

[13] Pieri, P. Rochat, G. 2002. Pietro Badoglio. Maresciallo d’Italia, Mondadori, Milano.

[14] Ahmida, A.A. 2020. Genocide in Libya. Shar, a Hidden Colonial History, Routledge, London, p. 10.

[15] Césaire, A. [1955] 2020. Discorso sul colonialismo, ombrecorte, Verona, p. 57.

[16] Cfr. Battini, M. 2003. Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Laterza, Bari, p. 70 e ss.

[17] Ahmida, op. cit. p. 8.



Bibliografia

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Simone Villani (1998) è ricercatore precario, traduttore, articolista e attivista. Originario di Taranto, vive a Bologna.


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