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Giorgia Meloni e «l’album di famiglia» del femminismo



Si muove in una duplice direzione questo testo di Valeria Finocchiaro: sposta in modo efficace il punto di vista sul tormentone estivo «Meloni femminista?» e si aggancia alla discussione per una nuova «resistenza», aperta su queste pagine.

In un testo rigoroso che solleva questioni spinose, sollecita una riflessione critica (mai del tutto superata) sull’emancipazione e apre a una discussione attualissima (e urgente) sul femminismo oggi, le sue linee di sviluppo, la partita in corso. Discussione che ci proponiamo di riprendere e sviluppare.


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Margaret Thatcher diceva: «io non devo nulla al femminismo», e le femministe di sinistra, dal canto loro, hanno risposto: «noi non dobbiamo nulla a Margaret Thatcher». Si tratta di un incontro, quello fra Margaret Thatcher e il femminismo, mai avvenuto, e in cui i soggetti coinvolti si trovavano d’accordo se non altro nell’affermare la reciproca ostilità. Geri Halliwell, una delle Spice Girls, sosteneva invece che Thatcher fosse «la prima Spice Girl, cioè la vera iniziatrice del Girl power, il potere alle ragazze». Lo scopo del presente articolo è quello di chiedersi cosa succederebbe se, al posto di dare retta alla Thatcher o alle sue detrattrici, provassimo a prendere seriamente in considerazione le parole di Geri Halliwell.

Negli ultimi giorni si sta svolgendo un piccolo dibattito all’interno della sinistra riguardo alla questione se Giorgia Meloni, leader del partito di estrema destra Fratelli d’Italia e probabile (stando ai sondaggi) futuro primo ministro italiano, possa essere considerata o meno «femminista». In realtà non si tratta di un vero e proprio dibattito, dal momento che le voci si esprimono per lo più all’unisono: Giorgia Meloni non è femminista, punto.

Michela Murgia, dai suoi profili social, fornisce una spiegazione di questa tesi molto interessante: «So per certo che esiste un modo femminista di esercitare la propria forza e uno che femminista non lo è per niente (…). Se usa la sua libertà per ridurre o lasciare minima quella altrui, questo non è femminista. Che sia di destra o di sinistra, se chiama meritocrazia il sistema che salvaguarda il suo privilegio di partenza e nega i diritti di altre persone, questo non è molto femminista. Che sia di destra o di sinistra, se il suo modello di organizzazione dei rapporti è la scala e non la rete, nemmeno questo è particolarmente femminista. Che sia di destra o di sinistra, se la sua visione della fragilità altrui è paternalista e l’unica soluzione che le viene in mente è una protezione che crea dipendenza, questo è il contrario del femminismo. Che sia di destra o di sinistra, se per lei le funzioni patriarcali sono più importanti delle persone che le svolgono, questo senz’altro non è femminista». Rosi Braidotti sostiene invece che Giorgia Meloni sta al femminismo «come un pesce su una bicicletta: affannata, in bilico e fuori luogo».

Da dove viene questa certezza apodittica, che sentenzia senza appello e senza nemmeno l’onere della spiegazione, che Giorgia Meloni sarebbe una donna estranea al femminismo? Chi stabilisce quali sono i criteri per fare parte del femminismo? Forse di femminismo abbiamo scritto e parlato in modo troppo generico, fino al punto che non è più chiaro cosa esso voglia dire. Bisognerebbe allora sforzarsi di semplificare e di ridurre i concetti all’essenziale, di tornare cioè, come diceva Edmund Husserl, zu den Sachen selbst, alle cose stesse.


Femminismo e l’eterogenesi dei fini

Al nocciolo del femminismo, al netto dei suoi – pur drammatici e inevitabili – conflitti interni, c’è l’idea che il sesso biologico non debba predeterminare il destino di un individuo, i suoi desideri e il suo ruolo nel mondo. Non solo, il femminismo, come è noto, non è mai stato solo un insieme di teorie e di enunciati raccolti nei manuali; esso è stato anche un eccezionale incubatore di prassi, di esperienze vive, di modelli e di immaginari simbolici. Femministe non erano soltanto le teoriche del femminismo, o le donne che al femminismo si richiamavano, bensì anche le donne che con la loro vita e il loro esempio avevano acceso nelle altre la miccia per immaginare una libertà diversa e al di fuori di quella domestica; se le cose stanno così, non si capisce cosa potrebbe impedire di inserire Giorgia Meloni nel novero di quelle donne che, pur non richiamandosi esplicitamente al femminismo per le più svariate ragioni (non da ultimo, a causa della pervicace ostinazione a negare il loro debito nei confronti del lavoro politico delle donne che le hanno precedute), ne hanno non solo usufruito ma anche preso parte loro malgrado, diciamo pure come risultato di un’eterogenesi dei fini rispetto allo scopo che si erano proposte. In altri termini, si può considerare Giorgia Meloni come un capitolo, sebbene imprevisto e certamente non il più luminoso, della storia del femminismo, ovvero come una sorta di effetto collaterale: in tal modo si eviterebbe l’arrampicarsi sugli specchi che costituisce il tentativo di negarle qualsiasi vicinanza con la storia dell’emancipazione femminile.

Proviamo a immaginare cosa comporterebbe per noi - donne di sinistra, abituate da sempre a credere che il femminismo non possa darsi senza lotta di classe o senza lotte di altro tipo, e in generale abituate implicitamente a credere che il femminismo non possa darsi senza il nostro assenso -, se fossimo costrette ad ammettere che l’elezione di Giorgia Meloni (persona che rappresenta tutto ciò contro cui abbiamo sempre combattuto) costituisse un passo avanti per la condizione femminile (ciò per cui abbiamo sempre combattuto). Ci troveremmo senza dubbio di fronte a una bella contraddizione. Dovremmo probabilmente mettere in discussione alcune delle nostre premesse, dei nostri postulati e, in definitiva, sarebbe una fatica enorme. Più semplice sarebbe forse, come fa Rosi Braidotti, affermare apoditticamente che Giorgia Meloni è fuori luogo rispetto al femminismo, in tal modo evitando lo sforzo concettuale di fare i conti con la scomoda evidenza che probabilmente sarà la destra a portare la prima donna a una delle più alte cariche dello stato. O fare come Michela Murgia, per la quale Giorgia Meloni non è femminista perché esercita il potere in modo non femminista - senza ulteriormente approfondire cosa, eventualmente, ci sarebbe di male in una concezione di potere simile a quella «maschile». Sembra dunque che, all’origine di questo sforzo corale per negare a Giorgia Meloni l’ingresso alla festa del femminismo, ci sia più che altro l’esigenza di salvaguardare noi stesse e la nostra integrità morale, piuttosto che l’analisi della realtà sine ira.


Una «rivoluzione passiva»

Infatti, a volere essere intellettualmente oneste, è necessario riconoscere se non altro che Meloni rappresenta una novità storica senza precedenti nel panorama politico italiano, e fare seriamente i conti con questa circostanza. Bisognerebbe avere il coraggio di ammettere che la destra ha superato la sinistra proprio là dove la sinistra aveva creduto di essere l’avanguardia e il fiore all’occhiello del progresso. Una donna che in gioventù aveva simpatie fasciste, proprio lei ora sta in cattedra a darci lezioni di Real politik femminista. Non è piacevole, ma dovremmo farci i conti senza cedere alla tentazione di girare la testa dall’altro lato cercando di rassicurarci a vicenda con la fragile e incerta constatazione che non siamo noi a dovere interrogare il nostro concetto di femminismo, bensì lei a essere sbagliata.

Infatti, come si può negare che Giorgia Meloni, a modo suo, faccia parte precisamente di quel movimento che di fatto cambia la tradizionale rappresentazione del femminile - remissiva ed estranea al potere, naturalmente portata ad altre occupazioni rispetto al difficile compito della mediazione politica? Possiamo senz’altro sostenere che questo non sia l’unico modo di essere femminista, ma sarebbe un errore prima di tutto logico-concettuale affermare che esso sia nient’affatto (e per principio) femminista. Se la premessa di cui sopra è vera (il femminismo non è solo un insieme di teorie, ma anche di condotte pratiche che funzionano a misura di esempio), allora la parabola politica di Meloni potrebbe incidere positivamente e migliorare qualcosa - in che misura è difficile stabilirlo, dal momento che si tratta di unità non quantificabili - nel senso comune, nella percezione condivisa, in particolare in quella porzione di società da sempre particolarmente ostile all’idea di autodeterminazione femminile e che, a quanto pare, costituisce circa la metà della popolazione italiana; Antonio Gramsci avrebbe chiamato «rivoluzione passiva» questo processo di involontario e sporadico progresso portato avanti dalle forze conservatrici, che per Gramsci costituiva una delle principali caratteristiche storiche del fascismo.

Anche per una questione di semplice convenienza politica, poi, sarebbe molto più vantaggioso aprire le porte del femminismo alla destra tradizionalista, piuttosto che chiuderle: in tal modo i suoi esponenti sarebbero costretti ad ammettere che sul terreno del femminismo avevano torto, dal momento che si tratta di un processo storico inevitabile che coinvolge direttamente anche loro.

E se anche Meloni non dovesse portare a termine nessuna politica femminista in senso stretto, se cioè in fin dei conti la sua elezione non segnerà nessun passo avanti sul campo delle politiche di genere, possiamo senz’altro dire che è vero il contrario, e cioè che è grazie al femminismo, alla sua diffusione in ogni segmento della società, alla sua capacità di modificare il nostro immaginario fino alle radici più profonde che Meloni ha potuto compiere la sua scalata al potere. Che Meloni abbia potuto fare a meno del femminismo è dunque certamente falso, ma allora bisognerebbe mettere in discussione anche l’altro lato dell’equazione, il che significa affermare che l’emancipazione femminile collettiva si nutre anche di episodi storici come l’elezione di donne come Thatcher o Merkel, vale a dire episodi in cui donne potenti che rifiutano il femminismo e che non vi si richiamano, agiscono – loro malgrado – da femministe nell’esercizio della propria autonomia. In un celebre passo del Protrettico Aristotele sosteneva, contro i detrattori della filosofia, che «si deve in ogni caso filosofare», sia nel caso in cui uno voglia sostenere l’utilità della filosofia, sia nel caso in cui uno voglia sostenerne l’inutilità. Allo stesso modo il femminismo si pone come fatto inevitabile: anche nel caso in cui ci si dichiari idealmente contrarie al femminismo, la presa di parola e l’ingresso nello spazio pubblico delle donne – escluse da questo spazio per tremila anni e tutt’oggi ancora largamente in minoranza – costituiscono senza dubbio passi in avanti, sebbene non risolutivi, sul cammino del femminismo.

D'altronde il progresso non avanza sempre in modo uniforme, e ogni suo passo in avanti porta sempre con sé delle contraddizioni: la politica di Giorgia Meloni sarà disastrosa su tutti i fronti, ma costituirà un precedente storico importantissimo sul terreno della legittimazione femminile. Pensare una cosa del genere non implica in alcun modo sostenere Meloni, bensì significa semplicemente comprendere la complessità del mondo, sopportare la contraddizione senza necessariamente tentare di risolverla, come insegnava Theodor Adorno. Se c'è una cosa che possiamo imparare dalla storia è esattamente questa: il cammino dell'evoluzione non procede in modo lineare, ma ogni progresso è di solito accompagnato da enormi tragedie, come dimostra il fatto che, ad esempio, ci sono volute due guerre mondiali per avere la pace in Europa.

È necessaria qui una piccola parentesi: per «spazio» e «questione femminile» non si intende qui l’esclusività di un cerchio sacro a cui si accede automaticamente venendo al mondo con apparato biologico femminile. Allo spazio in questione possono accedere tutti gli individui che agiscono secondo autodeterminazione, cioè cercando di uscire dal giogo del dominio sociale maschile. Non è dunque solo perché «Giorgia Meloni è una donna», che la sua elezione potrebbe costituire un piccolo capitolo (magari il più oscuro) della storia del femminismo, bensì perché si tratta di una donna la cui parabola politica dimostra nei fatti che il femminismo – in quanto prassi di sottrazione al dominio maschile - può trovarsi anche a latitudini e a sensibilità molto distanti dalle nostre.


Nell’album di famiglia

Piuttosto che cesellare di volta in volta il nostro concetto di femminismo in modo da adattarlo all’urgenza dell’agenda politica (oggi è quello di allontanare Meloni, domani chissà), sarebbe forse il caso di applicare il metodo dell’inclusione piuttosto che quello dell’esclusione, e annoverare Meloni nell’«album di famiglia» (come disse Rossana Rossanda dando prova di grande coraggio e onestà a proposito delle Brigate Rosse), magari come un parente acquisito che per strani giri del destino finisce dentro casa, controvoglia da parte sua e senza suscitare le simpatie di nessuno, trovandosi imbrigliato in un rapporto di insofferenza reciproca ma in ogni caso in un rapporto. Riconoscere l’esistenza di questo rapporto minimo sembrerebbe un’esigenza razionale che supera logicamente la petitio principii della sua negazione.

Si tratta di un nodo cruciale e particolarmente controverso, e cioè: una donna, per il solo fatto di essere una persona nata con genitali femminili, possiede automaticamente i titoli per essere femminista? Naturalmente la risposta è no, ma questo non dovrebbe farci dimenticare il fatto che, per quanto nascere con dei genitali femminili non sia una condizione sufficiente (né, a ben vedere, necessaria) al conferimento di una qualche patente di femminismo, si tratta in ogni caso di una circostanza da non dimenticare. Giorgia Meloni non è il leader uomo di un partito, come tutti gli altri, bensì una leader donna, caso rarissimo nel panorama politico italiano. Non è questa la sede per approfondire l’intricata questione del sesso e del genere, ma basta semplicemente rilevare come il fatto che Giorgia Meloni sia una donna cisgender non può essere un fatto neutro dal punto di vista del femminismo, pena il suo svuotamento teorico. Il sesso non è l’unico dato significativo del discorso ma una delle variabili con cui fare i conti. Da questo punto di vista, si può dire che il femminismo è quell’insieme che comprende, insieme ad altri, tutti quei processi di emancipazione delle donne dallo storico dominio maschile; in questo senso, che ci sia una donna premier – anche se favorevole a un’idea dei rapporti tra i generi di stampo tradizionale – è un fatto storico da interrogare senza pregiudizi ideologici. Se neghiamo che una simile circostanza abbia a che vedere con il femminismo, allora stiamo negando al femminismo un suo spazio di esistenza autonomo. Stiamo cioè subordinando la questione femminile ad altre questioni, come ad esempio quella del superamento in senso antitradizionalistico dei rapporti fra i generi; e invece, posto che non si esaurisce qui, il femminismo è anche questione femminile, sic et simpliciter.

È necessario sottolineare, a costo di essere didascalici, che non si tratta di credere che Giorgia Meloni farà politiche a favore delle donne (non le farà, almeno dal nostro punto di vista), né tantomeno si vuole sostenere che si debba votare Fratelli d’Italia. Il ragionamento si muove piuttosto su un altro piano, più sottile, che è quello di riflettere sulla necessità di non negare alla questione femminile uno suo spazio di esistenza autonomo. Qualcuno potrebbe dire che questo va a scapito dell’intersezionalità, cioè quella idea per cui le lotte sono interconnesse e si sostengono l’un l’altra (esempio tipico: non si può parlare di questione femminile senza sollevare anche la questione razziale, le quali a loro volta non possono essere correttamente intese senza sollevare la questione di classe). Ma a ben vedere si tratta di un’obiezione mal posta, dal momento che ognuna di queste lotte deve essere considerata sì come interconnessa alle altre ma anche nella sua autonomia. L’intersezionalità non ci dice che non dobbiamo considerare le lotte nella loro specificità, bensì ci dice che esse sono interconnesse: nessuno ci impedisce, ad esempio, di considerare la questione razziale o quella di classe secondo i loro termini propri; l’importante è sapere che a un livello più alto è necessario connettere gli elementi del discorso.


Sottrarre il femminismo al regno dei cieli

Si tratta quindi di ribadire la necessità teorica di riconoscere al femminismo la sua autonomia e, allo stesso tempo, la necessità politica di non fermarsi al femminismo soltanto. Il che, in termini pratici, si traduce nell’ammissione pacifica che Giorgia Meloni fa parte, a suo modo, della storia del femminismo e che proprio per questo, contemporaneamente, è necessario mettere radicalmente in discussione l’idea di femminismo che normalmente abbiamo, cioè quella di un processo integralmente buono e senza ombre. Si tratta di sottrarre il femminismo al regno dei cieli, alla perfezione angelica (eterno fardello delle donne), e riportarlo al regno terrestre, inevitabilmente compromesso con le storture del mondo in quanto reale: come tutti sanno, nel passaggio dall’immagine ideale alla cosa concreta si perde la purezza ma si guadagna la realtà.

Sforzandoci di considerare Giorgia Meloni non del tutto estranea alla storia del femminismo avremo cioè ottenuto un guadagno teorico importantissimo: l’idea, non proprio rassicurante e tuttavia storicamente efficace, che il femminismo non è la soluzione a tutti i problemi del mondo, e che femminismo significa una cosa molto più semplice, precisa e, probabilmente, più settoriale. Il femminismo è l’insieme delle istanze legate alla questione femminile.

Si sente spesso dire: «se non è contro X (dove X è qualsiasi forma di oppressione possibile) allora non è il mio femminismo». Abbiamo in questo modo l’illusione che così facendo la nostra lotta e il nostro impegno siano meno egoistici («…non stiamo combattendo solo per noi, ma anche per altri…»), come se combattere solo per noi fosse un grave peccato o un demerito. Sembra quasi che, dopo tre millenni di abitudine alla sottomissione, non siamo ancora riuscite a pensare la nostra propria liberazione senza sensi di colpa. E mentre abbiamo la pia illusione che così facendo allontaniamo da noi il peccato dell’egoismo, stiamo in realtà rinunciando alla possibilità di uno spazio politico che sia interamente nostro.

Ma a questo punto qualcuno potrebbe chiedersi: cosa ci guadagniamo a limitare in modo così drastico l’orizzonte utopico femminista? Perché non continuare a pensare in grande, attribuendo al femminismo una missione salvifica che investe l’intera umanità? Perché non caricare il femminismo, e in definitiva le donne, della missione di salvare non solo se stesse ma anche tutti gli altri? D’altronde, quello di occuparsi degli altri (della prole, dei mariti e della cura in generale) è sempre stato ciò in cui le donne riuscivano meglio, essendo questo l’unico campo a loro concesso. Una delle più grandi mistificazioni del dibattito intorno al femminismo è proprio la seguente: si pensa che la liberazione femminile dal dominio maschile sia qualcosa che le donne debbano «meritare» in seguito a una dimostrazione di purezza o correttezza morale; solo se le donne rispondono a una serie di canoni morali (i quali sono per definizione arbitrari ma vengono spacciati come universali), fra cui ad esempio quello di prendere su di sé il compito di alleviare la sofferenza altrui, allora si è davvero femministe.


Un processo storico inevitabile

Eppure, che una donna sia egoista o fascista - o che essa non risponda ai nostri modelli politici, non è in alcun modo in contraddizione con il femminismo. Il femminismo è semplicemente quel processo che lavora alla distruzione del patriarcato, il quale a sua volta è nient’altro che il dominio sociale maschile. Il femminismo lavora affinché le donne esistano e operino senza la tutela maschile, fine. Se questo accade - e in parte accade - il patriarcato non esiste più, anche se le donne fossero tutte dalla prima all’ultima delle serpi; inquadrare la questione con i canoni del bene e del male ci inchioda invece a una dimensione di semplice moralismo formale. Dovremmo piuttosto liberarci dall’idea per cui il femminismo equivale automaticamente all’avvento di un mondo migliore, ecologico, sostenibile, pieno di amore. Perché affibbiare alle donne questo fardello ideologico da mille e una notte? Il femminismo non è un momento del lungo cammino del genere umano dalla barbarie verso un mondo in cui tutti sono liberi e uguali e nessuno comanda su nessuno; il femminismo non è la lotta dei buoni contro l’impero del male, non è la strada verso un mondo perfetto e pacificato. A fortiori, il femminismo non dovrebbe prevedere una selezione morale all’ingresso; non dovrebbero essere ammesse solo quelle che dichiarano di non divertirsi ai giochi considerati da sempre «maschili»; non dovrebbero essere femministe solo quelle che rifiutano la competizione spietata o le logiche di potere tradizionalmente associate al maschile. Molto più semplicemente – e più radicalmente – tutte le donne che si sottraggono al dominio maschile camminano sulla strada del femminismo, indipendentemente dal loro spazio di manovra ideologico.

Ciò comporta due conseguenze apparentemente in contraddizione, eppure perfettamente complementari: la prima conseguenza è quella di demitizzare, se non addirittura rifiutare, il potere salvifico palingenetico del femminismo. Il femminismo non è la liberazione dell’umanità da tutti i problemi che la affliggono, bensì più modestamente la liberazione del genere femminile dal dominio sociale maschile. La seconda conseguenza è che, paradossalmente, in questa limitazione del campo specifico del femminismo, in realtà lo stiamo rilanciando su un piano universale: di esso possono fare parte tutte le donne e tutti gli uomini che, esplicitamente o meno, camminano lungo quel solco.

Forse è superfluo, ma è necessario sottolineare che il piano del presente discorso non è politico, bensì teorico (o, se vogliamo, filosofico): non si vuole qui affatto sostenere che è necessario votare Meloni per avere politiche femministe, bensì soltanto confutare la tesi molto in voga secondo cui l’elezione di Giorgia Meloni sia un fatto storico che non si inserisce nel cammino del femminismo. Non si tratta perciò di rallegrarsi per l’elezione di Giorgia Meloni, bensì di cogliere l’occasione per riprendere una delle riflessioni più radicali del femminismo, esposta da Carla Lonzi ma quasi subito dimenticata: quella del riconoscimento dello spazio autonomo del femminismo, il quale ha un compito e una missione storica che trascende ed eccede la partigianeria politica. Il femminismo riguarda tutti ed è un processo storico inevitabile che coinvolge l’intera umanità, non solo le persone di sinistra.

Stando così le cose, negare che la prima donna premier italiana, poiché di destra, costituisca un passo avanti (seppur minimo) nel cammino dell’emancipazione femminile, è una forma di presunzione concettuale che caratterizza la sinistra occidentale da molto tempo: l’errata convinzione di essere la misura di tutte le cose.



Foto: Roberto Gelini


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Valeria Finocchiaro (Palermo 1990), è una studiosa di filosofia e vive a Milano. Si è occupata durante il dottorato del pensiero politico hegeliano e dei suoi rapporti con il marxismo. Ha collaborato con varie riviste e ha pubblicato diversi contributi su riviste accademiche italiane e internazionali.


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