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Discutere «Genere e capitale»: ma...il sesso è solo lavoro?



«Discutere Genere e capitale» è il focus tematico dedicato al volume di Silvia Federici che raccoglie la sua lettura femminista al lavoro di Marx. Una critica di genere dell’economia politica che offre importanti spunti e argomentazioni per un’analisi delle condizioni materiali di vita delle donne. Il volume, ripercorrendo oltre quarant’anni di lavoro politico dell’autrice, propone un metodo teorico militante che lega l’analisi teorica all’urgenza dell’azione politica. Un metodo che qui mettiamo a lavoro per portare alla prova del presente alcuni temi e questioni che Federici elabora nel volume. Uno di questi, (dopo l’intervento di Federica Timeto sul rapporto tra produzione, riproduzione e tecnologie https://www.machina-deriveapprodi.com/post/discutendo-genere-e-capitale) è il tema della sessualità e della sua funzione sociale. Slavina lo discute con l’audacia e la passione che il tema richiede.

Fatto tesoro dell’«analisi femminista sulla bifocalitá della questione sessuale femminile» dei primi anni Ottanta, Slavina rilegge un testo che Federici ha scritto nel 1975, ben prima che le Feminist Porn Wars segnassero la frattura tra il femminismo anti-porno e quello pro-sex. Dalla sua prospettiva di porno-attivista, si chiede: «il sesso è solo lavoro?» Convinta, come l’autrice, che la rivoluzione sessuale sia stata svuotata di senso e ricondotta alla logica del capitale, non dismette però l’idea della sessualità come spazio di libertà. Al contrario ne fa un campo di battaglia, dove «riconquistare o reinventare» da una prospettiva femminista radicale, il benessere sessuale, il piacere e l’erotismo [a. c.].


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Excusatio non petita...

Avvicinarsi all'opera di Silvia Federici mi fa sentire in una relazione piccione-monumento, dove lei è su un piedistallo altissimo e io inevitabilmente interpreto la parte del molesto volatile.

Ho letto con estremo interesse il saggio Origini e sviluppo del lavoro sessuale in Stati Uniti e Gran Bretagna, contenuto nel volume Genere e Capitale. La lucidità di Federici nel documentare storicamente l'intreccio tra lavoro produttivo e riproduttivo mi ha fornito come sempre preziosi elementi di analisi. Da studiosa delle sessualità sono ben conscia che ideologia e morale sono categorie strettamente correlate ai modelli economici dominanti; per questo ritengo l'inquadramento di questo saggio un esempio di metodologia politica nell'affrontare il tema del lavoro sessuale: la distanza storiografica permette a Federici di prendere in considerazione le diverse conseguenze e ricadute – anche in termini di agency – sulle vite delle donne coinvolte.

Illuminante è anche l'apporto critico nei confronti della psicoanalisi, che Federici definisce «scienza del controllo sessuale, [che nasce] con l'obiettivo di fornire strategie per riformare i rapporti familiari», evidenziando le radici controverse di una scienza della quale oggi apprezziamo gli sviluppi in senso femminista o più in generale antiautoritario.

Vorrei soffermarmi però sulle conclusioni, nelle quali Federici sembra schiacciare l'aspetto multidimensionale della sessualità a una lettura utilitaristica segnata della passività, rendendo di fatto invisibili le potenzialitá politiche, sovversive, emancipatorie. Scrive: «Per le donne di oggi, non meno che per le nostre madri e nonne, la liberazione sessuale può significare solo liberazione dal “sesso” e non intensificazione del lavoro sessuale».


Ma... il sesso è solo lavoro?

Federici arriva a questa conclusione dopo un viaggio lungo un paio di secoli in cui descrive in maniera puntuale e accurata come i tentacolari apparati di controllo del capitalismo hanno prima disegnato e imposto, con violenza, l'opposizione donna di casadonna di strada, per poi successivamente reintegrare il lavoro sessuale all'interno delle mura domestiche, non solo in termini meramente procreativi ma inventando il ruolo della moglie-amante.

Secondo la sua lettura, che non risparmia una visione ferocemente critica di una serie di dispositivi di adattamento, che vanno appunto dalla psicoanalisi al vibratore, «la sessualità continua ad essere per noi motivo di angoscia: la “liberazione sessuale” è stata trasformata in un dovere».

È a questo punto che mi armo di tutto il coraggio che un piccione può avere, per argomentare non tanto una difesa d'ufficio della liberazione sessuale (che come diverse altre rivoluzioni è stata svuotata di senso e sussunta dal capitalismo) quanto piuttosto per rievocare, dalla mia prospettiva soggettiva di femminista pro-sex (in realtà mi definisco pornoattivista, ma preferisco contestualizzare questa terminologia più avanti), il contributo dei movimenti femministi e del transfemminismo in particolare alla risignificazione e riappropriazione della sessualità. La ridefinizione, da parte delle donne e dei soggetti minoritari, del piacere – inteso come godimento sessuale non legato alla logica riproduttiva etero-patriarcale – e del benessere sessuale – considerato come dimensione globale di appagamento legata non soltanto al coito.

Per farlo voglio immaginare un dialogo con Silvia, in cui le ricordo cose che sicuramente già conosce (a beneficio di chi legge e invece non le conosce) e gliene racconto altre delle quali forse non ha avuto esperienza diretta. Così, disegnando una genealogia di pensiero e azione che ha un tono più narrativo che accademico, provo a toglierla dal piedistallo, sperando anche di smetterla di sentirmi un piccione.

Parto da me, un po' perché sono femminista e un po' perché immagino che Silvia non abbia la più pallida idea di chi io sia.


Mi chiamo Slavina

Mi chiamo Slavina, o meglio mi faccio chiamare Slavina più o meno da vent'anni. Sono cresciuta a cavallo del cambio di secolo, un momento in cui chi faceva attivismo usando strategicamente Internet, nascondeva il suo nome, scegliendo di abbandonarlo sia per una questione di sicurezza, sia perché nella costruzione di senso della lotta l'identità era un fattore che consideravamo superabile, anzi proprio da superare.

Io scelsi di chiamarmi Slavina per una serie di motivi simbolici variamente intrecciati ma anche perché mi sembrava il diminutivo di slave, in una storpiatura della terminologia inglese legata a quella declinazione creativa della sessualità che è il bdsm [1] (che fino a poco tempo fa era severamente definita come «perversione», proprio in ambito psicologico). Le sue pratiche si basano sulla riproduzione di dinamiche di potere e si attuano consensualmente attraverso diverse tecniche e forme di scenificazione della relazione tra padronə (master o mistress) e schiavə (slave). Io che avevo scoperto il coito da relativamente poco tempo – ma già cominciavo ad apprezzarne le deviazioni – mi ero ritrovata con un po' di sconcerto a desiderare e provare grandissimo piacere nell'essere dominata, sottomessa, anche umiliata all'interno di una dinamica sessuale. Mi era del tutto chiaro che queste sensazioni amavo provarle solo all'interno di un contesto ludico, di gioco consensuale... eppure mi turbava quell'incoerenza tra il mio posizionamento pubblico e politico di militante e i piaceri perversi e ideologicamente incongrui del mio privato.

Ancora oggi non saprei dire se quel richiamo nel mio nickname (nome di battaglia, si sarebbe detto in altri tempi) fosse pura provocazione infantile o contenesse l'acerba consapevolezza che l'unico modo onesto di vivere in maniera militante sia evidenziando e attraversando le contraddizioni. Comprendere cosa c'entrava il sesso con la politica (e come), diventò per me una sorta di ossessione, ben prima di aprirsi come campo consapevole di indagine, che esploro da oltre un decennio, in maniera forse più indisciplinata che interdisciplinare.

Se la ripenso con la coscienza della mia integrità somatica di adesso, avendo consapevolezza del continuum che unisce mente e corpo soprattutto grazie al flusso degli ormoni, quell'inquietudine che mi muoveva mi sembra anche esagerata... Il libero dispiegarsi del mio desiderio era un elemento che ritenevo essenziale al mio percorso di autodeterminazione e interrogarmi sulla sua natura così apparentemente incoerente, era un'urgenza da risolvere con la costruzione di una mia propria epistemologia, visto che i Gender Studies all'epoca erano una specie di sogno americano e le risposte delle discipline più legate alla sessualità in senso stretto, erano insoddisfacenti, quando non direttamente patologizzanti.

La soluzione arrivò attraverso la pratica, o per meglio dire la prassi politica del femminismo queer.

A Bologna alla fine degli anni Novanta esisteva un collettivo femminista molto lanciato su tematiche che avrei imparato a definire pro-sex: si occupavano di pornografia e immaginario erotico, e avevano aperto un sexyshop all'interno di un centro sociale (questo ben prima che l'oggettistica legata al piacere personale e «della coppia» diventasse un trend e una nicchia fiorente di mercato). Si chiamava Sexyshock[2]. Era un'avanguardia su molti temi che poi sarebbero diventati terreno di scontro e proliferazione nello sviluppo del movimento in direzione transfemminista: dalla teorizzazione degli spazi safe (intesi anche come autocritica rispetto alle dinamiche eterosessiste che tormentavano anche gli spazi sociali dell'attivismo) alle tecniche di riproduzione assistita, al gender-gap tecnologico, alla rivendicazione del lavoro sessuale non c'è argomento che poi non abbia assunto rilevanza nel dibattito politico femminista, di cui quelle ragazze non si fossero occupate. Incontrarle per me fu decisivo. Collaborare con loro, fondamentale.

Dall'eros alato di Kollontaj al manifesto contrasessuale di Preciado, attraverso un lavoro di ricerca e confronto con loro, molto lontano dagli standard dell'accademia cominciai a trovare e ritrovarmi in molte, feconde, intersezioni tra sessualità e politica.

Nel frattempo anche in Italia si cominciava a parlare di studi di genere, si moltiplicavano le esperienze collettive di donne e soggettività lgbtqi+ variamente intrecciate che reclamavano spazio di parola nel dibattito politico di movimento, ma io ero già proiettata su un'altro sogno americano: i Porn Studies, la chiave di volta per comprendere non solamente l'origine della mia «devianza» ma più in generale, l'invadenza di certi modelli dominanti di comportamento sessuale.


La questione pornografica

«Ciò che trovo affascinante e che ha fatto sì che mi interessassi così a lungo alle questioni che ruotano intorno alla sessualità e alla pornografia è che non cessano mai di essere una questione, non smettono mai di essere un problema» (B. De Genevieve, A view from the ivory tower in Porn after porn, Mimesis International, Milano 2014).


L'entusiasmo per il lavoro di decostruzione della pornografia di Annie Sprinkle mi porto alla scoperta del dibattito feroce che aveva animato le cosiddette Feminist Porn Wars [3]. Da quel conflitto, emerge un femminismo proibizionista che all'inizio degli anni Ottanta voleva abolire pornografia e prostituzione e oggi esprime la sua radicalità con l'opposizione a certe forme di procreazione assistita e l'esclusione delle identità trans-femminili.

Contro le proposte di censura avanzate dalle femministe anti-porno, si unì un ampio fronte di attiviste che venne definito per l'appunto pro-sex e che nel 1982, con lo «scandaloso» convegno Towards a Politics of Sexuality [4], inaugurò l'analisi femminista sulla bifocalità della questione sessuale femminile: da una parte il già conosciuto spazio di oppressione e pericolo, dall'altra un territorio di piacere e benessere da riconquistare, o meglio in certo modo proprio da reinventare.

Perché il problema non era solo la pornografia, identificabile facilmente come responsabile della maleducazione sessuale (soprattutto maschile); bisognava rivedere criticamente tutto il sistema delle narrazioni che costituiscono lo scheletro della civiltà occidentale (dalla mitologia greca in poi), per scoprire che se a un certo ruolo di genere sono stati associati durante secoli determinati comportamenti sessuali, questi poi «naturalmente» si sono imposti come norma.

Il fenomeno che viene denominato forse in maniera un po' superficiale rivoluzione sessuale ha avuto uno sviluppo a ondate. Comprende fenomeni e pratiche diverse e a volte anche in contrasto tra loro: dalle prime sperimentazioni di superamento della monogamia al lesbismo radicale, il tentativo è sempre stato quello di decolonizzare non solo l'immaginario relazionale legato al sesso, ma la questione più profonda, identitaria, cioè distinguere il sesso, come pratica, dalla sessualità, come dimensione esistenziale. E per arrivare a un punto di svolta decisivo è stato infatti necessario riuscire a far tremare uno dei pilastri fondamentali della cultura occidentale: la concezione binaria della distinzione tra uomo e donna.

A mio modo di vedere, ciò è potuto accadere solamente all'interno dello sviluppo della proposta politica e artistica della postpornografia. Sviluppatasi nel contesto dell'attivismo della città di Barcellona alla fine del primo decennio di questo secolo, questa straordinaria convergenza di intelligenze e corpi insorgenti, è riuscita a propagare in maniera radicale l'idea della necessità e l'importanza del rivendicare pubblicamente la legittimità di ogni corpo e ogni desiderio e ogni possibilità di piacere [5].


«La forma più efficace di resistenza alla produzione disciplinare della sessualità non è la lotta contro le proibizioni (legata a movimenti di liberazione anti-repressivi) ma la contro-produttivitá» (P. B. Preciado, Testo Tossico, Fandango 2008).


Il discorso postpornografico, nelle sue differenti declinazioni, ha portato alla luce elementi di critica alla sessualità egemonica, che hanno spalancato mondi di conoscenza e sperimentazione. Dall'eiaculazione femminile [6] rivendicata attraverso processi di ginecologia autogestita [7] al diritto alla sessualità per le persone disabili [8], passando per la riappropriazione dell’iperfemminilità come elemento sovversivo [9] e il rifiuto della patologizzazione della condizione trans, quella scena ha marcato uno spartiacque deciso tra il sesso del Ventesimo secolo e quello di oggi.

Io stessa, dopo aver attraversato la scena postpornografica barcellonese e aver fatto da tramite col contesto italiano, ho deciso di nominarmi pornoattivista. E da più di dieci anni per me la sessualità – soprattutto quella femminile, ma non solo – è oggetto di ricerca e sperimentazione, che attualmente sviluppo sia in maniera pedagogica e performativa, sia da un punto di vista terapeutico.


Piacere e potere

Con queste credenziali e dopo questo percorso, sono qui per dire che è vero, che la sessualità per molte è ancora una fonte di angoscia, ma io credo non in quanto quota di lavoro di cura implicita nel contratto eterosessuale. Certo, il mio punto di vista è decisamente situato e non solo perché conosco direttamente solo il contesto europeo: purtroppo ancora non riesco a raggiungere, nei miei laboratori, donne sottoproletarie o magari prive di diritti di cittadinanza. Ma temo che purtroppo, per quelle il problema sessuale non sia l'imperativo categorico dell'orgasmo.

Penso invece di conoscere abbastanza bene la classe precaria dall'istruzione medio alta, quella composta da donne che sì potrebbero essere preoccupate dall'accusa di essere retrograde... ma ho l'impressione che il loro dilemma non sia legato alle aspettative altrui, quanto alle proprie.

Queste donne, anche grazie all'esempio femminista, non si accontentano più. Il benessere sessuale è un diritto umano e lo sanno bene. E l'orgasmo lo ricercano con ogni mezzo necessario non per una sorta di mandato sociale, ma perché le fa stare bene. Il piacere è un elemento essenziale per vivere una vita soddisfacente e se è pur vero che si può sublimare in tantissime forme diverse, la mancanza di una relazione intima appagante con altri corpi, a lungo andare può essere logorante.

L'orgasmo per le donne, a differenza degli uomini, non è ancora diventato merce – nonostante l'enorme diffusione dei gadget che lo procurano senza bisogno di una collaborazione esterna, nonostante il proliferare di corsi e laboratori per una sessualità consapevole, creativa, tantrica o addirittura sacra. La domanda di autoconoscenza sessuale è cresciuta significativamente.

Le donne che vivono in coppia cercano un appagamento sessuale condiviso perché sanno che è uno degli elementi che contribuiscono a mantenere una unione sana. Il sesso, all'interno della coppia, è un forte regolatore: serve a moderare i conflitti, a rafforzare il legame, a combattere l'alienazione di corpi espropriati dal lavoro o snervati dalla battaglia quotidiana per il reddito. Che poi la coppia (sia etero che omosessuale) sia una struttura chiusa e intrinsecamente liberticida, quello è un problema dell'assetto, non del tipo di collante che la tiene insieme o degli eventuali orgasmi.

Molto spesso il coito non è più nemmeno il sigillo di una relazione tradizionale, ma una ricerca che si articola in forme varie e sperimentali. Alcune donne ormai scelgono coscientemente di non avere relazioni stabili di coppia, altre scommettono su configurazioni più complesse, come il poliamore.

Credo sia poi necessario riaffermare la distinzione tra sessualità e sesso. Se dal sesso come pratica possiamo decidere di astenerci anche serenamente – e sorrido a questo avverbio, perché so di parlare come una donna quarantenne con una forte autocoscienza endocrina e i cui ormoni funzionano in maniera molto diversa da quelli della furia ventenne per cui il sesso era indispensabile, per motivi non solo ma soprattutto fisiologici – ritengo invece la sessualità una dimensione essenziale dell'esistenza, che si dispiega in diverse forme quasi tutte impoteranti [10] se vissute nel loro libero sviluppo, senza repressioni di sorta: dalle fantasie erotiche, spazio di creazione e ricreazione, al ricordo che nutre la memoria e sul quale si fonda l'archivio degli affetti, alle varie forme di sublimazione che vanno dal movimento corporeo cosciente all'alimentazione, la sessualità è un ponte che ci mette in comunicazione con altri, altre, altru – ma è fondamentalmente un ambito tutto nostro sul quale, a patto di dargli la giusta rilevanza politica, possiamo sperimentare la libertà di essere radicalmente noi stesse.


Il campo di battaglia, un parco giochi

Lo scrive la stessa Federici:


«La costruzione della sessualità femminile come servizio e la sua negazione come piacere hanno a lungo mantenuto viva l’idea che essa fosse peccaminosa e redimibile solo attraverso il matrimonio e la procreazione. Ciò ha prodotto una situazione in cui ogni donna è stata considerata una potenziale prostituta, da tenere sotto costante controllo.

Di conseguenza, generazioni di donne, prima dell’ascesa del movimento femminista, dovendo dimostrare di non essere prostitute, hanno vissuto la loro sessualità come qualcosa di vergognoso».


Non siamo uscite da questo incubo per validarne un altro nel quale l'assetto normativo sia uguale e contrario. Come diceva una grande poeta e rapper spagnola, Gata Cattana, siamo più interessate ai libri di Silvia Federici che ai profumi di Nina Ricci [11].

La canzone che contiene questo verso si chiama, non a caso, Lisistrata – dal nome della protagonista dell'omonima commedia di Aristofane che racconta il primo sciopero sessuale delle donne, iniziativa che riesce a fermare la guerra del Peloponneso.

Sono secoli che la sessualità è per noi un campo di battaglia. Ma la lotta è stata così lunga e così articolata, così densa nell'elaborazione teorica, così radicale nelle prassi, così anche dolorosamente dialettica, che oggi possiamo dire che questo campo di battaglia vogliamo poterlo vivere come un parco giochi [12]. Perché le regole, adesso, vogliamo sceglierle noi.


Note [1] Bdsm è un acronimo che riunisce le accoppiate Bondage & Discipline, Domination & Submission, Sadism & Masochism, e che viene usato per definire una ampia gamma di attività, relazioni interpersonali e subculture: è un termine che accomuna un certo tipo di esperienze erotiche tra adulti consenzienti basate sul gioco di ruolo, la gestione del potere e la feticizzazione di determinati oggetti o comportamenti. [2] Del Sexyshock rimane un sito web, che però non restituisce la ricchezza e complessità dell'esperienza http://www.ecn.org/sexyshock/menu2.htm [3] Feminist Porn Wars viene chiamata la spaccatura interna al movimento femminista statunitense intorno ad alcuni temi relativi alla sessualità: pornografia, bdsm, lavoro sessuale. Un dibattito animato dal gruppo delle Women Against Pornography, che affermavano: «Il porno è la teoria, lo stupro la pratica», e che lanciarono una proposta di legge di censura. A contrastarle, difendendo la sessualità come terreno di esplorazione, rappresentazione e esercizio di una professione non furono soltanto le teoriche e accademiche del convegno «Towards a Politic of Sexuality» del 1982 (vedi nota 4), ma quelle donne attive nei settori del lavoro sessuale che si cercava di criminalizzare e colpevolizzare: prostitute, pornografe e praticanti di sessualità anormali. [4] Il simposio Towards a Politic of Sexuality, organizzato nel collegio femminile Barnard a New York nell'aprile del 1982, aveva un chiaro posizionamento pro-sex e fu osteggiato sia dalle Women Against Pornography che dalla stessa istituzione universitaria. Si veda la raccolta degli interventi del convegno: C. Vance, Pleasure and Danger: Exploring female sexuality, Pandora Press, Ontario, Canada 1993. [5] Sul movimento postporno di Barcelona si veda di L. Egaña Rojas, Atrincheradas en la carne, edicions bellaterras, Barcellona 2017. [6] Sull'eiaculazione femminile si veda D. Torres, Fica Potens, Golena edizione, Roma 2015. [7] Sulla ginecologia autogestita si veda l'esperienza di Gyne Punk a Barcellona. [8] Sul tema della sessualità e disabilità/assistenza sessuale si veda il documentario Yes, we fuck; https://www.yeswefuck.org/. [9] Si veda I. Ziga, Divenire cagna, Golena edizione, Roma 2015 [10] Insieme a Rachele Borghi - e a molte altre attiviste femministe – scelgo di usare e diffondere il termine impoterante per tradurre in italiano il concetto di empowerment, per me impossibile da utilizzare spensieratamente perché espropriato dal femminismo neoliberista. Già Maria Nadotti aveva usato impoteramento nella sua traduzione di Elogio del margine di bell hooks, 1998. Personalmente sono passata dal verbo spagnolo empoderar per poi riconoscere la necessità di forzare i limiti del linguaggio per portare alla luce una nuova parola-concetto della quale in italiano avevamo bisogno. [11] Gata Cattana, Lisistrata, 2015; https://youtu.be/GsMDU8gb5sQ [12] Il riferimento è alla performance Porno trash di Zarra Bonheur; http://www.zarrabonheur.org/performer/porno-trash/.

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