
Pubblichiamo oggi la traduzione dell'editoriale scritto da Louisa Yousfi per «Nous», la rivista decoloniale lanciata da «QG décolonial» e «Paroles d'honneur».
L'articolo sviluppa le riflessioni che la stessa autrice e Houria Bouteldja hanno posto in due importanti testi pubblicati in Italia da DeriveApprodi: Restare barbari (2023) e Maranza di tutto il mondo, unitevi! (2024). Ossia: come costruire un antirazzismo politico capace di distruggere il patto razziale su cui si fondano Stato francese e Occidente.
Una «scommessa del noi» che passa anche dall'alleanza dei «barbari» con i «piccoli bianchi», quel proletariato bianco delle periferie, impoverito e marginalizzato che, ci dice Louisa Yousfi, «se devono essere considerati, non è "nonostante" il loro razzismo, ma "all’interno" del loro razzismo, ponendo come ipotesi regolatrice che quest’ultimo costituisca il viaggio fallito verso la loro dignità».
Traduzione di Giorgia Pazienza.
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Chi sono i piccoli bianchi [1]? Di che colore sono? Sono più piccoli che bianchi o più bianchi che piccoli? Sul piano strettamente politico, la risposta è semplice. I piccoli bianchi sono tendenzialmente bianchi. Votano come bianchi, si percepiscono bianchi, vogliono essere bianchi. La recente sequenza elettorale e i disordini provocati dalla rivelazione della loro bianchezza all’interno della sinistra della trasformazione non hanno fatto altro che riproporre questo eterno ritornello, seguito dall'eterna domanda: che fare dei piccoli bianchi, che sembrano incarnare il peggio di questi due aggettivi? Piccoli, in quanto costituiscono la parte più danneggiata del patto razziale che struttura il paese. Bianchi, perché intrisi di sentimenti propriamente razzisti e quindi controrivoluzionari. La causa di questi cupi sentimenti conta poco. Che i piccoli bianchi siano razzisti per odio, paura, ignoranza o una falsa coscienza di classe non cambia molto. Al contrario, tutto sembra suggerire che sia tutto perduto. Per loro. Per noi. Per «la scommessa del noi». Eppure.
Noi, militanti decoloniali che cerchiamo di mettere tutte le nostre idee alla prova del materialismo storico, teniamo sempre a mente questo: i gruppi sociali non sono mai solo sociali e non c’è solo politica nella politica. Sicuramente i piccoli bianchi sono le sentinelle della bianchezza. Sicuramente sorvegliano le sue frontiere come guardiani notturni pagati miseramente. Ma questo patto da perdenti che hanno stretto con la borghesia, che li disprezza tanto quanto noi, rivela in loro una zona che un’analisi grossolanamente «materialista» è insufficiente a cogliere completamente. Sul razzismo dei bianchi americani, James Baldwin diceva in sostanza: da quale problema interno i bianchi stanno cercando di fuggire per avere così tanto bisogno dei neri? Per il caso francese, sarebbe necessario declinare la domanda: quale riflesso i neri e gli arabi di questo paese porgono ai piccoli bianchi, tanto da convincerli che sono sul punto di scomparire a causa di una «grande sostituzione»? Qual è la parte di invidia nell'odio che esprimono nei nostri confronti? E perché è possibile rovesciare tutti gli stigmi del mondo, a partire da quello del «barbaro» [2] nell’era in cui il capitalismo stesso punta a sfruttare questa dignità per farne un commercio, ma mai quello del «beauf»[3] i cui tentativi di sublimazione falliscono il più delle volte?
È un cantiere che si apre sulle sabbie mobili. I piccoli bianchi, se devono essere considerati, non è «nonostante» il loro razzismo, ma «all’interno» del loro razzismo, ponendo come ipotesi regolatrice che quest’ultimo costituisca il viaggio fallito verso la loro dignità. Cosa si può fare dopo aver venduto l’anima con l’obiettivo di non perdere tutto (e ritrovarsi a condividere la stessa condizione dei barbari) ritrovandosi, alla fine, con l'aver perso tutto? Come si combatte questa forma specifica di risentimento? E come sarebbe questa «anima» che permette ancora ai barbari, nonostante l’oppressione e l’umiliazione, di non abbandonare completamente il loro futuro rivoluzionario e di esistere secondo un sistema di valori e credenze non disciplinabili alle leggi di un mondo che ci opprime collettivamente? Come ritrovarla nel deserto economico, sociale, culturale e spirituale in cui i piccoli bianchi si ritrovano ora intrappolati? Ponendo le cose in questo modo, la speranza dovrebbe mancare. Ma ciò significherebbe non cogliere un’ironia tutt’altro che amara, che ha del miracoloso. Questo lavoro sulla dignità perduta dei piccoli bianchi è oggi intuito, pensato e sviluppato dai loro nemici giurati, i militanti antirazzisti dell’immigrazione, che sanno vedere, dietro il volto dei loro carnefici più diretti, i loro vicini di casa; che sanno vedere, dietro tutto l’odio e il rancore di cui sono vittime, ciò che la Francia ha fatto anche a loro.
La «scommessa del noi» inizia quindi qui, in territorio decoloniale, dove viene compiuto il primo sforzo: attribuire a questi nemici molto ostili un destino non del tutto compromesso, con asperità ancora sconosciute, che risusciterebbe una memoria perduta capace di abolire la nostra prima domanda. Non più «Chi sono i piccoli bianchi?» ma «Chi possono diventare?». Per esempio: né piccoli, né bianchi.
Note
[1] Il proletariato bianco delle periferie impoverito e marginalizzato.
[2] Si veda Restare barbari (DeriveApprodi, 2023).
[3] Si è scelto di lasciare in francese il termine «beauf», data la sua specificità semantica nel contesto politico e sociale francese, come ben spiegato da Houria Bouteldja in Beaufs et barbares (trad. it., Maranza di tutto il mondo, unitevi!). Se dovessimo trovare un termine italiano che, con altre radici storiche, si approssima a questa definizione, potremmo pensare a «bifolchi».
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Louisa Yousfi è una giornalista e scrittrice, figlia di algerini immigrati in Francia. È autrice di Restare barbari (DeriveApprodi, 2023), un’opera con cui denuncia il conflitto assimilazionista che le politiche delle istituzioni francesi non smettono di alimentare da almeno mezzo secolo. Più recentemente, ha contribuito all’opera collettiva Contre la littérature politique (con Pierre Alferi, Nathalie Quintane, Leslie Kaplan, Tanguy Viel e Volodine, La Fabrique, 2024).
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