top of page

Discutere «Genere e capitale»

Come potrebbe essere diversamente: produzione, riproduzione e tecnologie



Poco più di un anno fa arrivava nelle librerie Genere e capitale. Per una lettura femminista di Marx. Il volume di Silvia Federici, che raccoglie oltre 40 anni di serrata discussione che l’autrice ingaggia con Marx e soprattutto con il marxismo a lei coevo, per discutere i silenzi sul valore della riproduzione e sulla rottura politica rivoluzionaria della lotta delle donne sul terreno della riproduzione.

Il volume, sull’onda della riscoperta di Marx nel contesto della crisi permanente e di una rinnovata stagione di lotte femministe, ha trovato ampia circolazione sul piano internazionale. Oggi è uno dei capisaldi nell’analisi politica di quel movimento femminista transnazionale che ha preso l’avvio con l’esperienza di Ni Una Menos in Argentina. Qui vogliamo riprenderlo e discutere collettivamente. Non ci interessa però un’esegesi dell’analisi marxiana di Federici. Il libro non si presta a questo scopo. Al contrario, come la stessa autrice ha avuto modo di chiarire in un’intervista che segue di poco l’uscita del volume [I], l’oggetto polemico (e politico) della sua riflessione non è tanto Marx (il cui lavoro riconosce come irrinunciabile benché insufficiente per la critica femminista) bensì la traduzione politica di quel pensiero. L’uso cioè che ne hanno storicamente fatto i partiti comunisti e i movimenti radicali fino ai nostri giorni.

Con uno sguardo analogo a quello messo a lavoro nel volume, ciò che qui vogliamo riprendere e discutere è proprio la traduzione politica del pensieri di Federici nel nostro contesto di realtà, alla luce della profonde trasformazioni che stanno interessando l’organizzazione del lavoro produttivo e riproduttivo così come il piano della soggettività. La stessa Federici, d’altra parte, ci ha mostrato i pregi e l’efficacia (politica) di un’analisi work in progress che continuamente interroga il presente, una pratica teorica sempre mossa dall’urgenza politica che non è mai mera speculazione filologica, ma vive nella materialità delle condizioni di vita delle donne e da lì si i interroga sul che fare? E questo è senz’altro il più grande insegnamento di metodo che Federici, con questo e altri lavori, ci consegna.

Riprendendo questa preziosa intuizione, vogliamo qui discutere alcuni temi e questioni che Federici elabora nel volume. Sono in particolare tre quelle che hanno suscitato il nostro interesse e che intendiamo riprendere e sviluppare in un dialogo (storicamente difficile) tra generazioni femministe: il ruolo della tecnica in ambito (soprattutto) riproduttivo, la funzione sociale della sessualità, la critica al progresso. L’obiettivo è quello di portare l’analisi di Genere e capitale oltre se stessa, proprio come Federici ha fatto con Marx. A inaugurare questo spazio di discussione e approfondimento, Federica Timeto propone una riflessione che interroga il rapporto tra produzione, riproduzione e tecnologie, ripercorrendo, a partire dal libro, il «percorso dal quale emerge la posizione critica di Silvia Federici riguardo alla celebrazione della tecnologia e alla strumentalizzazione della natura».

[I] Classe, progresso e sciopero delle donne. Intervista a Silvia Federici di Caterina Ciarleglio, in «Commonware», 06 Marzo 2020, http://archivio.commonware.org/index.php/cartografia/926-classe-progresso-e-sciopero-delle-donne


Anna Curcio


* * *


Denaturalizzare la natura

Leggendo gli scritti che compongono Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx [1], che dalla metà degli anni Settanta arrivano sino ad oggi, è possibile rintracciare un percorso dal quale emerge la posizione critica di Silvia Federici riguardo alla celebrazione della tecnologia e alla strumentalizzazione della natura nel contesto della sua ampia e articolata critica femminista a Marx. La posizione di Federici sulla tecnologia (talvolta molto ampiamente intesa, altre localmente osservata rispetto a pratiche specifiche) rientra nella sua critica all’estrattivismo capitalista, le cui conseguenze osserva sul corpo della natura e delle donne. Laddove Marx sottovaluta la distruzione ambientale derivata dall’espansione industriale e tecnologica, il femminismo di Federici, in linea con l’ecofemminismo di autrici come Carolyn Merchant, Maria Mies, Ariel Salleh e Vandana Shiva, cui la stessa rimanda, immaginano un lavoro di cura ecologico sottratto ai circuiti della grande industria, in cui rientra anche la gestione non familistica della riproduzione [2].

La tecnoscienza, contro cui hanno preso duramente posizione soprattutto le femministe radicali e le ecofemministe, non è ovviamente mai neutra, ma è politica «con altri mezzi» [3]. Del pari, nemmeno le scienze naturali sono propriamente tali, perché anche la natura è una «entità» politica. Nel contesto dei Science and Technology Studies, l’approccio tecnofemminista di autrici come Donna Haraway, che il posizionamento più recente pone in aperto dialogo con l’ecofemminismo, se da un lato è fortemente critico del produzionismo e dell’estrattivismo dominanti, dall’altro ci chiede sempre di riflettere sulla costituzione «impura» degli assemblaggi naturalculturali, facendo appello a un «artefattualismo denaturalizzante» il cui obbiettivo politico è articolare diversamente l’esistente a partire da una sua re-visione onto-epistemologica [4]. La tecnologia, infatti, non snatura la natura, ma è una forma particolare della sua produzione [5]. Denaturalizzare la natura ci consente di uscire dal cortocircuito dialettico che si crea fra la nostalgia per il passato perduto (naturale) da un lato e l’attesa della salvazione (tecnologica) dall’altro.

Una problematizzazione delle tecnologie, per essere efficace, dovrebbe andare di pari passo con una problematizzazione del concetto di natura: se le (più o meno nuove) tecnologie e i tecnospazi cui danno vita non sempre sono l’inferno, nemmeno la natura è sempre il paradiso. Come la tecnologia [6], infatti, la natura è una rappresentazione performativa che può essere invocata per «fissare» il mondo e immobilizzare i viventi (certi, come i nativi, le donne, gli animali non umani, più di altri) in una presunta essenzialità naturale, costruita come inviolata ma materialmente sempre violabile, e alimentare così i peggiori progetti estrattivi e nazional-colonialisti (o in alternativa «protezionisti») fondati sulla produzione simbolica e materiale di corpi-risorsa.

Commentando su una storia apparsa sulla rivista «Discover» (1990) intitolata Tech in the Jungle, in cui un indigeno kayapo con una videocamera è fotografato mentre filma la protesta dei membri della sua tribù contro la costruzione di una diga ad Altamira in Brasile, Haraway sostiene che se percorriamo la strada dell’articolazione non vedremo l’indio kayapo con la sua videocamera né come un disperato difensore di una vita premoderna, né come un nativo inesorabilmente corrotto dalla civiltà tecnologica: ma come parte di un complesso assemblaggio naturalculturale articolato in «zone di confine chiasmatiche» [7] dove sperimentare nuovi modi di fare mondo.

Numerosi assemblaggi ibridi di questo tipo si possono certamente menzionare: consideriamo per esempio la funzione che le nuove tecnologie hanno avuto nella disseminazione delle istanze della rivolta zapatista [8], pur se al prezzo di una costruzione mediatica spesso distorta o le proteste contro la costruzione del Dakota Access Pipeline nella riserva Sioux di Standing Rock in USA, una delle rivendicazioni ecologiste che ha avuto più visibilità globale nella storia recente, in cui l’impiego decoloniale del digitale ha mobilitato un’ampia «ecologia di conoscenze» [9], performando, piuttosto che soltanto rappresentando, un luogo del comune prima non immaginabile, nonostante la posizione molto critica di Federici sulla capacità dei media digitali di produrre comunità [10]. Le tecnoreti possono essere anche politiche, oltre che informazionali e sociali, e funzionare in base a processi decisionali, non solo comunicativi o relazionali [11]: come dimostrano, tra gli altri, i collettivi transhackfemministi che praticano il Pirate Care impiegando sofisticate tecnologie con un approccio artigianale dal basso [12].


La tecnologia in sé?

Le critiche avanzate da Federici a Marx, attraverso cui si comprende la sua posizione «antitecnologica», sono sostanzialmente due [13]: la sottovalutazione marxiana della riproduzione nell’analisi del lavoro e la sua sopravvalutazione della razionalità, ovvero quella «tecnofilia» che può apparire rischiosa anche e soprattutto per riconsiderare il lavoro riproduttivo come lavoro a tutti gli effetti. Le tecnologie su cui Federici si sofferma, dunque, riguardano in prima istanza il lavoro riproduttivo, per quanto, anche partendo dagli spunti offerti dalla sua stessa riflessione, oggi più che mai risulta estremamente complicato affrontare la questione separando produzione e riproduzione, e così pure la materia e l’informazione che performano i corpi e il loro immaginario.

Nel celebre saggio Contropiano dalle cucine (1974) [14], scritto da Federici con Nicole Cox in risposta a un articolo di Carol Lopate contro il salario al lavoro domestico, le autrici attaccano la politica della sinistra che vuole portare le donne in fabbrica e le fabbriche nel Terzo Mondo, e con questa lo «sfruttamento più razionalizzato e più produttivo» [15] che tale idea di diritto al lavoro implica. Il lavoro di cui Federici e Cox parlano, d’altronde, non è solo quello salariato strettamente inteso. Le autrici evidenziano come alcune donne sono sottoposte a una produzione intensiva di bambini, ad altre invece è negata la possibilità di procreare, soprattutto se non bianche e appartenenti a classi sociali potenzialmente riproduttrici di soggetti a rischio e di manodopera non qualificata. Un passaggio che oggi ritorna con inquietante urgenza in numerose riflessioni del femminismo sulla giustizia riproduttiva, dalle quali una diversa considerazione delle nuove tecnologie emerge ed è sostenuta [16]. Rivendicare il lavoro domestico come momento della produzione capitalistica, infatti, non serve per Federici e Cox a rivendicarne la produttività, che implica sempre sfruttamento; ma evidenziare come il privato non è antitetico al pubblico, né la famiglia alla fabbrica, dato che i rapporti di produzione che li regolano sono i medesimi e che, dunque, il lavoro gratuito non può dirsi affatto lavoro disalienato. La lotta per il salario al lavoro domestico che Federici qui e altrove sostiene non mira a entrare nel rapporto salariale cui mai il lavoro non pagato è stato estraneo, semmai a far saltare i rapporti salariali che regolano le dinamiche lavorative.

Ma se la rivendicazione del salario al lavoro domestico intende scardinare il ruolo assegnato ai soggetti femminili/zzati nel modo di produzione capitalistica, perché non si possono rivendicare impieghi diversamente articolati delle tecnologie per gli obbiettivi della lotta femminista? Federici e Cox, in effetti, riconoscono la possibilità che non sia «la tecnologia in sé che ci degrada ma l’uso che ne fa il capitale» [17] anche se poi la riflessione di Federici non darà granché seguito a questa considerazione. Se a essere presa di mira sembrerebbe qui la tecnocrazia piuttosto che la tecnologia, ossia un certo modo di articolare (concepire, significare, impiegare) le tecnologie, su questo stesso piano non dovrebbe risultare difficile ascrivere al tecnofemminismo analisi e pratiche delle tecnologie in evidente e aperto contrasto con l’ideologia tecnocratica. Riconoscere il ruolo tattico delle tecnologie non significa ovviamente misconoscerne l’impiego strategico, ovvero ignorare le tecnobiopolitiche per la definizione, la gestione e il controllo dei viventi sulla base della classe [18], del genere [19], dell’etnia [20] o della specie [21]. Federici teme che l’esproprio della riproduzione dai corpi delle donne possa ancora una volta subordinare gli interessi della riproduzione a quelli della produzione, di fatto sottraendo il lavoro riproduttivo ai corpi, e normando le relazioni sociali e i luoghi del loro accadere. Ma auspicare che i soggetti del lavoro riproduttivo abbiano il controllo dei propri mezzi di ri-produzione significa necessariamente immaginare la riproduzione come «naturalmente» estranea all’ambito della tecnologia (che comprende anche le relazioni sociali in cui ogni corpo si trova implicato), o non piuttosto desiderare di sottrarre il vivente allo sfruttamento della macchina?

Per esempio, parlando delle contemporanee tecnologie riproduttive, Angela Balzano [22] spiega molto chiaramente che pratiche come l’ectogenesi, ossia la gravidanza in utero artificiale, che astrae la riproduzione dai corpi delle donne realizzando il sogno dell’alchimista [23] di fronte al suo homunculus e anche prestandosi alle peggiori fantasie pro-life, potrebbe altrettanto essere impiegata per la liberazione dei corpi delle donne per la ragione opposta, cioè per partire dalla prospettiva situata e incarnata di questi corpi r-esistenti: grazie, per esempio, a una redistribuzione del lavoro riproduttivo tra i generi e al conseguente scardinamento di modelli di genitorialità eteronormata, in base ai quali la riproduzione e le sue attuali tecnologie riproduttive sono ancora riduttivamente concepite [24]. Consideriamo ancora le pratiche contraccettive: la critica che Federici avanza a Marx, il quale tralascia di soffermarsi, anzi ignora, la persecuzione delle pratiche contraccettive e la criminalizzazione dell’aborto funzionali al controllo dei corpi delle donne da parte del capitale, potrebbe trovare riscontro, oggi, nella pratica che, all’opposto, impiega la contraccezione come coercizione, dagli impianti sottocutanei di Norplant alle isterectomie forzate, usati per incardinare in precisi ruoli funzionali alle tecnobiopolitiche dominanti i corpi delle operaie che assemblano microcomponenti elettroniche nelle maquiladoras o delle migranti imprigionate nei centri di detenzione [25].


We’re not in Kansas anymore

L’analisi va dunque sempre complicata, anche per contrastare le distopie ritornando verso una direzione situata, piuttosto che evadendo verso una utopica. Nick Dyer-Whiteford per esempio, nella sua lettura post-postoperaista della condizione del cyberproletariato, ribadisce come nelle reti digitali i processi di valorizzazione facciano riferimento sempre più a una forza lavoro globale automatizzata e femminil/izzata per svolgere compiti da catena di montaggio, ad esempio il data entry, e come queste nuove forme di lavoro produttivo si intreccino in modi perversi con il lavoro riproduttivo non pagato: insomma tutt’altra visione rispetto alla versione spesso mascolinizzata e patinata del lavoro immateriale di alto profilo propagandata come obbiettivo ideale dai tecno-entusiasti, perlomeno fino alla crisi finanziaria del 2008. Genere, classe, appartenenza geografica ed etnica si inscrivono nelle forme di sfruttamento del capitale digitale e non possono essere sottovalutate quando si parla dei tecnospazi contemporanei, insieme alle dinamiche di sussunzione/espulsione della lavoratrice, entrambe dipendenti dalle contraddizioni della produzione capitalistica globalizzata e automatizzata. Il proletariato globale, scrive Dyer-Whiteford, è catturato in un «vortice cibernetico» simile a quello che trasporta Dorothy (e Toto) nel paese di Oz: fuori dal Kansas.

Domande come quelle poste da Federici necessitano di essere riprese e complicate in considerazione del mutato scenario socio-economico contemporaneo, diffuso e allo stesso tempo «vorticale» [26]. Nelle reti globali innervate da biotecnologie e tecnologie dell’informazione e della comunicazione, il lavoro di cura comprende nuove forme di riproduzione che attraversando ambiti, generi e specie diversi richiede una riflessione eco, cyber e transfemminista in grado di guardare ai complessi grovigli in cui lavoro intellettuale, manuale, sessuale si intrecciano sempre più in modi inediti e trasversali [27].

Se Federici pensa che l’analisi di Marx eluda le problematiche del lavoro riproduttivo, ne critica la visione liberatoria dell’automazione rispetto al lavoro produttivo, e al contempo ci mette in guardia dai rischi della meccanizzazione del lavoro di cura, siamo convinte che la sempre maggiore difficoltà a tenere separati ambiti e corpi oggi richieda analisi più stratificate. È stata per esempio Kilye Jarrett (2015) a evidenziare come il lavoro riproduttivo non più localizzato soltanto nei corpi delle donne sia diventato il carburante con cui funzionano le reti sociali digitali. Il suo concetto di «casalinga digitale» si sviluppa all’interno della teoria femminista del lavoro domestico; per quanto possa apparire biologicamente essenzialista, la definizione parte in realtà dal riconoscimento del contesto in cui è la valenza di genere a dare valore al lavoro domestico ai fini del suo sfruttamento. Da qui, Jarrett elabora una riflessione resistenziale sul lavoro non pagato portandolo fuori dalla sfera domestica (nonché dalla sua associazione esclusiva alla categoria di genere) e nel contesto delle nuove tecnologie, a partire dalla considerazione della gratuità che accomuna il lavoro riproduttivo e, per esempio, il lavoro del prosumer negli ambienti digitali, come anche della circolazione degli affetti nelle reti sociali.

Il femminismo ha elaborato numerose riflessioni sul costo sociale dell’introduzione delle macchine nelle case per sostituire il lavoro vivo [28]. Pensiamo alla retorica che ha accompagnato e tuttora accompagna l’invenzione degli elettrodomestici «salvatempo»: questi non hanno affatto ridotto il tempo del lavoro domestico gratuito, ma hanno modificato di molto, invece, il panorama del lavoro domestico pagato, hanno acuito le differenze di genere, classe ed etnia e hanno femminilizzato la macchina [29], finendo per occultare il lavoro effettivamente svolto dietro alla nozione di «servizio» [30].

Oggi, però, è necessario porsi nuove domande, come per esempio: cosa accade quando si prova a incorporare nelle macchine le capacità affettive? [31] Ammesso che ci (chi? dove?) si possa permettere questi dispositivi, il costo emotivo della meccanizzazione del lavoro riproduttivo sarebbe sostenibile, o ci sarebbe il rischio di vedere espellere il lavoro riproduttivo dalla sfera del lavoro socialmente necessario? I cosiddetti robot sociali addetti al lavoro di cura, oggi impiegati nei più svariati ambiti, usurpano semplicemente il lavoro riproduttivo azzerandone la dignità e impedendone il riconoscimento, o si prospettano altre ecologie fra corpi organici e macchinici [32]? Per esempio, partendo dal presupposto che simili analisi devono sempre essere radicate nel vissuto dei corpi diversamente situati, sganciare il lavoro di cura dal lavoro meccanicamente riproduttivo [33] ed esternalizzare la riproduzione sociale alla cibernetica potrebbe essere un modo per farlo circolare collettivamente, fuori dalle pareti domestiche (e dai loro surrogati), nonché fuori dai circuiti dominanti del lavoro globale, liberando certi posizionamenti obbligati in questi circuiti, come quelli in cui il più delle volte sono obbligate le migranti [34]. Simili prospettive sono, però, decisamente lontane. Ma ancora una volta è opportuno chiedersi, è la tecnologia in sé il problema?


Fuori dalle cucine

Se le rivendicazioni femministe non possono essere relegate alle cucine, per parafrasare Federici, ma devono essere piuttosto socializzate, dal luogo-fabbrica di qualche decennio fa alla cosiddetta fabbrica diffusa di oggi, ugualmente immaginiamo una politica femminista delle tecnologie capace di percorrere le reti globali in cui le attuali relazioni sociali si addensano, fluiscono e vengono sussunte. Il coltello per tagliare una linea femminista che sappia separare il controllo tecnocratico dalla classe che esso produce, che Federici propone [35], potrebbe oggi trasformarsi in uno strumento ancora più versatile in grado di districare non una, ma molteplici linee, per separare questo controllo tecnocratico non solo dalla classe, ma anche dalla specie, dall’etnia, dai generi in cui si incorpora.

Per questa ragione, Tithi Battacharya [36] invita a una descrizione «densa» delle dinamiche economiche odierne, capace di interrogare numerosi accadimenti di confine, fra territori della produzione e della riproduzione, lavoro economico e culturale, piano materiale e simbolico, natura e tecnologia e, non da ultimo aggiungerei, viventi umani e non umani. Cambiano gli spazi, cambiano anche i corpi: è sorprendente, per esempio, come ancora oggi la quasi totalità delle riflessioni del Social Reproduction Feminism [37], che sulle elaborazioni delle teorie di Federici, Fortunati e Dalla Costa si fonda, continui a ignorare [38] il capitale di specie [39]: infatti, il controllo delle funzioni animali dell’umano da parte della razionalità tecnologica – uno dei punti che Federici contesta maggiormente a Marx parlando di tecnologia – trova nei corpi animali e animalizzati del circuito zootecnico il suo terreno di esercizio più favorevole.

Non possiamo neppure credere, come giustamente rimprovera Federici a Marx, che la soluzione sia la presa di possesso dei mezzi di produzione soltanto e che, adottando la «visione prometeica» (e umanista) marxiana, sia solo questione di tempo, poiché le macchine non sono il prodotto di una «immacolata concezione» (Federici fa qui l’esempio del coltan o anche delle tecnologie agroalimentari) [40], ma emergono in precise infrastrutture materiali e simboliche che a loro volta performano alcune soggettività e relazioni piuttosto che altre. La considerazione delle storie, infatti, è una cosa, la visione storicistica tutt’altra. La seconda non consente di disfarsi di una visione progressiva/regressiva e dunque del dualismo tra naturale e tecnologico, la prima adotta prospettive situate e specifiche per tracciare una «topologia multidimensionale» [41] del mondo in cui viviamo, inclusi i limiti e le contraddizioni.

Anche la politica femminista dei commons che Federici auspica è una articolazione situata del sociale: «Decliniamo i commons al plurale secondo lo spirito promosso dagli zapatisti con lo slogan “Un solo NO ma molti SI”, che riconosce l’esistenza di diverse traiettorie culturali e storiche e la molteplicità di risultati compatibili con l’abolizione dello sfruttamento – cosa che esclude la possibilità di modelli universalizzanti di organizzazione sociale» [42]. Osservando i vissuti parziali e locali dei corpi, è possibile comprendere come l’uso strategico e l’uso tattico non sono proprietà essenziali delle tecnologie, né i corpi hanno delle proprietà essenziali che le tecnologie snaturerebbero: si tratta invece di pensare a complessi assemblaggi, comporre e scomporre i quali è sempre una operazione politica che a sua volta performa una precisa visione ed esperienza del mondo, piuttosto che soltanto rappresentarla.

Il mantenimento dei dualismi, che separa il piano tecnico da quello sociale e politico, ovvero la natura dalla cultura [43], caratterizza sia le posizioni tecnofobiche più ingenue sia il tecnocapitalismo estrattivista più agguerrito. Nel solco della sua critica a Marx, Federici si mostra profondamente sospettosa dell’accelerazionismo [44], che ritiene porti alle estreme conseguenze la visione marxiana dell’automazione. Dal canto suo, Dyer-Whiteford non ritiene adeguate né la posizione dell’accelerazionismo né la prospettiva anarchica di un collettivo come Tiqqun, entrambe incapaci di affrontare le questioni che la cibernetica pone alla immaginazione comunista, riguardanti il lavoro, l’ambiente, uno stato di guerra ormai permanente e la ridefinizione dei soggetti sociali, ambiti tutti che, per Dyer-Whiteford come per Federici (ma anche per Haraway), richiedono un ritorno dal general intellect alla dimensione del corporeo [45]. Si tratta dunque di capire di quali corpi si parla, e di come questi corpi si articolano in relazione a diverse pratiche di dominio e resistenza, mai proprie dei corpi né dei mezzi, ma emergenti piuttosto dalle loro differenti relazioni.

La tecnologia è la società resa durevole, ha detto più o meno letteralmente Latour. Pertanto, piuttosto che domandarci quali siano le sue caratteristiche, forse dovremmo prestare attenzione a come queste si sono sedimentate, quali ideologie, istituzioni, norme e relazioni fra corpi organici e inorganici hanno prodotto e su quali relazioni preesistenti si sono a loro volta inscritte per funzionare in questi modi. E come potrebbe essere diversamente. Agire senza separare fatti e valori, tecnologie e politiche, significa infatti poter immaginare e costruire altri fatti, animati da valori capaci di dare luogo a politiche differenti.



Note [1] S. Federici, Genere e Capitale. Per una lettura femminista di Marx, a cura di A. Curcio, DeriveApprodi, Roma 2020. [2] Che peraltro ritorna nella fabula speculativa delle Comunità del Compost con cui si chiude Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto di D. Haraway. trad. it. C. Durastanti e A. Ciccioni, Nero, Roma 2020. [3] E. Whelan, Politics by Other Means: Feminism and Mainstream Science Studies, «The Canadian Journal of Sociology / Cahiers canadiens de sociologie», Vol. 26, No. 4, 2001, pp. 535-581. [4] D. Haraway, Le promesse dei mostri, a cura di A. Balzano, DeriveApprodi, Roma 2019. [5] Ibid. Vedi anche B. Latour, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, trad. it. M. Gregorio, Raffaello Cortina, Milano 2000; K. Barad, La performatività queer della natura, trad. it. M. Filippi – E. Monacelli, in M. Filippi – E. Monacelli, Divenire invertebrato. Dalla grande scimmia all’antispecismo viscido, Ombre Corte, Verona 2020, pp. 62-106. [6] Usiamo qui il termine molto genericamente, proprio nella sua contrapposizione all’altrettanto generica categoria di natura. [7] D. Haraway, Le promesse dei mostri, cit., p. 95. Una applicazione di questi assunti è per esempio nell’analisi del video-documentario Dulce Convivencia/Sweet Gathering (2005) di F. Gómez Martínez, sulla produzione di zucchero di canna grezzo nella comunità Mixe di Oaxaca in Messico, fatta da L. Smith in Decolonizing Hybridity: Indigenous Video, Knowledge, and Diffraction, «Cultural Geographies», Vol. 19, N. 3, 2012, pp. 329-348. Smith evidenzia come, nei discorsi sulle pratiche locali, gli indigeni siano spesso privati della loro agentività politica, secondo una visione che contrappone l’autenticità del nativo alle tecnologie della civiltà occidentale. Una visione che non perde di vista le mediazioni tecnologiche, in questo caso l’assemblaggio complesso nativo-videocamera-popolazione locale-audience globale, permette di abbandonare una simile politica della rappresentazione e passare invece a una «politica delle interferenze», in grado di articolare prospettive e verità sempre parziali e contingenti. [8] J. Lane, Digital Zapatistas, «The Drama Review», Vol. 47, N. 2. 2003, pp. 129-144. [9] B. de Sousa Santos cit. in A. Deem, Mediated Intersections of Environmental and Decolonial Politics in the No Dakota Access Pipeline Movement, «Theory, Culture & Society», Vol. 36, N. 5, 2018, p. 119. [10] P. Rudan, Quello che Marx non ha visto, intervista a S. Federici, «Sconnessioni precarie», 30 Gennaio 2020, disponibile all’indirizzo https://www.connessioniprecarie.org/2020/01/30/silvia-federici-quello-che-marx-non-ha-visto/ [11] Si veda per esempio la discussione sulla piattaforma digitale Decidim in A. Calleja-López – X. E. Barandiaran, – A. Monterde, Dalle reti sociali alle reti (tecno)politiche. Reti di terza generazione per la democrazia del XXI secolo, in D. Gambetta, a cura di, Datacrazia. Politica, cultura algoritmica e conflitti al tempo dei big data, D Editore, Ladispoli 2018, pp. 350-361. Vedi anche la «tecnologia conviviale» proposta come antidoto alla tecnofobia da Ippolita in Nell’acquario di Facebook. La resistibile ascesa dell’anarco-capitalismo, Ippolita net, 2012, disponibile all’indirizzo https://www.ippolita.net/nell-acquario-di-facebook/ [12] V. Graziano – Z. Romano – S. Cangiano – M. Fragnito – F. Bria, Rebelling with Care. Exploring Open Technologies for Commoning Healthcare, We Make & Digital Social Innovation, 2019, disponibile all’indirizzo https://syllabus.pirate.care/library/BROWSE_LIBRARY.html#/book/7fd5acf6-c53d-42b8-9a60-31d94cd1b11b; [13] S. Federici in P. Rudan, op. cit. [14] S. Federici - N. Cox, Contropiano dalle cucine, in S. Federici, Genere e capitale, cit., pp. 15-31. [15] Ivi, p. 17. [16] Per esempio in G. Gaard, Reproductive Technology, or Reproductive Justice?An Ecofeminist, Environmental Justice Perspective on the Rhetoric of Choice, «Ethics and the Environment», Vol. 15, No. 2, 2010, pp. 103-129; K. Price, What is Reproductive Justice? How Women of Color Activists Are Redefining the Pro-Choice Paradigm, «Meridians: Feminism, Race, Transnationalism» Vol. 10, N. 2, 2010, pp. 42–65; H. Hester, (Ri)produrre future senza futurità. Ecologie xenofemministe, trad. it. LesBitches, 2016, disponibile all’indirizzo https://lesbitches.wordpress.com/tag/helen-hester/; A. Clarke – D. Haraway, a cura di, Make Kin not Population. Reconceiving Generations, Prickly Paradigm Press, Chicago 2018; J. Mae Hamilton, The Future of Housework: The Similarities and Differences Between Making Kin and Making Babies, «Australian Feminist Studies», Vol. 34, N. 102, 2019, pp. 1-22; O. Fiorilli, Make Kin not Babies o giustizia riproduttiva? Note per una politica transfemminista della riproduzione, «Liberazioni», N. 42, 2020, pp. 52-60; A. Balzano, Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane, Meltemi, Milano 2021. [17] S. Federici - N. Cox, cit., p. 30. [18] Nick Dyer Whiteford, Cyber-proletariat. Global Labour in the Digital Vortex, Pluto Press, London 2015; D. Fisher – C. Fuchs, a cura di, Reconsidering Value and Labour in the Digital Age, Palgrave MacMillan, Houndmills, Basingstoke 2015. [19] J. Wajcman, Feminism Confronts Technology, Polity, Cambridge 1991; D. Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 1995; J. Terry – M. Calvert, a cura di, Processed Lives. Gender and Technology in Everyday Life, Routledge, London & New York 1997; C. Cossutta – V. Greco – A. Mainardi – S. Voli, a cura di, Smagliature digitali. Corpi, generi e tecnologie, Agenzia X, Milano 2018. [20] Si veda tutto il lavoro di Ruha Benjamin in proposito, a partire da Race after Technology, Polity, Cambridge 2019. [21] Ricordiamo che il cyborg nasce come progetto specista (i primi sperimenti per la sua formulazione furono effettuali su un topo innestato con una pompa osmotica) e patriarcale, destinato a creare un «maschio», piuttosto che un essere umano generico, liberato dal peso del corpo e del legame con la terrestrità e lasciato libero di esplorare lo spazio. Vedi: M.E. Clynes – N.S. Kline, Cyborgs and Space, in C. Habels Gray, a cura di, The Cyborg Handbook, Routledge, London & New York 1995, pp. 29-33. Per le intersezioni fra tecnologie e specie vedi: D. Haraway, Testimone-modesta@FemaleMan-incontra-Oncotopo™, a cura di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 2000; L. Birke, Structuring Relationships: On Science, Feminism and Non-human Animals, «Feminism & Psychology», Vol. 20, N. 3, 2010, pp. 337-349; S. Franklin, Dolly Mixtures. The Remaking of Genealogy, Duke University Press, Durham & London 2007. [22] A. Balzano, op. cit. [23] Per Federici il corrispettivo maschile, ma privilegiato, della strega: S. Federici, Calibano e la strega, Mimesis, Milano 2015. [24] O. Fiorilli, op. cit. [25] Vedi C. Smith-Rosenberg – C. Rosenberg, The Female Animal: Medical and Biological Views of Woman and Her Role in Nineteenth-Century America, «The Journal of American History», Vol. 60, No. 2, 1973, pp. 332-356; H. A. Washington, Medical Apartheid: The Dark History of Medical Experimentation on Black Americans from Colonial Times to the Present, Doubleday, New York 2007; A. Clarke – D. Haraway, op. cit. [26] M. Pasquinelli, L’algoritmo PageRank di Google: diagramma del capitalismo cognitivo e rentier dell’intelletto comune, «Sociologia del lavoro», n. 115, 2009, pp. 153-163. [27] K. Jarrett, Feminism, Labour and Digital Media. The Digital Housewife, Routeldge, London & New York 2015. [28] S. Federici, Femminismo riproduzione e funzione della tecnica, in S. Federici, Genere e capitale, cit. p. 89. [29] Cosa avvenuta, del resto, anche relativamente alle tecnologie informatiche, dato che le prime programmatrici dell’ENIAC (Electronic Numerical Integrator and Computer) erano considerate piuttosto alla stregua di segretarie, nonostante molte di loro fossero dottori di ricerca, e le loro competenze lavorative totalmente invisibilizzate. Per una interessante lettura della sovrapposizione del personale e del pubblico in relazione al computer, si veda per esempio P. Atkinson, The Curious Case of the Kitchen Computer: Products and Non-Products in Design History, «Journal of Design History», Vol. 23, N. 2, 2010, pp. 163-179. [30] R. Schwartz Cowan, The "Industrial Revolution" in the Home: Household Technology and Social Change in the 20th Century, Vol. 17, N. 1, 1976, pp. 1-23; A. Chasin, Class and Its Close Relations: Identities among Women, Servants, and Machines, in J. Halberstam – I. Livingston, a cura di, Posthuman Bodies, Indiana University Press, Bloomington & Indianapolis, 1995; pp. 73-96; J. Davis, Siri: Intersections of Gender, Economy and Technology, «Cyborgology», 24 Ottobre 2011, disponibile all’indirizzo https://thesocietypages.org/cyborgology/2011/10/24/siri-intersections-of-gender-economy-and-technology/ [31] S. Federici, Femminismo riproduzione e funzione della tecnica, cit. Nel contesto della teoria dei medi, simili preoccupazioni animano le letture apocalittiche delle nuove tecnologie sociali di una tecnoentusiasta della prima ora, poi pentita, come Sherry Turkle. [32] H. Hester, op. cit; F. Timeto, Intelligenze artificiali incorporate. Macchine femmina e relazioni di genere umano-macchiniche nel cinema e nella televisione contemporanei, in S. Antosa – M. Lino, a cura di, Sex(t)ualities. Morfologie del corpo tra visioni e narrazioni, Mimesis, Milano 2018, pp. 201-229. [33] Vedi a questo proposito l’interessante commento artistico sul tema della meccanicità del lavoro riproduttivo di Addie Wagenknecht in Optimization of Parenthood, part II, 2019, https://vimeo.com/89727049 [34] A. Balzano, op. cit. [35] S. Federici, Il Capitale e la sinistra, in S. Federici, Genere e capitale, cit., p. 37. [36] T. Battacharya, Introduction. Mapping Social Reproduction Theory, in T. Battacharya, a cura di, Social Reproduction Theory. Remapping Class, Recentering Oppression, Pluto Press, London 2017, p. 5. [37] A partire da C. Arruzza – T. Bhattacharya – N. Fraser, Femminismo per il 99%. Un manifesto, Laterza, Bari 2019. [38] Diversamente dall’ecovegfemminismo e come invece, secondo B. M. Koinor, fa anche lo xenofemminismo, che seguendo l’accelerazionismo cosiddetto «di sinistra», nonostante le premesse sul potenziale d’alienazione delle nuove tecnologie per la creazione di nuovi mondi, non spinge la propria riflessione in una direzione trans-specie, relegando i viventi non umani al versante della natura (e mantenendo dunque il dualismo naturale vs. tecnologico). Non così invece il cyberfemminismo, che dalla rottura del confine umano-animale oltre che umano-macchinico teorizzata da D. Haraway arriva fino alle più recenti teorizzazioni del «divenire-con» le specie compagne. Vedi B. M. Koinor, Estetica aliena. Xenofemminismo e animali non umani, trad. it. LesBitches, 2017, disponibile all’indirizzo https://lesbitches.wordpress.com/2017/03/03/estetica-aliena-xenofemminismo-e-animali-non-umani/; D. Haraway, Chthulucene, cit. [39] M. Kusanagi, Vite diseguali: forza lavoro animale e capitale di specie (Social Reproduction Feminism parte III), «Technoculture Research Unit», 15 Maggio 2019, disponibile all’indirizzo http://www.technoculture.it/antispecismo-e-social-reproduction-feminism/ [40] S. Federici, Femminismo, riproduzione e funzione della tecnica, cit., p. 88. [41] D. Haraway, Manifesto cyborg, cit., p. 117. [42] S. Federici, Dal comunismo ai commons: una prospettiva femminista, in S. Federici, Genere e capitale, cit., p. 95. [43] Un’utile analisi tecnosociale in riferimento alla attuale pandemia è nell’editoriale di R. Horton recentemente apparso su «The Lancet» e commentato in E. Peralta, The Lancet: Covid-19 non è una pandemia, ma una sindemia, «Il periodista», 1Ottobre 2020, disponibile all’indirizzo https://www.ilperiodista.it/post/covid-non-e-una-pandemia-scrive-the-lancet?fbclid=IwAR0OwEtIOaYyXDtzBMj5T6RiEYSyfHeiZx3yM_j99Mmh2fp0nH3j4EVJJHA [44] S. Federici in P. Rudan, op. cit. [45] Per questo, secondo Dyer-Whiteford, un’analisi «estetica» del semiocapitalismo contemporaneo à la Bifo non offre soluzioni adeguate.

Comments


bottom of page