top of page

Controindagini forensi: considerazioni a partire dal G8 di Genova

 Intervista a Carlo A. Bachschmidt

Armin Linke, Carlo Giuliani, G8 Summit, piazza Gaetano. Courtesy of the artist and Vistamare gallery
Armin Linke, Carlo Giuliani, G8 Summit, piazza Gaetano. Courtesy of the artist and Vistamare gallery

 

Il G8 di Genova è stato, per certi versi, un punto di svolta nella storia della vita politica in Italia. Dopo i fatti di Genova è cambiato il rapporto tra le persone e lo spazio pubblico, così come la percezione delle forze dell’ordine: da attori che formalmente si presentavano come garanti della sicurezza collettiva, hanno mostrato con sempre maggiore evidenza il loro ruolo di forze di repressione. In altri termini, in occasione del G8 di Genova, per utilizzare le parole di Carlo Bachschmidt, «è stato definito un limite oltre il quale il cittadino diventa un nemico» [1].

 

Ma il G8 di Genova lascia in eredità anche un’altra prospettiva: come sia possibile indagare l’operato delle autorità e smascherarne le menzogne utilizzando le stesse tecnologie impiegate per controllare e reprimere.

Seguendo dunque una prospettiva secondo la quale la tecnologia non è vista come una minaccia ma come una possibilità per ribaltare lo sguardo forense [2] e proporre contronarrazioni, l’intervista prova a tracciare un percorso che dalle giornate di Genova arriva ai giorni nostri individuando affinità e differenze, contesti e prospettive delle controindagini forensi. (C.V.M.G.)

 

***


[C.V.M.G.]: Anzitutto grazie di avermi concesso questa intervista.

Puoi presentarti brevemente spiegando la tua formazione e attività prima, durante e dopo i fatti del G8 di Genova. Dalla collaborazione con il Renzo Piano Building Workshop di Genova alle consulenze forensi per i processi post G8?


[C.A.B]: Nato e cresciuto a Genova, mi sono formato come architetto, collaborando già da studente con il Renzo Piano Building Workshop. Dopo la laurea, ho intrapreso un percorso professionale nell’ambito della comunicazione, dedicandomi inizialmente all’ideazione e allestimento di iniziative collaterali alle mostre di Palazzo Ducale, in seguito, nel Terzo Settore, curando l’organizzazione e promozione di campagne sociali rivolte ai giovani.

Alla fine degli anni ’90 facevo parte di un’associazione di ricerca e comunicazione sociale e nel 2000, in vista del G8 di Genova, insieme ad Arci Liguria e al Centro sociale Zapata, abbiamo dato vita al percorso del Genoa Social Forum genovese, che ha poi assunto una dimensione nazionale e internazionale, diventando il coordinamento delle 1.187 organizzazioni che si opponevano al Vertice. In tale occasione ho assunto il ruolo di responsabile della segreteria organizzativa del GSF. Dal 2002 la mia esperienza è proseguita con il Genoa Legal Forum (GLF), il coordinamento informale di avvocati nato per garantire una difesa legale ai manifestanti indagati e la possibilità per le parti offese di essere risarcite. In quel contesto, sono stato referente della Segreteria legale del GLF, un gruppo di militanti, tutti nominati consulenti tecnici di parte, a supporto del lavoro degli avvocati.

Questo lavoro, nato inizialmente per finalità processuali, si è progressivamente trasformato in produzione audiovisiva. Tra il 2003 e il 2009, come Genoa Legal Forum, abbiamo realizzato alcuni video indipendenti e, nel 2010, ho esordito come regista con il cortometraggio Janua, seguito l’anno successivo dal documentario Black Block, menzione speciale alla 68ª Mostra del Cinema di Venezia. Negli anni ho continuato a scrivere e dirigere documentari a sfondo politico e sociale: La Provvista, sul blitz alla scuola Diaz; La Scelta, sulla resistenza No TAV; Persone, sull’ex manicomio di Roma.

Per quanto riguarda la mia attività sui processi legati al G8, ho curato l’archiviazione e la sistematizzazione del materiale raccolto, rendendolo accessibile prima attraverso il sito www.processig8.org (ora visibile qui o qui), e successivamente, su consiglio di Haidi Giuliani, ho consegnato circa 300 faldoni cartacei degli atti processuali e la rassegna stampa sul G8 di Genova al Centro di Documentazione dei Movimenti «Francesco Lorusso - Carlo Giuliani» presso VAG61 a Bologna.

Oggi continuo ad approfondire l’analisi di immagini e video, intrecciando scrittura, ricerca e sperimentazione visiva con le nuove tecnologie offerte dall’intelligenza artificiale generativa.

 


Gli anni attorno al duemila sono stati un punto di grande fermento per quanto riguarda lo sviluppo dei media e delle telecomunicazioni: penso allo sviluppo di internet, a Indymedia, alla grande diffusione di macchine fotografiche e videocamere portatili.

Partendo proprio da questo contesto ti chiedo quale fosse il rapporto del Social Forum con queste innovazioni tecnologiche.

Era presente una riflessione – o dei tavoli di lavoro tematici – sul rapporto tra media, politica e cittadini che, riprendendo lo slogan «voi 8 noi 6 miliardi», fosse volta a mettere in luce la disparità che gia si avvertiva su questo tema?


Faccio una premessa sul contesto socio-politico degli anni ’90, un decennio segnato da profondi cambiamenti economici e sociali, aperto e chiuso da conflitti armati – pensiamo all’invasione del Kuwait e l’intervento NATO in Kosovo. Furono gli anni della riconversione industriale, della delocalizzazione della produzione e della finanziarizzazione dei mercati: eravamo nel pieno della cosiddetta globalizzazione.

Internet si stava affermando come infrastruttura di comunicazione globale, mentre le grandi corporation mediatiche consolidavano il loro potere nel definire una «verità» dei fatti valida per tutti. Allo stesso tempo, la tecnologia digitale – come le fotocamere e videocamere portatili – cominciava a circolare tra attivisti e cittadini comuni, democratizzando il racconto sulla vita reale.

Era il tempo in cui lo slogan «Don’t Hate the Media, Become the Media», ideato da Indymedia, si diffondeva come un invito all’azione. L’obiettivo era creare una piattaforma di informazione alternativa, aperta e partecipativa. Invece di limitarsi a criticare i media mainstream, attivisti e cittadini erano chiamati a produrre direttamente informazione, diventando essi stessi mezzi di comunicazione.

La tecnologia, in quegli anni, non era solo uno strumento, era un terreno di conflitto e sperimentazione, dove si giocava la partita dell’informazione, del potere e della partecipazione politica.

In quel contesto, il rapporto tra il movimento del Genoa Social Forum (GSF) e le nuove tecnologie era parte integrante della discussione interna. Si affrontava il tema dell’accesso diseguale all’informazione, e lo slogan «Voi 8, noi 6 miliardi» parlava anche di questo, di una frattura profonda tra chi detiene il potere di decidere e chi può solo subire, anche sul piano mediatico.

Il Genoa Social Forum però non era direttamente coinvolto in una riflessione strutturata su media e tecnologie, si limitò a definire una strategia comunicativa. Organizzò un proprio ufficio stampa e cercò di coordinare la comunicazione del movimento, consapevole della difficoltà a raggiungere la cosiddetta «opinione pubblica» e soprattutto ad affidarsi ai media del mainstream. Ha condiviso e lasciato spazio a chiunque volesse raccontare gli eventi, come il gruppo dei circa 33 registi italiani, coordinati da Francesco Maselli, che seguì tutte le manifestazioni e il public forum organizzato dal GSF.

Un discorso a parte merita Indymedia, vero e proprio caso internazionale di contro-informazione «dal basso», costruito da professionisti militanti: fotografi, videomaker, informatici. La sua presenza a Genova, nel luglio 2001, fu determinante. Indymedia Italia, nata nel 2000, si rivelò capace di raccontare ciò che accadeva con una rapidità e una pluralità di punti di vista che i media tradizionali non potevano e non volevano garantire.

A Genova, il centro media era ospitato nella scuola Diaz/Pascoli, messa a disposizione dal Comune. Indymedia occupava il terzo piano della Pascoli. Decine di attivisti, insieme agli hacklab italiani, hanno allestito in pochi giorni una rete tecnica funzionante con server, cablaggi e decine di postazioni. La Diaz fu così connessa ad internet, e divenne il centro media a disposizione del movimento.

Circa 500 media attivisti furono accreditati. Un gruppo lavorava senza sosta per risolvere problemi tecnici, rispondere alle richieste di informazioni e aggiornare il sito con notizie, foto e video. Almeno 200 fotografi e videomaker hanno documentato ogni momento delle giornate di luglio 2001, portando il materiale al centro media per il montaggio e la pubblicazione online quasi in tempo reale. Questo lavoro collettivo offriva una narrazione alternativa rispetto a quella proposta dai media tradizionali. Questa velocità era strategica, spesso i media tradizionali non avevano giornalisti sul posto o offrivano una copertura parziale degli eventi. La narrazione era plurale, un flusso orizzontale, partecipato, collettivo.

La presenza di Indymedia a Genova rappresentò una sfida diretta ai media tradizionali, costringendoli a confrontarsi con una moltiplicazione di fonti e strumenti di informazione. Spesso giornali e telegiornali utilizzarono i filmati di Indymedia senza citarla, coprendo addirittura il logo originale. La politica «no copyright» di Indymedia, valida solo per usi non commerciali, portò anche a dispute legali quando i contenuti venivano sfruttati a fini di lucro. L’esperienza di Genova segnò un’inversione nel flusso delle notizie. Sempre più spesso, le informazioni partivano dal web e venivano poi riprese dai media tradizionali e non più il contrario.

Fu un’esperienza di profondo cambiamento, che però negli anni Duemila è stata progressivamente assorbita dalle piattaforme social, gestite non da persone o comunità, ma dalle Big tech. Già allora era chiaro, la tecnologia non è mai neutra. È un terreno di conflitto, un dispositivo di potere, ma anche uno spazio di possibilità.

 


Immediatamente dopo la fine del vertice e dei fatti di Genova venne costituito il Genoa Legal Forum che fungeva sostanzialmente da spazio di condivisione, archivio e rielaborazione dei materiali in vista delle udienze. Penso per esempio ai montaggi multischermo con immagini e video amatoriali e ufficiali sincronizzati alle telefonate alla polizia e carabinieri o al video OP.

Ci puoi spiegare come hai/avete scelto e, per certi versi, «brevettato» le metodologie d’analisi, di produzione e presentazione delle prove, all'epoca innovative e sperimentali? Quali erano le esigenze di sviluppare queste tecnologie? Riguardando i video, sembra che la necessità fosse quella di sincronizzare materiali diversi riferiti a un momento preciso – un po’ come tentare di guardare lo stesso punto da diverse angolazioni nello stesso momento.

Che impatto hanno avuto queste metodologie sulle successive tecniche «ufficiali» di analisi video?


Anche in questo caso una breve premessa per meglio comprendere il contesto in cui ho lavorato. Dopo luglio 2001, ho seguito le vicende dei primi arrestati e tenuto i contatti con i media di movimento, ricevendo centinaia di testimonianze, foto e video. Ho così deciso di raccogliere tutto il materiale che veniva prodotto in quei mesi affinché non andasse disperso e potesse essere così utilizzato dagli avvocati che nel frattempo avevano dato vita al coordinamento informale del Genoa Legal Forum, nato per assicurare ai manifestanti indagati una difesa efficiente e alle persone che avevano subito violenze, la possibilità di essere risarcite per i danni subiti.

Così, nel gennaio 2002 ho attivato la Segreteria Legale del Genoa Legal Forum, uno spazio comune dove circa 150 avvocati hanno condiviso strategie processuali, atti, video e fotografie. Tale materiale è stato poi visionato e analizzato dai consulenti tecnici per le udienze dei tre gradi di giudizio.

Vengo nominato Consulente tecnico di parte (CTP), e sino al 2004 inizio a raccogliere, analizzare e archiviare tutta la documentazione video-fotografica e cartacea relativa alle giornate del G8. Dal 2004 al 2008, nella Segreteria Legale, hanno lavorato circa 10 persone, tutte nominate consulenti tecnici, che hanno supportato il lavoro degli avvocati nella difesa di circa 100 imputati e 300 parti offese. Dal 2008 al 2011 ho seguito le fasi processuali dell’Appello e Cassazione.

Oltre al lavoro di archiviazione, durante i processi, dal 2004 si sono prodotte a dibattimento diverse memorie e/o consulenze tecniche (CT) sulla ricostruzione dei fatti visibili su YouTube.

Abbiamo contribuito a sviluppare una metodologia d’analisi e presentazione delle prove che, per l’epoca, erano tanto innovative quanto sperimentali, una vera e propria «forensic investigation militante». La metodologia che abbiamo messo a punto è stata la ricostruzione degli eventi attraverso montaggi video multiquadrante che integravano molteplici fonti e punti di vista, sincronizzati temporalmente. L’obiettivo era visualizzare simultaneamente ciò che accadeva da diverse angolazioni o in momenti contigui, offrendo una visione complessa ma leggibile dei singoli episodi.

Ci siamo trovati a lavorare con una vasta mole di materiali in formati diversi, sia analogici (VHS) che digitali (MiniDV). I video VHS venivano digitalizzati per poter essere processati. Una peculiarità fondamentale dei video digitali (MiniDV) era la presenza del «datacode», un codice numerico che indicava l'ora esatta di registrazione (ore, minuti, secondi e frame). Questo ha permesso una ricostruzione temporale precisa degli eventi. Per allineare filmati provenienti da diverse fonti e privi di datacode (come i VHS), la sincronizzazione veniva ottenuta individuando e allineando «eventi visivamente apprezzabili» comuni a più riprese, come ad esempio il lampo di un flash. Anche le registrazioni audio (comunicazioni radio di Carabinieri e Polizia, telefonate al 112, 113 e 118, dirette radiofoniche di Radio GAP e Popolare) venivano analizzate e sincronizzate con i video.

Il montaggio video veniva diviso graficamente in quattro quadranti, riducendo le dimensioni dei singoli filmati per consentirne la visione simultanea, come in una composizione a mosaico capace di mostrare la stessa scena da angolazioni diverse. Queste tecniche hanno permesso di ricostruire non solo la dinamica dell’azione, ma scoprire anche dettagli che sono emersi a dibattimento.

A titolo esemplificativo, l’ingrandimento di foto e video relativi alla carica in via Tolemaide contro il corteo dei Disobbedienti ha permesso di accertare che i Carabinieri erano dotati, oltre ai tonfa d’ordinanza, anche di mazze di ferro rivestite con nastro nero. Un altro caso di rilievo processuale riguarda la ricostruzione della dinamica del blitz effettuato dalla Polizia e del successivo lasso di tempo in cui furono introdotte all’interno della scuola Diaz le due bottiglie molotov, inizialmente verbalizzate come reperti rinvenuti nei locali della scuola stessa.

L'obiettivo era far emergere una ricostruzione dei fatti alternativa rispetto a quella proposta dalla Polizia. Di fronte alla disorganizzazione e alla mancanza di coordinamento nella gestione dell’ordine pubblico da un lato e all’intenzionalità di contrastare in modo risolutivo i manifestanti dall'altro, si rendeva fondamentale offrire una rappresentazione documentata, credibile, basata su prove oggettive e in grado di reggere in sede processuale.

Parte di questo lavoro è stato reso pubblico durante i processi. La Segreteria Legale ha prodotto diversi video documentari sulla ricostruzione emersa durante le udienze: «Diritti negati», «Legittima difesa», «Frame G8» ed il più noto «OP Ordine Pubblico», uscito nel 2007. È la ricostruzione della carica dei Carabinieri al corteo autorizzato dei disobbedienti in via Tolemaide attraverso la testimonianza in aula delle sole FFOO.

A seguito di questi lavori, ricordo che già nel 2011 alcuni ricercatori del Politecnico di Milano ci proposero una sorta di «Google Earth del G8», una mappa multimediale pensata per organizzare e visualizzare i documenti acquisiti durante i processi nei luoghi chiave della città, non solo la scuola Diaz e la caserma di Bolzaneto, ma soprattutto le manifestazioni del 20 e 21 luglio 2001.

Avevamo già sperimentato, nel 2008, una ricostruzione 3D dell’irruzione alla Diaz, un’animazione realizzata incrociando i racconti delle parti offese con quelli di alcuni agenti di Polizia (visibile al minuto 17.20 del documentario La Provvista. È stata, in un certo senso, una prosecuzione della mia formazione in architettura, applicata però nel contesto forense.

Oggi, grazie agli strumenti attuali, oltre a poter elaborare una grafica più avanzata, sarebbe possibile sincronizzare quei modelli con video e fotografie, rendendoli ancora più efficaci e fruibili in ambito giudiziario. Tutti i documenti sono ormai in formato digitale e facilmente sincronizzabili tra loro. Esistono inoltre software di elaborazione dell’immagine in grado di fornire informazioni impensabili con i formati analogici del 2001: dall’estrazione di metadati dettagliati (come autore, modello della fotocamera, lunghezza focale), alla possibilità di ricavare misure ambientali, stimare l’altezza di una persona o decifrare testi sfocati.

Nonostante l’innovazione introdotta dalla Segreteria Legale del GLF, secondo la mia esperienza di consulente tecnico in altri processi a difesa dei manifestanti, ho potuto constatare come, nel corso degli anni, le tecnologie abbiano progressivamente favorito la Polizia nell’identificazione dei manifestanti, molti dei quali sono poi stati rinviati a giudizio. Inoltre, diversamente da quanto accaduto durante il G8 di Genova, gli operatori della Polizia Scientifica sono diventati veri e propri professionisti, filmando con mano ferma, riducendo al minimo le interruzioni e documentando le azioni in modo continuo, passando dal un campo largo al dettaglio. A ciò si è aggiunto l’impiego sempre più sistematico di body cam e droni, ormai utilizzati in quasi ogni contesto operativo.

Durante questi anni ho lavorato nei processi NoTav (2012), sulla manifestazione contro Expo di Milano (2015) e su quelle degli antifascisti per contrastare i comizi di Casa Pound (2019). I video di cui disponevo erano moltissimi: negli anni si sono aggiunti quelli dei cellulari, di molte telecamere fisse in città, dei media che realizzano dirette in streaming (vedi Local Team). Nelle consulenze tecniche ho usato quasi prevalentemente i girati della Polizia. I loro filmati sono stati sufficienti per ricostruire visivamente tutta l’azione, sia per il numero di operatori dispiegati sul territorio, sia per la qualità dell’immagine.

Servirebbe una maggiore consapevolezza delle potenzialità degli strumenti tecnologici durante le manifestazioni e del loro possibile utilizzo in sede processuale. Esistono oggi realtà europee, come Forensic Architecture, all’avanguardia nella ricostruzione di contesti processuali complessi, che operano con un approccio scientifico e multidisciplinare. In Italia, invece, manca una reale capacità di organizzare delle contro-inchieste strutturate, tutto viene lasciato nelle mani degli avvocati, costretti spesso a colmare l’assenza di partecipazione e supporto da parte del movimento.

 


Che ruolo hanno avuto i materiali prodotti dai cittadini nella confutazione delle narrazioni delle forze dell’ordine e delle istituzioni? Che contributo hanno dato al vostro lavoro Indymedia e altre realtà simili?


L’archivio della Segreteria Legale del GLF era composto da materiali in diversi formati, raccolti e organizzati a fini processuali per seguire i procedimenti giudiziari scaturiti dai fatti di luglio 2001. Era strutturato in due sezioni principali: una audiovisiva (foto, video, audio) e una cartacea (atti processuali e rassegna stampa).

La parte audiovisiva comprendeva circa 1.350 ore di video, 80.000 fotografie e 18.000 registrazioni audio. Queste ultime includevano le comunicazioni radio dei Carabinieri e della Polizia, le chiamate al 112, 113 e 118 nei giorni del 20 e 21 luglio 2001, nonché le dirette radiofoniche di Radio GAP e Radio Popolare del 21 luglio.

I documenti provenivano da due fonti principali:

1.    Gli atti d’indagine della Procura di Genova;

2.    Il materiale raccolto direttamente dal Genoa Legal Forum.


La parte più consistente era quella della Procura. L’archivio del GLF, invece, gestito come archivio privato, conteneva prevalentemente video (circa 550 ore) e fotografie (circa 50.000) prodotti da videomaker di movimento, registi, operatori della televisione nazionale e agenzie stampa.

A completare l’archivio del GLF, una rassegna stampa composta da 6.275 articoli, pubblicati tra il 2000 e il 2011 sui principali quotidiani nazionali e locali, conservati in 46 faldoni.

I materiali della Procura sono stati archiviati in 260 faldoni, comprendenti:

  • 18.000 file audio (per un totale di circa 300 ore);

  • 250 videocassette in formato VHS (circa 800 ore) contenenti riprese della Polizia (elicotteri, scientifica, telecamere montate su caschi e fisse su strada);

  • 120 repertori fotografici, per un totale di circa 30.000 immagini.


A titolo esemplificativo, il processo per «devastazione e saccheggio» a carico di 25 manifestanti è documentato in 40 faldoni, per un totale di 25.504 pagine, 155 udienze e 210 testimonianze.

Tra i materiali della Procura, rivestono particolare interesse gli atti della Commissione Parlamentare d’Indagine Conoscitiva, che ha raccolto le audizioni di tutti i vertici della Pubblica Sicurezza, degli enti locali e dei membri del Governo. Oltre alla documentazione relativa alla formazione della Polizia in materia di ordine pubblico, sono state acquisite anche numerose informative dei due servizi segreti italiani. Tra le più note, ricordo l’informativa, inviata a tutti i massimi dirigenti di polizia, con la quale si preannunciava luogo, giorno e orario in cui si sarebbe incontrato il cosiddetto «black bloc», per dare inizio alle azioni dirette del 20 luglio 2001.


Una parte importante dell’archivio video-fotografico era costituito dal materiale prodotto da Indymedia.

Nel febbraio 2002, alcune «sedi» di Indymedia – tra cui il TPO a Bologna, il Cecco Rivolta a Firenze, il centro sociale Gabrio a Torino e la sede dei Cobas a Taranto – furono perquisite dalla Polizia, con conseguente sequestro di tutto il materiale visivo prodotto su Genova 2001. Questa azione repressiva, insieme a un più ampio “giro di vite” sui media alternativi, spinse collettivi come Autistici/Inventati a sviluppare infrastrutture server più robuste, distribuite e criptate (come il progetto Piano R) per tutelare i dati degli utenti e garantire la resilienza delle comunicazioni.

L’archivio video di Indymedia non fu utile soltanto alla Procura per rinviare a giudizio 25 manifestanti accusati di devastazione e saccheggio, ma – una volta analizzato dalla Segreteria Legale del GLF – permise soprattutto di ricostruire nel dettaglio la responsabilità della carica immotivata dei Carabinieri al corteo dei Disobbedienti: nessun lancio di pietre da parte dei manifestanti, ma una carica indiscriminata contro un corteo autorizzato di circa 10.000 persone, che provocò decine di feriti e costrinse il corteo a un arretramento violento di almeno 200 metri. Un episodio che rappresentò il prologo degli scontri esplosi nel pomeriggio del 20 luglio 2001 e culminati con l’uccisione di Carlo Giuliani. In quel contesto, alcuni dei video si rivelarono determinanti anche per l’assoluzione di 15 imputati sui 25 accusati di devastazione e saccheggio.

Anche nella ricostruzione del blitz alla scuola Diaz alcuni video chiave furono girati da Indymedia: tre riprese dalla scuola Pascoli, posta di fronte alla scuola Pertini, che, insieme alle riprese di Vincenzo Mancuso hanno permesso di accertare con assoluta chiarezza la dinamica dell’irruzione e della violenza successiva, definita «macelleria messicana» dal funzionario responsabile del reparto che l’aveva effettuata. La sincronizzazione di questi materiali ha chiarito in modo definitivo quanto accaduto: nessun manifestante oppose resistenza, lanciò oggetti dalle finestre o ostacolò l’ingresso della polizia. Al contrario, furono gli agenti a aver infranto i vetri delle finestre con i manganelli dopo aver sfondato il cancello del cortile e il portone d’ingresso della scuola Diaz/Pertini.

Il contributo di Indymedia è stato anche quello, dopo tre anni dal G8, di tornare a Genova per supportare per poco più di un anno l’attività della Segreteria Legale del GLF. In particolare ha strutturato l’ufficio di un server centrale per la condivisione di tutto il materiale digitalizzato che nel frattempo veniva raccolto e utilizzato dagli avvocati. Ha partecipato inoltre all’analisi iniziale dei documenti, mettendo a disposizione le proprie competenze informatiche e giornalistiche, e una volta avviati i processi, si è occupata anche di diffondere aggiornamenti costanti su quanto emergeva dalle udienze.

 


Le tue consulenze e i materiali che hai/avete prodotto e utilizzato sembrano richiamare le indagini di Forensic Architecture, INDEX, Border Forensic oppure dell’Evidence Lab di Amnesty International e altre agenzie simili, sia per l'intento sia per le metodologie impiegate. Pensi ci sia una connessione tra il tuo lavoro e queste agenzie?


Sì, penso che esista una forte connessione metodologica e politica tra il lavoro della Segreteria Legale del Genoa Legal Forum e quello di agenzie come Forensic Architecture. Sebbene Forensic Architecture sia stata fondata nel 2010, quasi un decennio dopo i fatti del G8 di Genova, le pratiche sviluppate dalla Segreteria Legale del GLF a partire dal 2002, secondo me, possono essere considerate pionieristiche nell’ambito di quella pratica che ho prima denominato forensic investigation militante.

Quali sono le connessioni? Il GLF e Forensic Architecture condividono l’intento di verificare e nel caso proporre contro inchieste alle versioni ufficiali, documentando con rigore scientifico le responsabilità istituzionali in episodi di violenza di Stato. Il GLF ha lavorato per garantire tutela legale ai manifestanti indagati e alle parti offese che avevano subito abusi, offrendo strumenti legali e documentali per il riconoscimento delle violazioni. Forensic Architecture lavora per conto di tribunali internazionali, ONG e media indipendenti, contribuendo con prove visuali ad azioni legali e inchieste pubbliche.

Il GLF ha raccolto e analizzato un archivio visivo senza precedenti nella storia dei movimenti sociali, sincronizzando filmati provenienti da diverse fonti in un’unica ricostruzione visiva multiquadrante. Forensic Architecture impiega tecniche analoghe con software GIS, modellazione 3D, mappe interattive, e sincronizzazioni tra droni, immagini satellitari e testimonianze dirette.

Il GLF ha lavorato su centinaia di video e foto raccolti da videomaker indipendenti e media di movimento (es. Indymedia), anticipando il paradigma del citizen evidence ora sistematizzato da Forensic Architecture, INDEX o dell’ Evidence Lab di Amnesty. Proprio Amnesty e altri progetti simili impiegano metodologie che il GLF aveva già sperimentato con la verifica dei metadati, geolocalizzazione e ricostruzione temporale degli eventi attraverso documentazione visiva.

Le consulenze tecniche della Segreteria Legale del GLF sono state molto utili per confutare le versioni della Polizia (es. le molotov alla Diaz) e per ottenere l’assoluzione di manifestanti accusati di devastazione e saccheggio. Forensic Architecture ha avuto le proprie prove ammesse in tribunale in diversi contesti internazionali (Corte penale internazionale, commissioni ONU, tribunali nazionali in Europa e Medio Oriente).

Sebbene non vi siano stati legami diretti, anche perché nate in tempi diversi, mi pare che si possa affermare che l’esperienza del GLF abbia anticipato molte delle pratiche oggi formalizzate nel campo della forensic analysis indipendente. Il GLF ha operato in un’epoca in cui la tecnologia digitale era ancora limitata, ma ha posto le basi per un uso critico e politico delle tecniche audiovisive, capaci di documentare scientificamente i fatti e costruire memoria.

Oggi agenzie come Forensic Architecture, INDEX o Border Forensics proseguono su quella stessa strada, adottando strumenti più sofisticati ma perseguendo un medesimo obiettivo: far parlare le immagini, gli spazi e le testimonianze, rendendo visibile ciò che il potere cerca di nascondere.

Dal G8 del 2001 a oggi, l’indagine forense su immagini e video ha subito un'evoluzione importante, sia sul piano tecnologico che metodologico.

Se al tempo dei processi G8 si lavorava su videocassette VHS, MiniDV e le prime fotografie digitali, e la sincronizzazione tra video poteva avvenire anche manualmente attraverso il confronto di eventi visivi coincidenti, oggi ci si muove in un contesto totalmente digitale, dove i dati sono sincronizzabili, geolocalizzabili e tracciabili in tempo reale, e le ricostruzioni si basano su metodologie multidisciplinari, che uniscono architettura, geografia, analisi dei media, giornalismo investigativo e intelligenza artificiale.

 


Mantenendo uno sguardo critico nei confronti della tecnologia, mi sposto verso un ambito molto delicato sul quale stai facendo ricerca e ti stai formando, ovvero le tecnologie AI.

Nonostante queste tecnologie vengano presentate come fredde e imparziali, nei loro algoritmi si celano criticità importanti derivanti dal contesto che le ha prodotte e le utilizza, sia nella fase di analisi che di «predizione», con impatti rilevanti sulle decisioni successive. Tenuto conto che oramai le AI toccano ogni ambito della vita delle persone – dalle più comuni attività quotidiane fino alle strategie nei teatri bellici – ti domando se esistono possibilità di resistenza e contronarrazione tramite gli stessi strumenti AI.


L’intelligenza artificiale non è neutra e non solo perché ogni tecnologia riflette le strutture sociali, politiche ed economiche che la generano, ma perché l’AI, più di qualunque altra innovazione precedente, mira a trasformare ciò che dovrebbe essere una semplice previsione in una decisione obbligata e l’analisi dei dati in un ordine da eseguire.

Dietro l’apparente freddezza degli algoritmi si nasconde una logica di potere che oggi modella ogni ambito della nostra vita. Dalla selezione dei candidati a un colloquio di lavoro al riconoscimento facciale negli aeroporti, dai conflitti militari alla gestione dei migranti alle frontiere d’Europa. Spesso le intelligenze artificiali non si limitano a suggerire, ma decidono, orientano, escludono, e soprattutto normalizzano, rendendo accettabile ciò che dovrebbe invece farci discutere.

Mi chiedi se possiamo usare questi stessi strumenti per resistere, per creare nuove narrazioni, nuove possibilità. Penso di sì, ma secondo me servirebbe tener presenti almeno tre sfide che non possiamo ignorare:

La prima è politica.

Bisogna sapere a chi appartiene, chi controlla gli algoritmi, chi stabilisce le regole, chi possiede i dati. Finché tutto questo resterà nelle mani delle multinazionali e/o nei server militari, parlare di «etica dell’AI» sarà solo un modo ipocrita per non disturbare l’ordine delle cose. La vera sfida è democratica, sarebbe necessario voler riconquistare controllo, trasparenza e proprietà collettiva.

La seconda è epistemologica.

Non è solo una questione di dati o numeri, ma di interpretazione: chi ha il potere di stabilire cosa è vero e cosa no? Ogni sistema di intelligenza artificiale generativa è costruito su ipotesi, bias (pregiudizi) e semplificazioni. Usare questi strumenti in modo critico significa riconoscerne le distorsioni, farle emergere, raccontarle. Le contraddizioni non sono errori, ma opportunità per approfondire la conoscenza.

La terza è culturale.

Possiamo e dovremmo usare l’AI per raccontare ciò che è stato dimenticato.Dare voce a chi è stato messo ai margini. Costruire archivi resistenti, che custodiscano storie, memorie, lotte. Un algoritmo può anche essere un archivio sovversivo, se a guidarlo non è il profitto ma il desiderio di ricercare la libertà.

Per farlo, però, servirebbe un’alleanza nuova interdisciplinare tra tecnici, filosofi, attivisti, artisti e cittadini. Servirebbe un nuovo linguaggio comune tra tecnologia, politica e società che sia in grado di contrastare il monopolio delle élite tecnocratiche della Silicon Valley e dei centri di comando militare. Forensic Architecture pare incarnare questa mission.

La tecnologia non è neutra, ed è proprio per questo che vale la pena continuare a sporcarsi le mani.

 


Essendo tu un consulente per analisi di meteriale audiovisivo in campo forense ti chiedo: alla luce del rapporto originale/falso riguardo a immagini e documenti – questione che in realtà è da sempre presente nel contesto forense, ma che con le AI sembra essere divenuto ancor più complesso e delicato – a che punto è attualmente il dibatitto italiano in materia di AI e scienza forense? Quali possono essere i possibili sviluppi dell’impiego delle AI in campo forense in Italia, tenendo conto anche dell’attuale governo e del suo rapporto con la tecnologia?


Il dibattito italiano sul rapporto tra intelligenza artificiale e scienze forensi mi pare ancora in una fase iniziale. Eppure il tema è urgente e di grande rilevanza processuale, perché tocca il fondamento stesso del lavoro forense, ovvero la distinzione tra vero e falso.  Nel contesto legale, i problemi legati all’autenticità, alla manipolazione e alla contestualizzazione di immagini e video sono noti da tempo. Ma con l’arrivo delle nuove tecnologie e dei suoi artefatti, come i deepfake e i sistemi generativi, il livello di complessità è aumentato. Accertare l’affidabilità di un documento visivo è diventato sempre più difficile. I contenuti generati artificialmente – come le voci ricreate, le immagini sintetiche – non solo mettono in crisi le metodologie tradizionali di verifica, ma, forse, anche il concetto stesso di prova visiva.

L’Italia si muove in linea con il quadro europeo, in particolare con l’AI Act e le normative sulla protezione dei dati personali. Il confronto nazionale ruota attorno a come tradurre queste cornici regolatorie nel contesto specifico dell’attività forense. Un passo avanti è stato compiuto con l’approvazione, il 20 marzo 2025, di un disegno di legge che recepisce le indicazioni dell’AI Act europeo e stabilisce che gli strumenti basati su AI possano essere utilizzati in ambito forense solo come supporto tecnico. La legge vieta esplicitamente la sostituzione della elaborazione umana con quelle automatizzate. L’obiettivo dichiarato è quello di garantire la trasparenza degli strumenti impiegati e l’autonomia dei professionisti del settore. Nonostante il Piano Nazionale sull’AI e la partecipazione dell’Italia ai tavoli europei, mi pare che però manchi ancora una strategia organica sull’intelligenza artificiale in ambito forense. Il rischio è che strumenti potenti e sofisticati vengano introdotti senza un controllo epistemologico, giuridico e democratico adeguato.

Negli ambienti accademici e tra i consulenti più autorevoli (informatici forensi, esperti di imaging, fonica e biometria), cresce la consapevolezza delle potenzialità dell’AI, ma anche dei rischi. Tra i principali ambiti di studio emergono:

  • il rilevamento automatico di manipolazioni digitali e deepfake;

  • l’analisi semiautomatica di grandi quantità di video da sistemi di videosorveglianza, droni e bodycam;

  • la ricostruzione tridimensionale di scenari da fonti audiovisive eterogenee.


In altre parole, la tecnologia esiste, ma non sempre è riconosciuta o accettata come prova, proprio per l’assenza di una cornice normativa chiara. Oggi sono disponibili software basati su AI – per lo più proprietari e sviluppati da aziende private – in grado di offrire supporto nella trascrizione e sincronizzazione di contenuti audio-video, nell’analisi delle incongruenze nei metadati, nella ricostruzione di ambienti in 3D. Strumenti utili, certo, ma che comportano un rischio rilevante, quello di affidare a un algoritmo il compito di «interpretare» i dati, introducendo margini di soggettività in un ambito in cui è fondamentale garantire scientificità, trasparenza e replicabilità.

Per questo, la questione non è se usare o meno l’intelligenza artificiale in campo forense, ma come utilizzarla e, soprattutto, chi controlla questi strumenti. Non si dovrebbe delegare a software proprietari il compito di certificare una prova, servirebbero linee guida chiare, accesso al codice sorgente e documentazione trasparente. Servirebbe formare una nuova generazione di esperti forensi, capaci di dominare questi strumenti senza subirli. È dunque fondamentale che chi lavora nel settore forense partecipi attivamente al dibattito pubblico, non solo per condividere le tecniche investigative, ma anche per orientare le scelte politiche e istituzionali.

 


Forensic Architecture e l’Evidence lab di Amnesty International hanno dimostrato che le AI possono dare un contributo rilevante nelle indagini sulle violazioni dei diritti umani.

Quali sono le potenzialità e i rischi che vedi nell’impiego delle AI nel campo forense?

Ti è capitato di utilizzare queste tecnologie per le tue consulenze? Hai studiato casi in cui le AI sono state massicciamente impiegate per dare supporto alle indagini?


Da anni seguo con grande interesse il lavoro di Forensic Architecture (FA) che, insieme all’attività dell’ Evidence Lab di Amnesty International, ha dimostrato come l’intelligenza artificiale possa svolgere un ruolo decisivo nelle indagini su gravi violazioni dei diritti umani. Si possono ricordare due casi in particolare - l’indagine Triple Chaser e lo studio sul conflitto in Darfur - casi concreti in cui sono state impegate tecnologie AI in contesti investigativi e forensi.

Nel progetto Triple Chaser, realizzato nel 2019 in collaborazione con il sito investigativo «The Intercept», Forensic Architecture ha documentato l’utilizzo di granate lacrimogene prodotte dall’azienda statunitense Safariland in episodi di repressione in tutto il mondo. La sfida era la quantità di materiali, migliaia di video e immagini circolavano online, ma analizzarli uno a uno era impossibile. Forensic Architecture ha quindi sviluppato un modello di machine learning in grado di riconoscere automaticamente le granate nei frame video, anche in condizioni visive difficili, dove l’occhio umano non riesce ad arrivare. Il risultato è stato un database geolocalizzato e verificabile di utilizzi sospetti, messo a disposizione di giornalisti, attivisti e legali, un esempio concreto di come l’AI possa essere usata come strumento di contro-sorveglianza e documentazione indipendente.

Nel 2020, Amnesty International ha adottato un approccio simile per analizzare il conflitto nel Darfur occidentale. Il team di Evidence Lab ha addestrato un algoritmo per esaminare e classificare immagini satellitari, con l’obiettivo di individuare incendi, distruzioni sistematiche e segni di attacchi contro i villaggi. La tecnologia ha permesso di distinguere tra variazioni ambientali naturali e danni riconducibili ad azioni militari, producendo così una mappatura su larga scala delle violazioni, ben più ampia e approfondita rispetto a quanto sarebbe stato possibile con un’analisi umana manuale.

Questi casi non sono isolati. In altre indagini, come quella sull’esplosione al porto di Beirut nel 2020, Forensic Architecture ha utilizzato AI e machine learning per analizzare centinaia di video amatoriali, geolocalizzare automaticamente i frame, sincronizzare immagini e suoni e ricostruire con precisione forense la sequenza degli eventi. Lo stesso approccio è stato impiegato anche nel progetto Gaza Platform, realizzato con Amnesty, in cui l’AI ha permesso di incrociare dati su bombardamenti, comunicazioni militari, testimonianze e fonti social per ricostruire attacchi sistematici su aree residenziali durante l’operazione «Protective Edge» del 2014, fornendo così una prova di un possibile crimine di guerra.

Questi esempi dimostrano che, se impiegata in modo consapevole e trasparente, l’intelligenza artificiale può amplificare le capacità di indagine di soggetti indipendenti, soprattutto in contesti inaccessibili o ad alto rischio. Le tecnologie AI permettono di scalare l’analisi su milioni di dati visivi, riconoscere automaticamente pattern (oggetti, edifici distrutti, armamenti), correlare informazioni spaziali e temporali e costruire ricostruzioni attendibili da utilizzare in ambito giudiziario o giornalistico.

Tuttavia, l’utilizzo dell’AI in campo forense e investigativo pone anche degli interrogativi importanti. Il primo riguarda l’affidabilità dei dati. Se un algoritmo è addestrato su dataset incompleti o distorti, può generare falsi positivi, escludere prove cruciali o rafforzare visioni pregiudizievoli. Infine, c’è il rischio – non secondario – di delegare all’automazione scelte analitiche, considerando «neutrale» ciò che in realtà è frutto di decisioni tecniche, politiche e culturali. Questo può compromettere l’autonomia dell’analisi e la credibilità dell’intero processo investigativo.

Per tutte queste ragioni, l’intelligenza artificiale non può sostituire l’intelligenza critica dell’indagine. Dovrebbe restare uno strumento tecnico, utile a supportare il lavoro forense, ma – come si diceva prima – solo a condizione che sia accessibile, trasparente e sottoposto a controllo umano. Sono necessari strumenti open source, validazioni indipendenti e protocolli condivisi che garantiscano replicabilità e affidabilità.

Personalmente, non ho ancora utilizzato questi strumenti nelle consulenze tecniche, ma ho studiato con attenzione i casi internazionali resi pubblici da Forensic Architecture, apprendendone le metodologie. È un ambito in rapida evoluzione, che richiede competenze interdisciplinari e una forte attenzione alle implicazioni etiche e giuridiche. Forensic Architecture ha dimostrato che, se usata con rigore, consapevolezza e spirito critico, l’AI può diventare una risorsa preziosa al servizio della ricostruzione dei fatti.

 


Un po’ provocatoriamente ti chiedo: in che modo le AI impetteranno sugli spazi di libertà delle persone? Parlo di sorveglianza e di accesso a servizi e luoghi, della possibilità di vivere la propria vita liberamente – consci del fatto che tornare a una condizione pre-AI non è pensabile.


È vero, non si può tornare a un mondo «pre-AI». Le tecnologie di intelligenza artificiale sono ormai parte integrante del mondo in cui viviamo.

Ma la domanda che poni, secondo me, non riguarda tanto la presenza dell’AI nel nostro quotidiano, quanto lo spazio che decidiamo di concederle nella definizione di ciò che significa essere liberi.

Perché sì, c’è un rischio concreto che l’AI diventi lo strumento perfetto per rafforzare meccanismi di sorveglianza, condizionamento e controllo sociale. Già oggi viviamo alla presenza di infrastrutture che influenzano l’accesso a servizi, luoghi, informazioni. Il pericolo è quello di una società dove si possa entrare in una stazione, aprire un conto, votare o cercare lavoro solo se un algoritmo lo consente, sulla base di dati che spesso ci rappresentano parzialmente. In questo scenario, gli «spazi di libertà» rischiano di essere ridotti, piuttosto che riconosciuti come diritto inalienabile della persona.

Ma sarebbe un errore fermarsi a questa visione distopica, anche se esempi come la Cina mostrano chiaramente verso quale futuro potremmo andare.

L’AI non è soltanto una minaccia, è anche uno specchio. Una tecnologia che proprio perché ci osserva, ci valuta, ci imita, ci costringe a fare i conti con noi stessi, con le nostre scelte, i nostri automatismi, le nostre dipendenze. Può sembrare paradossale, ma è proprio la macchina a poterci rivelare cosa ci rende “prigionieri”: la paura, l’inerzia, l’auto-censura che ci impediscono di vivere una vita più libera, più affine ai nostri desideri profondi. In questo senso, l’intelligenza artificiale è una scommessa, non su di lei, ma su di noi.

È l’occasione per oltrepassare limiti che credevamo invalicabili. Per cercare nuovi modi di agire, esprimersi, creare, scegliere. Ma questo richiede una condizione irrinunciabile, il coraggio. Il coraggio di non subire la tecnologia come destino, di non accettare l’automazione come scorciatoia facile, di affrontare il conflitto, perché la tecnologia - come abbiamo detto - non è neutra, e non fa sconti a chi rifiuta di assumersi la propria responsabilità.

La vera sfida, dunque, non è difenderci dall’AI, ma sperimentarla con curiosità e consapevolezza. Usarla per ampliare la conoscenza di cosa sia l'essere umano, non per restringerla. Reinventare le regole, invece di subirle. Imparare a cercare dentro di noi ciò che nessuna AI potrà mai spiegare, il senso della nostra esistenza.

Solo così, forse, possiamo immaginare un futuro in cui le intelligenze artificiali non siano una nuova catena, ma una «soglia» che, se attraversata, possa restituirci ciò che è sempre stato proprio dell’essere umano, la ricerca di senso. Non fuori di sé, ma in noi stessi.

 


Note

[1] C. A. Bachschmidt, GE8. La cronistoria, consultabile su Machina.

[2] E. Weizman, Architettura forense. La manipolazione delle immagini nelle guerre contemporanee, Meltemi, Milano, p. 95.


***


Carlo A. Bachschmidt è Consulente Tecnico di Parte (CTP), specializzato in image e video forensics. Architetto di formazione, ha maturato competenze specifiche nella comunicazione visiva e nella regia documentaristica. Dal 2004 si occupa di analisi forense di materiali audiovisivi in ambito giudiziario, avendo redatto 27 consulenze tecniche discusse in sede dibattimentale.

Tra i casi di particolare rilievo si possono citare: l’irruzione alla scuola Diaz durante il G8 di Genova (2001), gli assedi al cantiere No TAV di Chiomonte (2011), le proteste contro Expo a Milano (2015), e le manifestazioni antifasciste contro i comizi di CasaPound a Genova (2020).

È esperto nella ricostruzione temporale e nella sincronizzazione di video, mediante l’elaborazione di montaggi multi quadrante basati sull’analisi dei metadati audiovisivi.

Ha conseguito una specializzazione in Criminalistica presso l’Università di Genova (2022) e in Intelligenza Artificiale presso l’Università di Urbino (2023). I suoi ambiti di ricerca includono: mobile forensics, analisi audio, trascrizioni, ricostruzioni tridimensionali e applicazioni dell’intelligenza artificiale in ambito forense per l’analisi di immagini e video.

Per Machina ha curato il volume GE8. La cronistoria.


Christian Vittorio Maria Garavello è curatore indipendente. Consegue la laurea magistrale in Architettura presso il Politecnico di Milano nel 2016 e nel 2021 il diploma accademico di II livello in Didattica dell'arte indirizzo Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l'Accademia di Belle Arti di Brera.

Le sue aree di ricerca ruotano attorno all'estetica e alla cultura visuale in relazione all'architettura. In particolare si occupa del rapporto tra immagini, violenza e politica, il ruolo sociale e politico delle forme di rappresentazione dello spazio, il ruolo sociale e politico delle mostre e degli spazi espositivi.

È membro del comitato di redazione de «La rivista di Engramma» rivista del centro studi ClassicA presso lo IUAV di Venezia e del Comitato dei Promotori del Premio Nazionale Arti Visive Città di Gallarate.

Attualmente sta curando, con Maurizio Guerri, l'edizione italiana del volume di Eyal Weizman e Matthew Fuller Investigative Aesthetics. Conflicts and commons in politics of truth per Krisis Publishing.


3 commenti


Il tuo casinò preferito sempre a tua disposizione. L'azione continua a Stanleybet Casino. Goditi un'esperienza di gioco fluida e ottimizzata per ogni dispositivo mentre giochi dal comfort di casa o in movimento. La nostra piattaforma ti consente https://stanleybetcasino.com/ di divertirti senza pensieri 24 ore su 24. Si prega di unirsi a noi e giocare quando vuoi. Gioca in modo responsabile.

Mi piace

Poppy Mis
Poppy Mis
18 ago

This is a lovely and informative article. In my opinion, the article provides useful information to the readers. Thank you very much for sharing this, I really appreciate it. You can also play new games in fireboy and watergirl.

Mi piace

La mia esperienza su Amunra Casino è stata davvero entusiasmante e soddisfacente. Il catalogo giochi è enorme con slot innovative e tavoli dal vivo coinvolgenti che ricreano l'atmosfera del casino reale. I bonus di benvenuto sono molto Amunra Casino Italia competitivi e le promozioni giornaliere mantengono alta la motivazione. La piattaforma è stabile, veloce e perfettamente ottimizzata per mobile. Il servizio clienti italiano è cordiale e sempre pronto ad aiutare. Transazioni sicure e prelievi puntuali.

Mi piace
bottom of page