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Riappropriarsi della propria «barbarie»

Estratto da Pisciare sulla metropoli. (T)rap, Islam e criminalizzazione dei maranza


Illustazione: Angelica Ferrara
Illustazione: Angelica Ferrara

Esce oggi per MachinaLibro, Pisciare sulle metropoli. (T)rap, Islam e criminalizzazione dei maranza di Tommaso Sarti, con una prefazione di Chadia Rodriguez.

Attraverso un lavoro di ricerca etnografico realizzato con trapper, rapper, attiviste, educatori, «teppisti» e l’analisi dei testi di artisti come Baby Gang, il libro prende in esame come la musica (t)rap, al pari dell’Islam reinterpretato dai giovani, possa essere uno strumento che permette di costruire identità collettive e pratiche di resistenza in contrasto con le classiche rappresentazioni e i processi di criminalizzazione degli arabo- e afro-discendenti.


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P: Sono loro che c’hanno la musica in mano ora, cioè non ce n’è perché sono i primi che dalla merda si sono tirati fuori così, cioè la musica loro l’hanno presa come metodo per sfogare la rabbia, per buttare fuori pensieri, per buttare fuori tutto, non vanno a chiedere ad altri i feat capito? Tipo guarda Ezza da quando stava là in Zamagna che ha fatto quella canzone tipo tramite delle associazioni così, cioè già là la gente ti guardava, faceva il video a questo ragazzo da questo quartiere che è un quartiere visto male, guardate come cioè a 13 anni ha già 'sta voce, fa 'ste rime […] fosse per me la canzone Casa andrebbe a Sanremo per farti capire, Keta pure anche lui è salito un po’ capito? Poi c’è Baby Gang, Baby Gang è quello che è visto come il delinquente-rapine, delinquente-rapine, così come fosse un criminale mafioso. Cioè lui comunque sotto sotto gliel’ha messa nel culo a quelli che lo giudicavano o a quelli che dicevano «bravo, bravo» ma sotto sotto cercano di tirarlo sempre più indietro capito? È così basta ormai i fatti l’hanno dimostrato non si può negarlo e dovrà ancora arrivare più roba di sicuro, cioè non tutti sono pronti ecco. Stralcio intervista realizzata sul campo milanese

Come accennato, è solo con l’arrivo della trap, negli anni Dieci del nuovo millennio, che iniziano a emergere i nomi di persone razzializzate, figlie e figli delle migrazioni degli anni Novanta che, una volta cresciuti, cominciano a reclamare a gran voce la propria esistenza:


[…] attraverso la musica […] queste minoranze si auto rappresentano, nominano istanze che le riguardano, costruiscono identità […] e pratiche di resistenza nei confronti di una società dominante». Belloni, Boschetti 2021, p.171

Ghali è il primo a raggiungere il grande pubblico, portando con sé suoni e parole arabe fino alle radio e alla televisione. Presto il rapper viene affiancato da una nuova generazione di artisti che, attraverso un’ulteriore evoluzione del genere, trovano nella musica lo strumento più efficace per rivendicare la propria storia e la propria alterità. Come ha osservato un ragazzo incontrato a Kayros: «sono loro che c’hanno la musica in mano ora […] l’hanno presa come metodo per sfogare la rabbia, per buttare fuori pensieri, per buttare fuori tutto» – rabbia e pensieri condivisi da tanti e tante giovani afrodiscendenti e arabo-discendenti italiani e italiane sparsi e sparse in tutto il paese.


P: Per me Baby, Simba e Neima, questi rapper qua lo fanno perché loro hanno un bisogno, cioè Baby comunque davvero è partito della povertà, anche Neima e anche Simba, cioè loro lo hanno fatto per essere ascoltati perché loro con la musica trasmettono delle cose, anche se non sembra loro trasmettono molte cose. Tipo Neima è il mio cantante preferito, cioè lui è un poeta […] le sue canzoni sono speciali, cioè davvero parlano di cosa hanno vissuto, di cosa hanno fatto e di cosa vorrebbero fare, lo fanno perché vogliono essere ascoltati e vogliono essere capiti, non è che lo stanno facendo per moda. Per quello per me la musica è uno strumento importante perché ci aiuta a trasmettere le cose che vogliamo dire, capito? Io non faccio musica, ma è un po’ quello che mi dicono gli altri, un po’ quello che vedo io, è uno sfogo e anche raccontare. Stralcio intervista realizzata sul campo milanese

In questo stralcio si coglie il passaggio dall’individualismo, che aveva segnato la prima scena trap, al ritorno di un «noi» collettivo che caratterizza la nuova ondata, capace di intercettare un «bisogno» e di dargli visibilità. Per i giovani con background migratorio e provenienti da contesti 122 popolari, fare rap significa ribaltare lo stigma, rivendicando quell’alterità con cui sono stati e state etichettati dall’Occidente concretizzando «[…] la realizzazione e l’evocazione delle sue fantasie razziste [dell’Occidente] […] sarà delinquente, spacciatore, assassino, animale. Sarà una figura del Male che hanno fatto, che ora torna per saldare i conti, per chiudere il cerchio» (Yousfi 2023, p. 56).


Si rischia tutto

Al bancone bevo col più brutto

Le fedine ci fanno da culto

Dammi il grano o finisce in un lutto

Okay, giovane pregiudicato

Allo Stato io mai sarò grato

8blevrai, Fame e Fama


Baby Gang incarna questa paura collettiva proprio perché nella sua figura rivendica lo stigma del Marocchino – titolo di una canzone del suo primo album – e del Delinquente – titolo del secondo album –, entrambi riferimenti diretti a stereotipi radicati nella tradizione italiana, dando forma concreta ad alcune delle paure più profonde e sedimentate del Paese. Come osservano Cingolani e Ricucci, già a partire dagli anni Novanta la percezione pubblica degli allarmi sociali si è fondata su specifiche provenienze geografiche, tratti somatici e appartenenze religiose, identificando nel Nord Africa, e in particolare nel Marocco, il volto dell’alterità: «[…] indistintamente l’alterità era rappresentata dai marocchini […] poco importava se in realtà fossero egiziani, tunisini […]» (Cingolani, Ricucci 2014, p. 4). I «marocchini», veri o presunti, sono finiti per rappresentare al meglio nell’immaginario italiano gli aspetti più problematici delle migrazioni: dai minori non accompagnati, alla devianza giovanile, alla microcriminalità, fino al fondamentalismo religioso.


Ero un marocchino mangia cous cous ora un marocchino pieno di flus

Baby Gang feat Il Ghost, Treni


E fa zanga zanga

Marocchi sono di Casablanca

Bambini in barca a Tangeri

Sognano di arrivare in Spagna

3arbi in Italia

Trabaja solo con la baida

Su un mezzo fra senza la targa

Baby Gang, Casablanca


Rimuovendo le nostre co-responsabilità nel mantenimento di un certo ordine politico, finiamo per convincerci che la violenza nasca dai cantanti e dai loro fan irresponsabili, anziché da un sistema politico ed economico fondato su una violenza strutturale dalla quale è quasi impossibile sottrarsi. Infatti, come osserva Saitta, «è ben possibile che la violenza giovanile nasca per imitazione […] lo fa perché risponde a bisogni indipendenti dai canali di trasmissione, preesistenti ai media di massa ed evidentemente connessi alla vita urbana sin dalla sua moderna conformazione» (Saitta 2023, p. 68).


Ero un pusher ora in Uber

Con due K nel sacchetto di Foot Locker

Mentre gli altri quattro K, destinazione in scooter

Facevo tappa a tappa, un K a testa a shooter

Ho visto un chilo di bamba poi ho visto tre anni e due

Poi stop, mi sono fermato, ho ricominciato

Quando ho capito che ce l’ha sempre data lo Stato

Baby Gang feat Salmo, 9.19


Eppure, come insegnano Marchi e Bourgois, il vero problema per il sistema non è la violenza in sé – quella che si consuma quotidianamente tra i dominati all’interno delle periferie, ignorata o spettacolarizzata dai media per rafforzare la distinzione tra «civili» e «barbari» – ma quando quella stessa violenza esce dai margini e irrompe nei luoghi della movida, intaccando il quieto vivere degli ignari e presunti «innocenti» consumatori.


P: Più che spingere è l’adrenalina, è la rabbia che ti fa dire ma perché io no e lui sì? Poi da piccolo con una certa maturità che è mancata rispetto ad ora, cioè dici perché questo ha le scarpe Versace e io ho le scarpe le Nike tarocche? Quindi inizi a fare tutti questi paragoni, poi anche con amici quando vai in centro e vuoi andare in posti belli, belli dico anche dove un drink costa 15, 18 euro, rispetto ai posti dove ti costa 5 euro dagli indiani così e ti dici ma perché devo andare là? Perché questo c’ha il giubbotto Moncler e io il giubbotto della Colmar tarocco preso al mercato a 20 euro? Però appunto la rabbia cresce, poi sui social figurati perché vedi ancora più cose così. E quindi quando appunto ti partiva lo schizzo, quando l’adrenalina saliva ti volevi sfogare appunto, ovviamente non ti mettevi a pensare se lo faccio…cioè non si pensava alle conseguenze, tu nella tua testa puntavi quella cosa come fosse un obiettivo, andavi la prendevi e basta era così cioè era questa la tematica. Stralcio intervista realizzata sul campo milanese

Quando l’emarginato della periferia rivendica il centro della città per godere di quella bellezza, di quello svago e di quella possibilità, «[…] sempre a tre autobus o a quindici fermate di metropolitana di distanza, e sempre a condizione di avere soldi a sufficienza» (Marchi 2021, p. 31), si attiva allora la sindrome di Andy Capp: «finchè si sgozzano e accoltellano tra loro passi […] ma che non lo facciano sotto le nostre case, nelle nostre strade, nei nostri territori» (Marchi 2021, p. 32).


Fermi tutti questa è una rapina

Non voglio sentire qua parlare troppo

Alla tua pussy stacco collanina

Al tuo amico grosso lo metto in ginocchio

Non fa più il grosso davanti a un mitra

Sta zitto in silenzio come un finocchio

Non è per moda come i bimbi minchia

Che lo fanno per moda per me era bisogno

Baby Gang feat Neima, Rapina


Alcott, Zara, Bershka rubavamo i vestiti

Con gli antitaccheggi lasciati nei camerini

Era tiki taka, gli africani ed i magrebini

Eravamo tutti poveri ma eravamo ben vestiti

Baby Gang, Alcott, Zara, Bershka


Infine, «[…] dalla prospettiva di chi partecipa alla scena il rapporto con la violenza è normalizzato (e non stigmatizzato) e la musica diventa uno strumento per esprimere allo stesso tempo un’estetica violenta e un’estetica della violenza » (Molinari, Borreani 2021, p. 79) che collega i giovani a livello transnazionale, accomunati dalla conoscenza della violenza razzista e capitalista, offrendogli un’identità plurale in grado di opporsi al ricatto dell’integrazione subalterna. Ed è proprio all’interno di questo panorama che l’Islam s’incontra con la musica di strada e i suoi artisti mantenendo vivo quel legame che ha contraddistinto l’hip hop fin dalla sua nascita. La nuova generazione di artisti italiani si trova in tal senso a fare da apripista e, per il momento, ha optato per un’esperienza più simile a quella francese piuttosto che a quella statunitense. Pur non parlando esplicitamente di religione nei loro testi, essa rimane una questione sentita e privata. Basta seguire le loro pagine social e ascoltare le loro parole per capire il ruolo che l’Islam ricopre nelle loro vite: un catalizzatore d’identità che li unisce aldilà dell’appartenenza etnica e nazionale.

P: Certo, certo, assolutamente, nel senso che l’arte in tutte le 126 sue forme è una forma di comunicazione, una forma di… cioè uno strumento di aggregazione no? È una forma… è qualcosa che crea dei momenti di contatto anche tra persone di background diversi che però si ritrovano in un determinato messaggio,in un determinato concetto, una determinata idea o filosofia. Per cui tutte le opportunità di contatto sono benvenute. Io non dicevo che la musica in generale è sbagliata, però è chiaro che se un determinato brano invita alla criminalità o invita a una visione della donna abbastanza mercificato, cioè un oggetto eccetera eccetera, quello non può essere accettato, no? Però tutto il resto, come dicevo, invece può essere uno strumento di aggregazione, ma non solo con l’arte, anche con tanti altri modi. Sicuramente la convivenza in uno stesso luogo, nella stessa patria tra musulmani e altri tipi di fedi, altri tipi di convinzioni, di filosofie e idee crea una contaminazione, una contaminazione che arricchisce il pensiero islamico da una parte e dall’altra parte arricchirà il pensiero occidentale, cioè si creerà un nuovo pensiero islamico e un nuovo pensiero occidentale che diventano una cosa unica. Questo in generale […] quindi sì, c’è assolutamente questa contaminazione e a partire da ciò che abbiamo in comune. Stralcio intervista realizzata online

P: Il fatto che vada a crearsi una comunità? Su quello non ci sono dubbi, ma si vede che oggi le comunità si creano anche grazie a modi di sentire l’hip hop, il rock o il rap. Io sto parlando perché comunque non è il mio genere, quindi non conosco benissimo quel mondo, però se può diventare un punto d’incontro non ci sono dubbi assolutamente. Bisogna vedere come potrà essere questo un punto d’incontro, se può essere un punto d’incontro in modo positivo o negativo. Stralcio intervista realizzata online

Le parole riportate confermano l’esistenza di un processo di contaminazione tra (t)rap e fede che coinvolge i giovani musulmani con background migratorio. Al di là delle singole tematiche affrontate, questo genere musicale e i suoi nuovi interpreti in Italia sono percepiti come un aggregante capace di dar vita a una comunità ibrida, in grado di arricchire tanto il pensiero islamico quanto quello occidentale, «che diventano una cosa unica».


Io: Secondo te la musica può aiutare a scardinare certe visioni? P1: Si si certo lo vedi tutt’oggi, magari ragazzi di quindici o sedici anni come la compagnia di mio fratello sono senegalesi, della Costa d’Avorio, italiani, è un mix e poi magari per il fatto della musica, ascoltano tutti lo stesso genere che li fa crescere in un mondo più integrato. P2: E con la musica si può riuscire a cambiare? P1: Riuscire a cambiare tutto no, però magari a far capire, a mandare un messaggio sì, al cento per cento. Stralcio intervista realizzata sul campo veronese

Con questo giovane rapper ho passato molto tempo sia ricreativo che lavorativo, siamo stati in studio a registrare la sua ultima traccia discutendo sulle barre e le parole da utilizzare, provando, ri-provando, ancora e ancora:


Sono le due del pomeriggio quando lo passo a prendere in macchina per andare in studio di registrazione. Estremamente puntuale, lo vedo carico e allo stesso tempo emozionato. In macchina parliamo del più e del meno ascoltando le sue canzoni e quelle di Baby Gang, arrivati allo studio ci dirigiamo al supermercato per fare la spesa necessaria per iniziare a lavorare: energy drink e succhi di frutta. Siamo pronti. Io mi metto in disparte sul divanetto dello studio e lascio rapper e producer lavorare, entrambi scompaiono dietro i loro attrezzi del mestiere. Nota etnografica realizzata in studio di registrazione

La traccia parla della sua vita di giovane musulmano in Italia e di quella dei suoi amici esprimendo in maniera chiara tutto il disagio e la speranza di cambiamento per sé e gli altri componenti della famiglia. Qui mette in luce le difficoltà del vivere in provincia, la lontananza dagli affetti e le problematiche legali, esperienze che accomunano i giovani di questa nuova generazione.


C’ho sperato mille volte che cambiasse in me

tutta questa musica questo rap

dormo in cantina mica dentro un hotel

soluzione vera qua no non c’è […]

ho problemi legati a problemi legali

tipo che sono diviso da certi legami

faccio i bagagli saluto i miei cari

la provincia mi sta stretta […]

HT


Anche l’incontro con un altro rapper, questa volta membro del gruppo Strong Believer, è stato significativo per comprendere cosa vuol dire fare rap per un giovane musulmano con background migratorio in Italia che ha optato per una socializzazione di tipo religioso:


P: Allora: al rap mi sono avvicinato nel 2009. Comunque questa cosa qui era sempre nel contesto di quando uscivo con i miei amici italiani. Quando vedi un tuo amico, un tuo coetaneo farlo, quando vai a scuola senti uno che ha fatto una canzone no? Che è andato in studio a registrare e tu dici «ah che bello, ha la mia età è bravo a scrivere». E allora dici «dai allora sarà facile», inizi a scrivere e basta, ti demoralizzi: scrivi una rima e ti rompi le scatole no? Poi comunque quando abitavo in Brianza ho conosciuto anche rapper che sono diventati famosi anche a livello nazionale […] e già lì dici: «no, questo qui ce l’ha fatta perché io non devo riuscirci?» E lì inizi a mettere la base e inizi a scrivere, prima facevo testi a caso, però i miei testi non sono mai stati pieni di parolacce e cose varie, cioè sono sempre stato più tranquillo in quello che scrivevo, perché scrivere secondo me ti aiuta anche mentalmente, perché quando scrivi devi star lì a ragionare su come scrivere, sulla metrica […] ti tieni allenato mentalmente […] nella sua leggerezza è abbastanza impegnativo. Poi nel 2015 ci sono stati i fatti di Parigi e vedevo tutti dir la loro e la mia unica arma era quella di scrivere una canzone, scrivere una canzone e riuscire a trasmettere qualcosa in chi ti ascolta e secondo me quella canzone lì è uscita bene, Not in my name mi è uscita stra bene, perché la prima strofa è come se un occidentale vede questo fatto di Parigi e dice «voi siete musulmani, fate queste cose brutte» […] e nella seconda strofa cerco di presentarmi, dico chi sono, cosa faccio, la mia sorella lavora anche se è muslim, anche se sono musulmano sono come te, comunque mi vesto come te, vado in giro come te, faccio gli stessi errori come te no? […] cioè siamo uguali no? Stralcio intervista realizzata online

Io sono come te non ho il turbante in testa

sono l’amico che ti vede e fa festa

un amico che nel momento del bisogno

non scappa ma resta

Islam è anche questo […]

Rocma, Not in My Name


Il protagonista di questo stralcio rifiuta l’idea che la musica sia haram, perché scrivere è stato ciò che lo ha aiutato a ragionare con la propria testa. Attento fin da ragazzo ai temi trattati e alle parole utilizzate per non andare contro la sua fede, il rap gli ha permesso di prendere parola sugli attentati, diventando la «sua unica arma a disposizione». La sua esperienza di rapper musulmano lo colloca ai margini del mainstream della scena italiana, ma allo stesso tempo mette in luce l’esistenza di un’altra forma di rap, più spirituale e attenta alle questioni politiche: un rap lontano dalle classifiche e dal mercato, ma che rivela le sue potenzialità di «trasmettere qualcosa». Pur non essendo testi «politici» o religiosi, i brani della scena italiana diventano un grido perché parlano di strada e di quotidianità, raggiungendo un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo. Come accade per il rap francese di Booba o dei PNL, non vi è alcun appello alle istituzioni né la volontà di sensibilizzare le coscienze: il grido mette a nudo la società, costringendoci a guardare in faccia almeno una parte di realtà. Una realtà in cui i giovani sono arrabbiati e, con modalità e motivazioni differenti, praticano una violenza generalizzata e predatoria che inquieta tanto la destra quanto la «sinistra». Una violenza che non è più appannaggio di una minoranza marginalizzata e razzializzata, ma che si estende anche ad altre fasce sociali, perché l’abbassamento delle aspettative di qualità della vita tra i giovani delle classi medio- basse rende più facile identificarsi con ambienti e soggettività marginalizzate.


P: Secondo me la musica ha un grande potere. Banalmente anche artisti come Ghali hanno fatto una… hanno portato una grande cioè… veramente hanno contribuito a farci conoscere. Stralcio intervista realizzata online

P: Diciamo che adesso lo stile di vita dell’immigrato è quasi ricercato, no? Quello che va fuori con la pistola o con ‘ste cose qui. Mi sa che c’era un rapper che era stato beccato da poco, adesso è stato incarcerato, che aveva la pistola era Baby? Io: Baby Gang. P: Baby Gang ecco. Quindi è quasi come se a tutti i costi anche chi non è immigrato voglia vivere questa vita no? Perché? Perché è interessante, perché è qualcosa che attira […] anche le parole, cioè mi ricordo che quando ero alle scuole superiori c’erano questi ragazzi e queste ragazze che ascoltavano Ghali e mi dicevano cosa significa questo? Cioè la canzone Willy Willy no? E che significa questo? Cosa significa questo? Mi piaceva quando qualcuno veniva da me e mi chiedeva ma cosa significa questa cosa qua in marocchino o in arabo, mi è sempre piaciuto che qualcuno venisse da me a chiedermi che cos’è, che cosa significa e dimmi di te raccontami, no? Stralcio intervista realizzata online

P: Io devo essere uno di strada perché la strada vende, come se andasse di moda. Io prima quando facevo i reati, quando spacciavo, quando frequentavo dei ragazzi non l’ho mai detto perché mi vergognavo di quella mia realtà perché era una roba brutta, ne ero consapevole, non era una roba con cui andare fiero. Dire che io arrivo delle popolari, io sono povero, io faccio le rapine, io spaccio. Era una roba brutta perché c’era una visione della vita differente. Stralcio intervista realizzata sul campo milanese

Le parole degli intervistati confermano quanto osservano Marchi e Saitta: immedesimarsi in situazioni marginali diventa più facile e persino «interessante» quando si prende coscienza che le aspettative di vita delle classi popolari e giovanili sono basse a prescindere dall’etnia o dalla religione. Si assiste così a un mutamento dell’immaginario: essere delle popolari, compiere rapine, vivere la strada, non è più percepito solo come motivo di stigma o vergogna, ma diventa un terreno di riappropriazione. I giovani fanno proprie le etichette con cui sono stati descritti, trasformandole in segni di distinzione attraenti ai loro occhi e minacciosi per il sistema. In definitiva, il vero obiettivo delle culture di strada rimane quello di spingere le persone a unirsi per oltrepassare i confini fisici e simbolici della società, avviando «un dialogo con la gente. Parla[re] di quello che succede nel quartiere […] l’hip hop […] significa anche responsabilità […] raccontare alla gente quello che ha bisogno di sentirsi dire. Come facciamo ad aiutare la comunità?» (Herc in Chang 2009, p.12). Pur senza una risposta definitiva a questa domanda, una nuova ondata di (t)rap sta attraversando l’Italia, intrecciandosi con la strada, l’attivismo e l’Islam. Tra mille contraddizioni politiche e religiose, questo legame appare oggi più vitale che mai nelle vite dei protagonisti della scena. Non è possibile prevedere con certezza quale forza avrà questa onda, né se – o quando – verrà riassorbita dal sistema. Tuttavia, le esperienze francesi, inglesi e statunitensi insegnano che il tempo da solo non basta a smorzare il risentimento e la rabbia, che prima o poi trovano uno sbocco. Le liriche e le rime di questi giovani deprivati e marginalizzati diventano così delle «armi della cultura di massa», capaci di raccontare razzismo, marginalizzazione e violenza statale. Se messe in parola, «[…] le loro esperienze […] rappresentano una lotta discorsiva contro l’oppressione e una battaglia contro la manipolazione e il controllo del discorso […] forn[endo] alla cultura giovanile globale un incredibile potenziale di resistenza in quello che è diventato un panorama geopolitico incerto e inquietante» (Alim 2007, p. 57).


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Tommaso Sarti è dottore di ricerca in Scienze Sociali presso il dipartimento FISPPA dell’Università di Padova con un progetto sull’autorappresentazione dei giovani musulmani in Italia e sulla loro relazione con la cultura di strada e la musica (t)rap. Ha scritto vari contributi per «MUN Magazine», «Studi sulla Questione Criminale», «Antigone» e «Machina»

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