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I santi bevitori di provincia

Recensione a Le città di pianura


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È da qualche settimana in sala Le città di pianura, diretto da Francesco Sossai. Antonio Alia lo discute sottolineando la centralità, e la particolarità, del territorio veneto nel film.


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Carlo e Doriano – i protagonisti de Le città di Pianura - sono due santi bevitori, con la missione di andare a prendere in aeroporto un loro vecchio amico di ritorno, dopo molti anni, dall’Argentina. Condannato per una truffa ai danni del proprio datore di lavoro – un padrone veneto di una fabbrica di occhiali che ha fatto fortuna sulla pelle dei suoi operai – che vedeva coinvolti anche loro due, Eugenio – detto Genio – era riuscito a fuggire prima di essere arrestato. Dopo una vita di solitudine all’estero, arrivata la prescrizione dei reati, è tornato al proprio paese per recuperare il bottino della truffa nascosto prima della fuga e godersi finalmente una vita alleviata dall’abbrutimento del lavoro. Carlo e Doriano però non arriveranno mai all’appuntamento, perché lungo il loro viaggio – proprio come accade al protagonista del racconto di Roth – si perderanno alla ricerca dell’ultimo bicchiere. Infatti, come sanno tutti i grandi bevitori e come ci ricordava Gilles Deleuze nel suo Abecedario, l’ultimo bicchiere non è mai l’ultimo ma è sempre l’ultimo prima dell’ultimo. Spinti da un bar di provincia all’altro, in questa ricerca senza fine dell’«ultimo» bicchiere, i due santi bevitori – ex operai disoccupati, espulsi completamente dal mercato del lavoro dopo la crisi del 2008 – incontrano Giulio, un giovane studente di architettura originario di Napoli. L’incontro consentirà a Carlo e Doriano di ricostituire il trio che un tempo vedeva la presenza di Genio. Con Giulio nei panni di quest’ultimo, il passato – quello dell’infanzia di Genio – fatto di lavoro agricolo, tipico del Veneto di un tempo, si connette al presente fatto di lavori creativi. In questo passaggio di testimone generazionale ad essere trasmessa non è solo la fatica del lavoro ma anche e soprattutto la voglia di farla pagare ai padroni. Perché quando va bene il lavoro ti premia con un bel Rolex ma in cambio, dopo una vita di sforzi, ti ha deprivato di ogni vitalità e alla fine l’oro di quel prezioso orologio perde tutto il suo valore e si trasforma in un beffardo premio da mettere al polso della mano con cui si schiacciano – inebetito - i pulsanti delle slot machine in un brutto bar di provincia.

Ne Le città di Pianura la ricchezza è sempre un’illusione, ha sempre il suo rovescio amaro – anche se non vi è alcun pauperismo – e il mito della fabbrica e del modello veneto è falso come la qualità dei mobili, made in Veneto, venduti nelle televendite di un canale televisivo locale. 

A bordo di una Jaguar rattoppata alla bene e meglio, reliquia cafona di una vita vissuta al di sopra delle proprie possibilità il cui ricordo affiora malinconicamente, il trio proseguirà il suo viaggio alla scoperta di una provincia veneta indefinita. E si tratta di una scoperta anche per Doriano e Carlo che quel territorio non lo hanno mai lasciato, perché si sa che ciò che è noto non è veramente conosciuto.

Questa indefinitezza geografica ha un ruolo centrale in tutto film perché oltre ad attribuire un’atmosfera fantastica e liminare all’intera narrazione ci restituisce l’idea che il territorio in fondo non esiste, che è sempre una costruzione artificiale – come artificiale è il paesaggio del dipinto di Scuola veronese presente nella casa del conte e contemplato da Giulio –  e cioè è la posta in palio di una contesa politica. Non è un caso che un film che trasforma il territorio in questione politica venga da un regista veneto e sia ambientato in Veneto. In questa regione infatti non c’è stata forma della politica – dall’autonomia operaia fino alla Lega – che non abbia messo al centro – anche se in maniera radicalmente contrapposta –  la questione del territorio, di cui il film squaderna varie figure. C’è il territorio degli industriali, quello dell’autostrada Lisbona-Treviso-Budapest, che è uno spazio liscio per la circolazione delle merci. C’è il territorio della vecchia borghesia agricola che oggi campa di rendita, che è un bene paesaggistico da tutelare con l’aiuto della sovrintendenza e da valorizzare, da dove sono esclusi tutti. C’è il territorio ad uso e consumo dei turisti tedeschi. Infine c’è il territorio di Carlo, Doriano e Giulio. È un territorio sottratto caparbiamente a qualsiasi forma di valorizzazione, ricco di vita, di incontri, di speranze e di resistenze, anche con i suoi risvolti più problematici, dove l’antropologia dell’homo oeconomicus non ha cittadinanza. È un territorio di cui Carlo, Doriano e Giulio iniziano a disegnare la mappa. A noi il compito di cartografarlo fino in fondo.

 

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Antonio Alia ha coordinato la redazione di commonware.org, con cui ora cura l'omonima sezione. La sua formazione politica è iniziata con il movimento dell'Onda.


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