Il decennio della controrivoluzione
- Paolo Virno
- 1 giorno fa
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Per ricordare Paolo Virno pubblichiamo un testo tratto da Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio, edito da MachinaLibro nel 2024.
Il contributo riprende e rielabora la discussione tenutasi il 10 giugno 2023 al Festival 6 di DeriveApprodi, in occasione dell’uscita della nuova edizione de Sentimenti dell’aldiqua — libro cardine per comprendere e analizzare gli anni Ottanta.
In quell’occasione Paolo Virno, insieme a Marco Mazzeo e Adriano Bertollini, ha riflettuto sul significato e sull’attualità di quell’analisi.
La fotografia che accompagna l’articolo è stata scattata proprio in quel giorno.
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Il libro fu ed è ancora una meditazione sul mutamento delle forme di vita dopo la sconfitta politica, e più ancora sociale, dei movimenti rivoluzionari. Quali sono le tonalità, i ritmi delle nostre giornate allorché si è eclissata anche solo la possibilità di un mutamento radicale del modo di produzione capitalistico? Perché analizzare i giorni della controrivoluzione partendo dalle emozioni e dai sentimenti? Perché in queste tonalità emotive si manifestava una relazione con il mondo e con i propri simili in maniera più vivida che in qualche balbettio politico. Vi era un grano di verità in quei sentimenti, come se fosse un trattato sull’epoca, riguardo alla nostra relazione con la vita e la sua finitezza, i potenti e gli impotenti, il trionfo del nuovo capitalismo – del capitalismo linguistico. Non si trattava di una via umile e rassegnata di affrontare il proprio tempo, al contrario, vi era una smodata ambizione: vediamo qual è la relazione qui e oggi con il proprio stare al mondo e vediamolo attraverso la situazione emotiva prevalente, che non è un orpello di cose più solide e serie, come procacciarsi il reddito, ma qualcosa che sta alla base e che si dipana all’interno dei modi di procurarsi il reddito. Vi è una scelta, giusta o sbagliata che sia, che punta alla centralità del problema: come si vive quando il capitalismo trionfa e la controrivoluzione è arrivata al suo apogeo? Il nuovo capitalismo ha cessato di essere un capitalismo taciturno in cui vi è una netta cesura tra ciò che Habermas distingueva come agire strumentale e comunicativo. L’agire comunicativo è l’ambito del reciproco riconoscimento, della conversazione tra viventi umani pienamente autonomi. L’agire strumentale è, invece, quello che avviene alle linee di montaggio della Fiat. Alle linee di montaggio della Fiat, che non sono più linee di montaggio ma sono organizzate con i robot, trionfa l’agire comunicativo che è sostanza, materia prima della produzione del plusvalore e del profitto, non di un generico gesticolare umano, è la molla decisiva della nuova produzione capitalistica. La nostra relazione con l’agire comunicativo, le emozioni e i sentimenti che sono legati all’agire comunicativo, che reagiscono alle forme date storicamente di agire comunicativo, acquistano una grande importanza. Pensate alla categoria etico-politica della «chiacchiera», che deriva da un filosofo nazista, cioè Heidegger. La chiacchiera è una conversazione senza struttura ossea, proliferante, che può procedere in qualsiasi direzione, è duttile. La chiacchiera, che Heidegger stigmatizza come un punto di caduta irreversibile dell’autenticità del vivente umano, è invece il contenuto effettivo degli uffici e delle fabbriche in cui si produce con il linguaggio. La chiacchiera, da nozione periferica e comunque vilipesa, diventa il cuore stesso delle forze produttive. Così per altri versi la nozione, a metà tra sentimento e comportamento, di «curiosità». La curiosità come una indefessa, a volte assillante, talvolta anche opprimente e angosciosa, voglia di spaziare su tutta una realtà circostante carica di contingenza e imprevedibilità. La curiosità è quello che poi è diventata, come virtù produttiva e bagaglio professionale, la duttilità, la polivalenza e la linguisticità del lavoro umano che cominciava a diventare decifrabile partendo da categorie che con l’agire strumentale non sembravano avere niente a che fare. I sentimenti prevalenti erano opportunismo e cinismo, figure per molti aspetti legate alla quotidianità o alla configurazione sentimentale della vita negli anni della controrivoluzione. L’opportunismo altro non è che una vicinanza senza requie con il possibile, con il conflitto fra possibili alternativi, con la compresenza di possibilità tra loro ugualmente legittime, ma tali da annullarsi l’una con l’altra. Una sensibilità esasperata, sentimentale, emotiva per il possibile. Così come il cinismo è a sua volta un grado di vicinanza inusuale alle regole nel capitalismo postfordista che attinge le sue maggiori energie dal possibile, dalla linguisticità del vivente che noi siamo, dalla esplorazione di un mondo che non è mai una nicchia ambientale in cui aggirarsi con innata sicurezza; forse per la prima volta questo capitalismo è adeguato al suo concetto, diventa realmente tale, non più qualcosa di ibridato con regimi produttivi contadini o artigianali. Dunque il cinismo coincide con la sensibilità estrema di chiunque lavori nelle manifatture postfordiste per quello che possiamo chiamare regole, ossia la grammatica, ad esempio, della nostra lingua che organizza i singoli enunciati con il loro contenuto. La grammatica costituisce l’ordito, le regole di solito sono inappariscenti, quello che conta sono i gesti concreti che delle regole si giovano o gli enunciati effettivi che della grammatica si servono. Il capitalismo della controrivoluzione ha messo in primo piano le regole come tali con la loro mutabilità. Anche le regole di un comportamento, di una sequenza di gesti o di enunciati sono afflitte da un alto grado di contingenza, che significa che potrebbero essere diverse da quel che sono. Il cinismo è vicinanza estrema alle regole e alla loro mutabilità. L’opportunismo è una sensibilità esasperata per il possibile. L’opportunismo diventa infatti quella qualità professionale che è la flessibilità, non vi è flessibilità senza una vicinanza al possibile in quanto possibile e alle sue diverse diramazioni. Lo stesso vale per le regole e per la loro trasformabilità. Queste sono virtù professionali, ma sono virtù che si radicano nei modi di stare al mondo e nei sentimenti prevalenti nel corso degli anni Ottanta. Questi sentimenti sono stati orribili, il cinismo e l’opportunismo hanno assunto un volto orribile. C’è da chiedersi, però, se c’è altra salvezza che la trasformazione di ciò che ora si presenta come orribile. Non ci sono altre relazioni emotive e sentimentali col mondo in cui si sta che possono fare da rivali al cinismo e all’opportunismo, alla chiacchiera e alla curiosità, può esservi solo una manifestazione radicalmente diversa della relazione con le regole, con il possibile, della centralità della conversazione e della aspirazione a scrutare qualcosa di sempre diverso. Una parte di voi avrà letto o sentito parlare del saggio di Freud sul perturbante che è qualcosa di familiare che procurava agio e protezione che si manifesta tempo dopo con un volto orribile tale da indurre disagio, spavento, angoscia. Rispetto ai sentimenti degli anni Ottanta, abbiamo cercato di pensare al passaggio ugualmente legittimo da ciò che si presentava come perturbante, a qualcosa che potesse diventare dimora, abitazione politica con le stesse caratteristiche: sfrenata confidenza con il possibile, vicinanza alle regole e alla loro mutabilità, che si presentavano come perturbanti, disagio e angoscia che potessero prendere una manifestazione politicamente efficace, anzi la sola efficace possibile. Noi avevamo difronte un capitalismo non solo per la prima volta adeguato al suo stesso concetto, ma che aveva la straordinaria caratteristica in base alla quale la prassi umana, dagli anni Ottanta in poi, si applica a tutto ciò che rende umana la prassi, distinguendola dall’attività di altre specie. La prassi umana si applica alla facoltà del linguaggio, all’orientamento, da parte di un vivente che è costitutivamente disorientato perché privo di un ambiente in cui aggirarsi con innata sicurezza. Questa straordinaria operazione riflessiva secondo cui la prassi umana si applica a tutto ciò che rende umana la prassi, è il modo in cui la storia determinata, la storia dei vincitori, torna su quell’elemento invariante che è la natura umana. La storia torna sulla natura e la fa sua in maniera selettiva. Qui brillò allora tutta la verità della nozione di storia naturale, che non significa che c’è una storia dettata dalla natura, ma che vi è questo rapporto mutevole fra gli aspetti politico-sociali-produttivi e i tratti invarianti della natura umana. Prendiamone due ad esempio: la facoltà del linguaggio, cioè il pensare con le parole di cui diceva cose importanti Marco, e la mancanza di un ambiente – chi ha mondo senza avere un habitat, un disambientamento costitutivo. Questi due lati diventano oggetto della prassi politica: il disambientamento diventa flessibilità, il pensare con le parole diventa la materia prima di quello che Marx chiamò «intelletto generale» – un intelletto al quale si adatta il pronome «si», qualcosa di anonimo e collettivo. Questo intelletto generale diventa la principale molla della ricchezza nelle forme che i sentimenti dell’aldiqua attestavano. In realtà vi è un concetto metafisico vertiginoso, difficile da padroneggiare, che non è quello di «spirito» come aspetto collettivo e sovraindividuale del pensiero e della prassi umana, poi maltratto dagli spiritualisti; io vorrei parlare invece del concetto di «forza lavoro» caro agli economisti. Forza-lavoro è cosa diversa da lavoro: lavoro è quello effettivamente erogato, lavoro in atto, lavoro osservabile; mentre la forza-lavoro, concetto che si trova anche sui giornali, è vertiginoso perché è pura e semplice potenza di lavorare, l’insieme di tutte le capacità e facoltà contenute in un organismo della specie homo sapiens – definizione di Marx. Dunque tutte le facoltà, non solo quelle corporee e manuali, ma l’insieme di facoltà che non solo sono riposte nell’ Homo sapiens, ma caratterizzano e distinguono la sua vita da quella di altri primati superiori. Marx diceva che la forza lavoro è la capacità di digerire, che è cosa diversa dalla digestione. Si tratta della facoltà del linguaggio, il poter dire è distinto dagli enunciati effettivamente proferiti. Il problema è che gli enunciati effettivamente proferiti, come i gesti manuali, produttivi o meno che siano, sono osservabili, attuali, presenti. La potenza di compiere quei gesti, di parlare, non ha alcuna forma di attualità, è inattuale o non presente. Eppure tutto il rapporto di produzione capitalistico si basa sull’acquisizione di questa potenza inattuale e non presente. Come avviene l’appropriazione di qualcosa che non è dato osservare? Pensiamo alla facoltà del linguaggio: potete acquistare e ricompensarmi per gli enunciati proferiti, ma come fate per la facoltà di proferire? Non c’è niente di misurabile. Marx dice che l’unico modo con cui può avvenire la relazione diretta e spasmodica con la potenza in quanto potenza distinta dagli atti – punto nevralgico della civilizzazione capitalistica – è acquistando il corpo vivente, la vita, che contiene in sé queste potenze di per sé inosservabili. L’organismo vivente che è il depositario della forza lavoro in quanto insieme di potenze. Il salario viene stabilito non per quanti gesti produttivi tu hai fatto, ma per mantenere, in base a rapporti di forza politici, quell’organismo, che ha l’unico pregio, per il capitalista, di essere depositario di ciò che non si vede, della facoltà in quanto facoltà. Il salario, quindi, è il mantenimento del corpo che contiene la potenza inosservabile. Qual è la caratteristica del capitalismo dagli anni Ottanta in poi? Da una parte siamo nella fase in cui la prassi umana si applica a tutto ciò che rende umana la prassi – la prassi umana valorizza, mette all’opera. Dall’altra parte la caratteristica della forza-lavoro: il capitalismo per la prima volta mette al centro delle sue iniziative socio-politiche la vita in quanto vita, da cui poi la leggenda metropolitana che esiste la «biopolitica». La politica sul bios non nasce dalle ricerche di Foucault sulla popolazione e il suo controllo. Il problema del governo sulla vita emerge allorché viene al centro della scena la vita come depositaria della potenza. La biopolitica è una nota a margine della nozione di forza lavoro come potenza decisiva di un rapporto sociale, ma non ha alcuna forma di realtà e attualità in quanto tale e deve essere sostenuta dal puro e semplice ciclo vitale. Poi è interessante sapere come nel Settecento è stata gestita la popolazione, la biopolitica non è del tutto ininteressante, basta considerarla un corollario di quel concetto metafisico un po’ più intricato, complicato, importante di «esserci» (Dasein) del nazista tedesco Heidegger. Che la biopolitica sia un’appendice dell’esserci è un appendice del vero e proprio paradosso: per il capitalismo ciò che è più importante non è reale, ciò che è più importante deve poggiare su qualcos’altro e poggia sulla nuda vita, non sulle caratteristiche specifiche del vivente – che importavano al signore feudale. Oggi è un vivente senza caratteristiche, è nuda vita in quanto depositaria della potenza. Questa vita che viene al centro della scena si manifesta anzitutto in una situazione emotiva. Soffermarsi sulla situazione emotiva, come dicevo, non è una maniera sconsolata di approcciarsi al problema: visto che ci hanno legnato e anche incarcerato, allora partiamo da qualcosa di soave, non più di materiale. La scelta è di andare dritti all’essenziale, la vita in quanto tale si manifesta come oggetto e bottino del conflitto, si manifesta in una situazione emotiva. Ai miei occhi allora diventava molto importante osservare tra i miei simili, fratelli o avversari, i sentimenti che si manifestano quando si fa fatica a prendere congedo. Pensate a cose banali e quotidiane, un fenomeno tipico dei nostri anni è il fatto che, in qualsiasi forma di unione politica o convegno amoroso, si sta due ore insieme e in quelle due ore accade poco. Al momento di separarsi, al momento del commiato, invece, si resta come fissati in riti che non finisco mai, un commiato differito che prende il posto della relazione diretta, la difficoltà del congedo messa in mostra. Che si tratti di amicizia o di occasioni pubbliche e politiche. E così considerate l’uso dell’ironia, quali emozioni si scatenano in un uso martellante, virtualmente infinito dell’ironia, per cui si dice qualcosa, la si mette alla berlina, ma quel farlo è a sua volta sottoposto a un trattamento ironico. Qui vi è una ripresa, nell’epoca del capitalismo postfordista, di quella che è stata chiamata «l’ironia romantica», alcuni grandi autori romantici erano diventati degli esasperati fautori del «neppur così» che si manifestava attraverso la battuta ironica. Alcune delle pagine più divertenti di Hegel nelle lezioni di estetica – lui sì che era un autore cool e divertente – sono proprio sull’ironia dei romantici, su questo carattere forsennato, virtualmente senza fine della messa alla berlina, non solo di qualsiasi esperienza e fenomeno, ma anche della sua precedente messa alla berlina. Sulle tonalità emotive del nostro presente, quello del 2023, questo libro illustra delle acquisizioni: nel testo finale di Marco ci sono tre grandi nozioni emotivo-sentimentali che potrebbero prendere il posto dell’opportunismo e del cinismo, una di queste è la nozione di stress. Una domanda fondamentale che dovrebbe muoversi a partire da questo libro per essere proposta oggi è: quali sono e cosa sono diventate, a trent’anni dalla controrivoluzione capitalistica e dal pieno dispiegamento del postfordismo, le tonalità emotive predominanti? Sapendo che non è accaduto quello che speravamo accadesse, cioè che il perturbante diventasse abituale, che vi fosse quella trasformazione dal cattivo-nuovo a un nuovo abitabile – il contrario di quello che Freud sciaguratamente propone dicendo «qualcosa che nell’infanzia e nella preistoria fu salvifico, torna con un aspetto orribile». Il cattivo- nuovo dunque non è diventato abitabile, questo il punto: non c’è stata una manifestazione politica che facesse tesoro di quelle tonalità emotive in chiave emancipativa.
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Paolo Virno (1952-2025) ha insegnato filosofia del linguaggio all’Università Roma Tre e ha fatto parte del comitato scientifico della collana editoriale «Forme di vita» (DeriveApprodi). È autore di numerosi lavori, tra cui Grammatica della moltitudine (DeriveApprodi, 2003), Convenzione e materialismo (I edizione Theoria, 1986; II edizione DeriveApprodi, 2011); Saggio sulla negazione. Per un’antropologia linguistica (Bollati Boringhieri, 2013), Dell’impotenza. La vita nell’epoca della sua paralisi frenetica (Bollati Boringhieri, 2021), Negli anni del nostro scontento. Diari della controrivoluzione (DeriveApprodi, 2022). Suoi testi sono presenti in Sentimenti dell'aldiqua. Opportunismo, paura, cinismo nell'età del disincanto (DeriveApprodi, 2023) e Nel sottosopra degli anni Ottanta. Le contraddizioni di un decennio (MachinaLibro, 2024).
I suoi libri sono tradotti in più di venti lingue.








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