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«Che cosa ci facciamo con tutto ciò che sappiamo?»

Conversazione sulla rimozione del rimosso coloniale

Mentre il colonialismo italiano accende l’interesse degli storici e riempie gli scaffali delle librerie, Miguel Mellino, riflettendo di «Italia coloniale e postcoloniale» in occasione dell’omonima tavola rotonda lo scorso dicembre a Bologna[1] (si veda su queste pagine anche l’intervento di Wu Ming 2), si interroga sul concento di «rimosso coloniale». Ne discute le ragioni delle origini e le peculiarità del presente, ovvero i nuovi dispostivi concettuali imposti dalle lotte a dalla «presa di parola» dell’altro, con cui oggi guardiamo al colonialismo: razzializzazione, bianchezza, decolonizzazione … Soprattutto, ci invita a non fermarci alla mera conoscenza dei fatti storici, ad andare oltre l’«assioma pedagogico», così caro all’antirazzismo nostrano e così inconsistente e «autoassolutorio», del conoscere la storia per non ripeterla. Piuttosto, sollecita una contronarrazione che ripensi la storia e i principi narrativi per raccontarla, svelando definitivamente il «sembiante dell’innocenza bianca».


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Comincerei col dire una cosa molto semplice: oggi abbiamo un rapporto con il colonialismo, e con il passato coloniale italiano, che non è come quello di trenta anni fa. Ragionare in questi termini ci permette di riflettere in modo più specifico, anche più creativo o sperimentale, e meno scontato, sul rapporto che abbiamo oggi con l’esperienza coloniale. Mi pare necessario per rompere con un certo senso comune, sul rapporto tra presente e passato coloniale, veicolato dal discorso pubblico-accademico. Se andiamo a vedere quel è la narrativa, e la concezione, sul colonialismo che ci trasmette quel nucleo di studi storici classici e fondamentali – parlo qui dei lavori Del Boca, Rochat, Procacci e altri – nel tramandare una visione critica dell’esperienza coloniale italiana, ciò che salta agli occhi è che quel tipo di lettura non corrisponde più a quella che noi possiamo produrre oggi. Il nostro approccio al colonialismo è mosso da concetti che trenta anni fa non avevamo, e che non erano di uso corrente nello scenario locale delle scienze storico-sociali. Non intendo dire che navighiamo in nuove astrazioni concettuali, ma proprio il contrario; poiché un concetto è un significante che esprime e rende visibile un fenomeno, oggi facciamo esperienze che non facevamo trenta anni fa, e cioè vediamo rapporti, e stabiliamo connessioni tra fenomeni, eventi e luoghi che non erano «visibili» ai tempi di Del Boca e della prima letteratura storica critica dell’esperienza coloniale. In breve: oggi abbiamo nuovi concetti, nuovi principi narrativi, per nominare e comprendere tutti i diversi fili, soprattutto globali, che hanno tessuto la trama storica coloniale-nazionale. Si tratta di una novità importante soprattutto per l’Italia.


Un nuovo «piano d’immanenza»

Oggi abbiamo chiaro, per esempio, che la razza è qualcosa di molto diverso da come ci veniva narrata qualche decennio fa. Ma non solo. Abbiamo a disposizione tutta una serie di concetti – si pensi, per esempio, a quelli di «suprematismo», «razzismo istituzionale», «razzismo strutturale», «razzializzazione», «privilegio bianco», «bianchezza», «intersezionalità», «capitalismo razziale», ecc. – che ci hanno consentito di riaprire in modo diverso quello che vorrei chiamare il vaso di Pandora rappresentato dal colonialismo nella storia della nazione. Non propongo questa come libera associazione o semplice metafora. Anzi, può essere interessante far lavorare la sua metonimia. Il mio riferimento qui non è tanto al noto mito greco in sé, e ancora meno al suo significato nel senso comune, ma più a una loro interpretazione da parte del classico film muto di G.W. Pabst (Il vaso di Pandora, Die Büchse der Pandora, 1929). Più nello specifico, al potere d’incanto e di suggestione (psicologica e sessuale) di cui è capace la protagonista Lulù (Louise Brooks) secondo il ritratto tanto espressionista quanto, ovviamente, piccolo-borghese e misogino di Pabst. Film a metà strada tra Psicologia delle folle (1889) di G. Le Bon e Psicologia delle masse di Freud (1921), il futuro «collaborazionista» Pabst ci offre qui una narrazione (europea) davvero d’epoca del rapporto tra masse e suggestioni (sono gli anni della grande crisi economica del ’29, ma anche dell’alto imperialismo), che può sicuramente apportare ulteriore significazione al nostro argomento e complicare alcune delle sue concezioni oramai naturalizzate nel senso comune, sia pubblico sia accademico. Immettere il nostro discorso in questa metonimia contenuta nel film di Pabst può rivelarsi un atto intertestuale piuttosto produttivo. Si pensi a quanto ricorda Achille Mbembe in un paio di saggi recenti[2], colonialismo, razza e razzismo, contrariamente a quanto proponeva qualche anno fa Jacques Rancière[3], non sono il prodotto di costruzioni ideologico-culturali «fredde», non si sono costituite materialmente nella storia delle nazioni europee come mere speculazioni dall’alto, esterne e disincarnate, bensì come potenti sembianti (miraggi) ontologici: «L’impresa coloniale traeva gran parte della propria sostanza e dell’eccesso di energia che la contraddistingueva dal suo legame con flussi pulsionali di ogni genere, desideri più o meno confessati, la maggior parte dei quali si collocava al di qua dell’io conscio degli attori coinvolti. I coloni, per esercitare una presa durevole sugli autoctoni assoggettati, dai quali volevano differenziarsi a qualsiasi costo, dovevano assolutamente costruirli come oggetti psichici di ogni sorta. Il gioco delle rappresentazioni in una situazione coloniale consisteva nel crearsi una serie di immagini stereotipe degli indigeni»[4].

Razza e razzismo coloniale, dunque, sono emersi nelle arene economico-politiche europee anche come dispositivi moderni di mobilitazione soggettiva, vale a dire come elementi di sutura antropologica. Colonialismo e razzismo hanno da sempre interpellato, da una parte, l’economia politica e il vitalismo socioculturale delle popolazioni europee, e cioè la struttura e gli immaginari di classe così come le gerarchie di genere, dall’altra le identificazioni sociali e i desideri collettivi. Detto altrimenti, la (costruzione della) razza si è quindi incistata dentro le stesse linee di faglia psicogene aperte nelle masse dallo sviluppo globale della modernità capitalistica occidentale e dalle sue molteplici forme, verticali e orizzontali, di squilibrio e di conflitto. Bisogna essere chiari su questo punto: contrariamente a quanto pensa un certo marxismo volgare, le «fantasie di sterminio», il «desiderio di apartheid e (auto)segregazione» e «l’angoscia di annientamento e di sostituzione etnica», tipiche delle situazioni coloniali, non sono interamente riducibili a una qualche razionalità economica[5], ma erano al lavoro dentro la stessa economia pulsionale o libidinale razzializzata dell’immaginario coloniale europeo moderno: «Nel contesto coloniale il lavoro costante di separazione – e quindi di differenziazione – era in parte l’effetto dell’angoscia di annientamento provata dai coloni. In uno stato d’inferiorità numerica ma dotati di potenti mezzi di distruzione, essi vivevano nella paura di essere circondati, da tutte le parti, da oggetti cattivi che minacciavano la loro sopravvivenza, e che potevano in ogni istante rubare la loro esistenza – gli indigeni, le bestie feroci, i rettili, i microbi, le zanzare, la natura, il clima, le malattie, perfino gli stregoni»[6]. Quanto sottolinea Mbembe ci sembra importante anche per comprendere la forza razzista interpellante dei sovranismi regressivi di oggi negli Stati Uniti e in Europa.

Come possiamo desumere da quanto sin qui detto, oggi parliamo di colonialismo e razzismo in un modo diverso da cinque o dieci anni fa: si pensi, per esempio, al concetto di decolonizzazione. Se, per buona parte della sua storia, la decolonizzazione - come fenomeno o processo - è rimasta un’ingiunzione politica e culturale associata unicamente alle colonie, ai nativi, agli indigeni, oggi ci muoviamo in un «piano d’immanenza» (riprendo qui l’espressione di Deleuze e Guattari[7]) molto diverso da quello che ha plasmato gli studi critici sul colonialismo italiano. Non volgiamo e non avrebbe alcun senso polemizzare con questi studi, cerchiamo qui semplicemente di sottolineare il diverso contesto entro cui agiamo oggi, e cioè la specificità del piano d’immanenza in cui ci muoviamo. Ai tempi di Del Boca e degli altri studi classici sull’esperienza coloniale, ma, se si vuole, anche all’interno della stessa tradizione marxiana occidentale, il colonialismo veniva considerato come un sistema economico e politico «storico», e cioè come un passaggio o stadio cronologico nel divenire della storia globale moderna. Il colonialismo era sinonimo di un periodo storico con un suo inizio - anche se difficile da definire con esattezza ma fissato con la conquista dell’America - e con una sua fine, circoscrivibile all’ultimo processo di decolonizzazione cominciato nel 1947 con l’indipendenza dell’India e finito con le lotte di liberazione nelle colonie portoghesi a metà degli anni Settanta. Si trattava di una concezione chiaramente storica o storico-politica, ma soprattutto implicitamente storicistica: in effetti, dall’interno di queste prospettive il colonialismo è stato sempre narrato da un approccio che potremmo definire metafisico-teleologico, ovvero come un momento già da sempre «anomalo», «anacronistico» e «residuale», anche «irrazionale», poiché considerato come una determinata fase temporale all’interno del divenire unilineare-razionale su cui si erano strutturate le diverse «filosofie della storia» moderne.


Sovranità moderna, colonialismo e la questione della razza

Come complemento «naturale» di questa impostazione - si può dire di passaggio - anche il processo di decolonizzazione è stato narrato e archiviato dalle diverse espressioni dei saperi istituzionalizzati per lo più allo stesso modo: non come il prodotto della lotta e della soggettivazione dei popoli coloniali, ma come un atto dovuto, come un esito storico scontato e inevitabile, e cioè come una sorta di riconciliazione della storia con se stessa[8]. Si tratta, chiaramente, di un modello narrativo, ancora coloniale, daltonico ed eurocentrico, che continua a estromettere dalla Storia – con la S maiuscola, per ricordare la famosa enunciazione di Louis Althusser – quelle che V. Prashad ha definito «The Darker Nations»[9]. Sappiamo invece che le cose sono andate diversamente: le potenze coloniali, questa volta con la complicità degli Stati Uniti - che in molti casi hanno preso il posto di quelle nazioni nella stessa lotta per la decolonizzazione (vedi il Vietnam) - non hanno quasi mai scelto di abbandonare in modo gratuito possedimenti che avevano governato da sempre attraverso un’arbitrarietà e una violenza razziale davvero sovrane[10]. In un modo o nell’altro, le nazioni europee hanno cercato fino all’ultimo di restarci, di imprimere il marchio neocoloniale al decorso post-coloniale, a qualunque prezzo: dividendo o balcanizzando ulteriormente le colonie (India, Indonesia), tentando di assicurarsi i servigi delle borghesie nazionaliste compradoras (Congo, Mali, Costa d’Avorio), o resistendo a oltranza con nuovi massacri, genocidi e violenze di massa (Algeria, Kenya, Mozambico). Concerning Violence (2019), un documentario di Goran Hugo Olsson che richiama nel suo titolo il primo capitolo de I dannati della terra (1961), può essere letto anche a partire da questo punto di vista: incentrato sulla lotta di liberazione delle colonie portoghesi, e prodotto interamente con materiale di archivio (vi si può vedere una delle rare interviste ad Amical Cabral) riesce a mettere bene in evidenza quanto stiamo dicendo.

Certo, le riflessioni tradizionali più radicali avevano già messo a fuoco il ruolo strutturale dell’espansione coloniale moderna – così come della schiavitù e dell’imperialismo – tanto nell’ascesa del capitalismo e del sistema-mondo quanto nella conformazione storica della stessa idea europea di sovranità e nella genesi della rivoluzione industriale. Da Marx a Rosa Luxemburg, da Eric Williams a Oliver Cox, da Andrè Gunder Frank a Immanuel Wallerstein, il marxismo è stato fondamentale nella comprensione del ruolo centrale del colonialismo nella transizione europea alla modernità capitalistica e nella disseminazione globale del suo modo di accumulazione. Il marxismo nero – da Frantz Fanon a C.L.R James, da Cedric Robinson ad Angela Davis - ha poi messo a fuoco considerazioni oramai indispensabili sul rovescio ontologico-razziale del dispositivo capitalistico moderno. Dobbiamo però sicuramente alla filosofia politica reazionaria di Carl Schmitt[11] uno dei resoconti «classici» più efficaci sulla co-costituzione di colonialismo e modernità europea. Secondo Schmitt, il primo ordinamento giuridico internazionale – lo Jus Publicum europeo – sarebbe stato inconcepibile senza l’appropriazione europea di altri territori e popoli come colonie, ovvero come oggetti di violenza indiscriminata, saccheggio e sfruttamento. Lo spazio del diritto internazionale – «la moderna riflessività del sistema di stati-sovrani europei emerso con la pace di Vestfalia nel 1648», per dirla con e contro Giddens[12] – verrà costruito sull’appropriazione progressiva delle colonie come spazi di eccezione: da questo punto di vista l’eccezione coloniale (territori senza legge e senza limiti alla violenza europea) deve essere vista come il rovescio costitutivo della sovranità (e della reciprocità giuridica) statale europea[13]. Sovranità moderna e razza, per dirla nei termini di Mbembe, appaiono intrecciate – e interdipendenti - sin dall’inizio[14].

E tuttavia, nel momento di considerare l’attualità del colonialismo nel presente – la sua centralità nella genealogia del contemporaneo – gli approcci classici si fermavano più o meno qui. Fino a qualche anno fa non vi erano altri modi di immaginare l’eredità del colonialismo nella nostra quotidianità. Oggi invece sappiamo che il colonialismo – i suoi effetti – lo incontriamo ovunque: nel mondo del lavoro, per strada, nella toponomastica urbana, alla fermata dell’autobus, nei ristoranti, nelle scuole e nelle università, nei manuali di studio, nelle politiche migratorie e nel sistema dell’accoglienza. Ed è diventato quasi una sorta di senso comune per noi saperlo riconoscere in questo modo.

Come siamo arrivati fin qui? Come abbiamo prodotto e sviluppato questa diversa conoscenza del colonialismo? Come abbiamo costruito questo rapporto diverso? Non siamo arrivati fin qui attraverso la riflessività della conoscenza o delle discipline, non è stato merito nemmeno di grandi studiosi: storici, filosofi, sociologi e antropologi sono arrivati, come sempre, e come piaceva sostenere a J. Derrida, «dopo l’evento»[15], e cioè dopo una nuova «presa di parola» dell’altro. Siamo arrivati fin qui grazie alla contingenza delle lotte. Sono le lotte che hanno aperto questo diverso piano di immanenza. In Italia, negli ultimi trenta anni o poco più, una data fondamentale, una traccia importante di questa iscrizione dell’altro nella memoria, è il 1989. L’omicidio, quell’anno, di Jerry Essan Masslo, un richiedente asilo proveniente dal Sudafrica e impiegato nelle campagne di Villa Literno come bracciante (nero), sarà alla base dell’apertura, prima in modo indiretto poi via a via sempre più diretto, di un rapporto inedito tra il presente e il passato coloniale. Non era il primo omicidio razzista in Italia, ma ebbe grande trascendenza e diede il via alle prime grandi manifestazioni antirazziste nella storia del paese. Lo stesso Masslo prima di essere ucciso aveva messo in connessione due elementi che riletti nel presente assumono un significato diverso: «scappavo dall’apartheid in Sudafrica e l’ho ritrovato nei dintorni di Napoli». In quegli anni, questa sua affermazione fu scambiata per una semplice (benché potente) metafora, e cioè per un’analogia a fini meramente politici, non certo per qualcosa di «reale»; la connessione tra il Sudafrica dell’apartheid e le campagne di Villa Literno, ma anche tra il dispositivo della razza, la schiavitù razziale e la storia nazionale, non poteva apparire allora, nello scenario nazionale, come qualcosa di storicamente fondato: ci mancavano i concetti, il piano di immanenza era un altro, e anche lo storico rimosso coloniale svolgeva allora la sua parte.

Se ripensiamo ancora ai concetti che oggi abbiamo a disposizione - razzializzazione, suprematismo razziale, dominio razziale, bianchezza, eccetera - e all’uso che oggi ne facciamo nella rilettura non solo dell’esperienza coloniale italiana, ma anche del fascismo, ci appare più nitido il coinvolgimento della storia nazionale nella più complessiva storia della schiavitù. In Black Marxism, Cedric Robinson, sulla base di alcuni studi di rilievo, avanza un’importante ipotesi, si può dire, genealogica: il sistema schiavistico delle repubbliche di Genova e Venezia è stato un modello di ispirazione per la successiva schiavitù transatlantica moderna[16]. Nei nostri contesti mancano ancora gli studi sull’argomento, ma è sicuramente un’ipotesi suggestiva da esplorare. Sarebbe un altro modo di inseguire l’ombra della razza nella storia della nazione, ovvero di rimettere la storia nazionale, le sue narrazioni e i suoi archivi, dentro ciò che Lisa Lowe ha denominato «l’intimità dei quattro continenti»[17] (Africa, Asia, Europa, Americhe) come grado zero della modernità.


«Anche noi gente d’Europa, ci si decolonizza!»

Ma torniamo alla domanda: che cosa ha aperto questo diverso piano di immanenza, questo nuovo approccio al colonialismo? Sono state le lotte, lo abbiamo detto. Ma quali lotte? Le lotte anticoloniali in Africa e Asia (1945-1980), la lotta dei neri negli Stati Uniti negli Sessanta-Settanta, le lotte dei movimenti indigeni in America Latina, le lotte antirazziste dei diversi gruppi «intoccabili» e/o «razzializzati», ma anche le lotte dei migranti in Europa e qui in Italia. Si tratta di lotte, di esperienze politiche di resistenza e di insubordinazione avvenute negli ultimi cinquanta anni, che non siamo portati a mettere direttamente in connessione né tra loro né con il nostro attuale «piano di immanenza». Queste lotte e movimenti hanno avuto un ruolo di primo piano nella rilettura del colonialismo e del razzismo come fenomeni sociali. Ci siamo detti da sempre, e nella tradizione operaista non vi è nemmeno bisogno di ricordarlo, che il sapere è una conseguenza delle lotte. E tuttavia il legame fra queste lotte o movimenti e le nostre pratiche teoriche e politiche antirazziste di oggi non ci è sempre così chiaro. «L’inconscio colonial-capitalistico», per riprendere qui l’espressione di Suely Rolnik[18], è sempre al lavoro, e proprio per questo deve rappresentare uno dei bersagli centrali di ogni processo di ogni di soggettivazione, individuale e collettivo. La lotta per la riappropriazione della propria vita, delle proprie soggettività e desideri, non può più prescindere dalla decolonizzazione del sé, del sapere e della cultura: una necessità che ci è divenuta carne soltanto di recente.

Nel caso specifico dell’Italia appare piuttosto evidente che ad aprire questo nuovo orizzonte di riflessione sul proprio passato coloniale – questo nuovo piano di immanenza - è stata l’irruzione dal 1989 in poi di quello che possiamo chiamare, ricorrendo a un concetto proposto da Carla Lonzi in alcuni dei suoi scritti, un «soggetto imprevisto»: la lotta dei migranti per i loro diritti. L’arrivo di sempre più massicci flussi migratori sul territorio nazionale, a partire dagli anni Ottanta, avrebbe posto l’Italia, sempre di più, di fronte alla questione del suo storico rapporto con il razzismo[19]. Si trattava di una questione che a quei tempi non era certo all’ordine del giorno, benché giacesse esplosivamente latente, come sarebbe divenuto più chiaro qualche anno dopo, tanto all’interno di altre questioni quanto nelle stesse strutture del sentire collettive. Nell’immaginario nazionale dei primi anni Novanta, il rapporto della storia locale col razzismo restava associato per lo più all’antisemitismo, alle leggi fasciste antiebraiche e più in generale all’eredità dell’olocausto e ai suoi «irrazionali» rigurgiti politici nei partiti di estrema destra e della prima Lega Nord, così come ad alcune evenienze storiche legate alla questione meridionale: in particolare alle molteplici discriminazioni subite dai migranti del Sud durante le grandi migrazioni alle città settentrionali nel Secondo dopoguerra. Come conseguenza di una delle più banali ramificazioni dell’immaginario nazionalista, razzismo e identità nazionale venivano spesso associati, attraverso un discorso del tutto particolaristico e auto-vittimizzante, anche in riferimento ai pregiudizi e stigmatizzazioni subiti dagli immigrati italiani all’estero: negli Stati Uniti e nei paesi dell’Europa del Nord.

Non vi è dubbio, dunque, che a rendere manifesta l’esistenza di diverse forme di violenza razzista sedimentate nella stessa trama storico-strutturale della nazione è stata la lotta dei migranti per i loro diritti nei nostri territori e contesti. La lotta dei migranti avrebbe infranto sempre di più quel rapporto storicamente pacificato, autoreferenziale e autoassolutorio, dell’immaginario antirazzista e antifascista nazionale con se stesso. Sarà l’emergere di questa nuova, e inedita, dimensione della lotta antirazzista a livello nazionale a generare nuove chiavi di lettura, non solo del passato coloniale, ma anche del fascismo: da una parte diverrà sempre più visibile il legame genealogico tra il colonialismo e le molteplici espressioni del razzismo contemporaneo; dall’altra, questo nuovo piano di immanenza della pratica teorica e politica collettiva, porterà inevitabilmente a ciò che possiamo chiamare la rimozione del rimosso coloniale. Ci è voluto del tempo, ma grazie alle lotte antirazziste dei migranti, anche nei nostri contesti – come in Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, eccetera - è divenuto finalmente visibile il rapporto genealogico esistente tra il passato coloniale, «un’economia imperiale della violenza razziale» (per riprendere qui il concetto di Elsa Dorlin[20]), le migrazioni contemporanee, il razzismo. In sintesi: sarà questo singolare mutamento di prospettiva, ovvero una visualizzazione più nitida di tali legami, a portare progressivamente a una riconsiderazione radicale del colonialismo come dispositivo di governo.

Un secondo contributo a questa nuova comprensione del passato coloniale è venuto sicuramente dagli studi postcoloniali e decoloniali che, al di là dei loro limiti, hanno avuto il merito di raccogliere la sfida portata avanti dalle lotte anticoloniali, antirazziste e intersezionali degli ultimi decenni del XX secolo per poi proporre un diverso, e inedito, sguardo del rapporto storico non solo tra ex metropoli e ex colonie, ma soprattutto tra modernità, capitalismo, colonialismo, dominio patriarcale e razzismo. Non solo gli studi postcoloniali e decoloniali di per sé, e cioè gli scritti dei loro principali animatori, ma soprattutto la traduzione della loro problematica – proposta da numerosi studiosi, ricercatori e anche attivisti - alla specificità della storia e del contesto nazionale, hanno contribuito in modo fondamentale a generare una concezione diversa del colonialismo: un mutamento di prospettiva che non vede più nel colonialismo soltanto il nome di un sistema storico di dominio, bensì il significante di un dispositivo di governo costitutivo della modernità capitalistica, ovvero di un fenomeno sociale le cui tracce ed eredità sono del tutto palpabili anche nel nostro presente.

È in questo modo che studi postcoloniali e decoloniali hanno portato al concetto, ciò che potremmo chiamare, un importante decentramento rispetto ai modi tradizionali di considerazione storica dell’esperienza coloniale: promuovere l’idea del colonialismo come una formazione discorsiva co-costitutiva della modernità capitalistica europea e delle sue diverse espressioni culturali e nazionali stava anche a significare e invocare un’importante decolonizzazione dello sguardo delle narrazioni del passato[21]. In questo senso, quel ragionamento che oggi assumiamo più o meno come scontato o evidente, e cioè il presupposto secondo cui non si può separare la storia e la cultura delle metropoli dal loro rapporto (razziale) con le colonie, è forse il più importante portato degli studi postcoloniali. Si pensi ai due scritti più importanti di Edward Said: Orientalismo (1978) e Cultura e imperialismo (1991). Questi testi veicolano dentro la loro testura una grande rottura politico-epistemologica: in entrambi i suoi lavori Said cerca di mostrarci che anche la cultura dei colonizzatori (i suoi archivi, i suoi saperi, le sue tradizioni artistico-letterarie, il campo del pensiero europeo nel suo insieme), e non solo quella dei colonizzati (come eravamo più abituati a immaginare) deve essere vista come un prodotto dell’esperienza coloniale. Si tratta di un vero e proprio rovesciamento di paradigmi, per dirla con Thomas Kuhn, i cui effetti saranno travolgenti nell’intera struttura delle scienze umanistiche tradizionali, soprattutto nel mondo anglosassone. Come sapete, io vengo dall’Argentina, e in Argentina è sempre stata molto chiara l’assiomatica secondo cui la storia nazionale fosse inspiegabile senza l’esperienza coloniale, ma anche lì, fino a trenta anni fa, nessuno avrebbe teorizzato apertamente l’idea che anche la cultura moderna europea fosse un prodotto dell’incontro/scontro con il mondo coloniale. Dagli anni Novanta in poi, dunque, sappiamo che il colonialismo e il razzismo stanno dentro la cultura moderna e le sue diverse forme di espressioni, dentro le sue strutture materiali e simboliche, non fuori. Per questo, continuare a promuovere nei nostri contesti, nazionali ed europei, uno sguardo cieco alla razza e al colore, vale a dire un approccio «daltonico», per dirla con Fatima El-Tayeb[22], alle questioni sociali, politiche e di genere, non può più essere considerato come il sintomo di un rimosso coloniale, bensì come una consapevole presa di posizione, e cioè come una riproduzione (naturalizzazione) affermativa del privilegio e del suprematismo razziale e patriarcale bianco.

Tutto questo ci dice che il panorama oggi è molto diverso rispetto a quello di trent’anni fa. Forse vale la pena ricordare un’ingiunzione assai nota di Sartre nella prefazione a I dannati della terra per chiudere questa parte del nostro ragionamento. Si tratta di un’ingiunzione più volte ripetuta qua e là lungo i decenni, ma se la «estirpiamo» dal contesto in cui è stata enunciata, per dirlo con le parole dello stesso Sartre, e cioè dagli automatismi irriflessi e retorici del pensiero-già-detto, si riuscirà sicuramente a comprendere quanto essa fosse rivoluzionaria. Notissima dunque l’enunciazione di Sartre: «Anche noi, gente d’Europa, ci si decolonizza: ciò vuol dire che si estirpa, con un’operazione sanguinosa, il colono che è in ciascuno di noi. Guardiamoci, se ne abbiamo il coraggio, e vediamo quel che avviene di noi». [23] Solo oggi, penso, possiamo capire la portata rivoluzionaria di questa enunciazione, considerata per lunghi decenni un mero artificio retorico, anziché come un programma politico e culturale. «Estirpare il colono che è in noi», non poteva significare semplicemente fare un auto-vittimistico mea colpa e accettare la rinuncia al possesso di colonie o l’indipendenza algerina come qualcosa di eticamente giusto. La portata dell’enunciazione era certamente più profonda, molto di più, forse, di quanto lo stesso Sartre potesse allora immaginare: presupponeva, lo sappiamo oggi, un nuovo piano di immanenza, ovvero modi inediti di pensare tanto il colonialismo quanto la vera portata, materiale, culturale e anche ontologica del processo e della lotta di decolonizzazione.

Questo differimento temporale del progetto politico e culturale contenuto nell’enunciazione di Sartre può essere considerato come il sintomo di un inconscio coloniale generalizzato, quindi non solo in Europa. L’ingiunzione a decolonizzare l’Europa e gli europei trovava allora il suo punto di arresto in un muro ontologico innalzato in secoli di dominio culturale-coloniale e suprematismo occidentale: in quell’immaginario filosofico moderno secondo cui la cultura europea non era che l’incarnazione di un movimento progressivo (lineare-naturale-teleologico) della storia, e cioè l’espressione storica (provvidenziale) di un logos universale e trascendentale. Malgrado la critica radicale di Sartre e Fanon all’umanesimo europeo, la critica del dominio coloniale – l’espunzione del colono che è dentro ogni idea di Europa - finì allora per riguardare non tanto ciò che oggi chiameremmo la colonialità del pensiero e della cultura europea, bensì la sua negazione/privazione rispetto ai non-bianchi e non-europei. Colonialismo stava a significare più che altro un’esclusione razziale – sociale, economica e culturale – di buona parte dell’umanità dallo status e dai privilegi raggiunti dall’Europa nella sua sanguinaria missione storica. La pratica teorica e politica anticoloniale restava avvolta attorno a quanto Aimé Césaire aveva denunciato, con la potenza della sua notevole immaginazione poetica, nel Discorso sul colonialismo (1955): il colonizzato vuole andare avanti, vuole il progresso, è l'Europa che lo tiene imprigionato nell’arretratezza e subalternità. Il colonialismo, dunque, come arresto del movimento dialettico della storia, come de-civilizzazione dello sviluppo universalista della Civiltà: cacciato dalla porta, il fantasma restava aggrappato alla finestra. Oggi sappiamo che anche questa modalità del pensiero «dialettico» faceva parte dello storico «discorso del padrone (coloniale)».


Sulla rimozione del rimosso coloniale

Da trenta anni a questa parte abbiamo cominciato ragionare in modo diverso sull’eredità del colonialismo: sulla colonialità del presente. Anche grazie a questo concetto creato da Anibal Quijano[24]. Negli ultimi trent’anni è indubbio che il colonialismo (nel suo divenire colonialità) è stato piuttosto «parlato»: non viene più considerato un mero sintagma tra gli altri della modernità storica e politica, bensì uno dei suoi paradigmi. La colonia è sempre più diventata, per dirla con e contro Agamben, il paradigma, biopolitico e necropolitico allo stesso tempo, della modernità.

Anche nello scenario locale, la moltiplicazione dei discorsi sul colonialismo ha finalmente cominciato a scalfire (e decostruire) negli ultimi anni uno dei suoi storici sintomi: ciò che Angelo del Boca aveva chiamato il «rimosso coloniale». Anche se era divenuta un’espressione assai ricorrente – e quindi divenuta «senso comune» - nel discorso pubblico per ricordare l’oblio del proprio passato coloniale che aveva caratterizzato la memoria storica dell’Italia dal Secondo dopoguerra in poi, è stato Angelo Del Boca ad aver coniato tale concetto. Se leggiamo alcuni dei suoi testi[25], ci rendiamo subito conto che per rimozione egli dava un significato a questo sintagma estremamente letterale, derivante dalla sua accezione medico-clinica: rimozione stava qui per asportazione, espunzione, messa da parte di un elemento (considerato) patologico per mantenere integra la salute del corpo (della nazione). Su questo significato, veniva poi costruito il concetto-metafora: la comunità nazionale ha rimosso il colonialismo dalla sua storia (pochi gli studiosi che si sono occupati dell’argomento fino agli anni Ottanta) e memoria (assenza dal dibattito pubblico e culturale sull’argomento) come chiara strategia di autoassoluzione, ovvero per non assumersi le proprie responsabilità, le proprie colpe per le violenze, massacri e genocidi commessi su altri popoli in nome del bene della nazione. La portata del concetto è tutta qui: si rimuove ciò che non si vuole ricordare per mantenere e legittimare l’integrità della missione storica nazionale. Ricordare e annettere i crimini coloniali all’archivio storico nazionale: non era certamente poco, ma il concetto di Del Boca si fermava entro questa significazione più o meno letterale.

Si può discutere, e di fatti molti giovani storici ne discutono, se il concetto di «rimosso coloniale» fosse in qualche modo fondato. Non è questa la sede per entrare nella discussione. Dal nostro punto di vista però – dal nostro piano di immanenza oggi, sarebbe meglio dire – appare difficile sostenere che l’idea di una rimozione del passato coloniale intesa in questo senso «medico-letterale» non smetta oggi di riverberare anch’essa – malgrado le intenzioni iniziali – come l’ultimo salvifico sintagma di un paradigma (scientifico-occidentale-nazionale) comunque autoassolutorio e morente. Ben altra immanenza avrebbe oggi, infatti, un uso e un’accezione più psicoanalitica dell’espressione[26]. Un’accezione psicoanalitica dell’espressione sarebbe piuttosto produttiva in riferimento, prima di tutto, alla formazione dell’Europa come Idea e come Concetto, e anche come continente a livello materiale, ma, più da vicino per quello che ci riguarda, anche alla costituzione dell’Italia come nazione, come soggetto storico-nazionale, come luogo di enunciazione coloniale, come membro e produttore della «razza bianca» globale. È alla luce di queste considerazioni che intendo proporre il concetto di rimozione del passato coloniale in chiave psicoanalitica, e non in un senso astratto.

In ogni caso, se trent’anni fa si poteva dire che in Italia vi era una rimozione del passato coloniale dal dibattito pubblico e dalla costruzione della memoria, oggi non è più così. Questo tipo di rimosso (più letterale) non c’è più. Ne stiamo parlando perfino troppo. Basta entrare in una libreria per rendersene conto. Negli ultimi vent’anni ci sono state moltissime ricerche, moltissimi studi sul rapporto dell’Italia con il colonialismo, e questo ci vieta di parlare ancora di rimosso coloniale. Può darsi che il dibattito riguardi delle nicchie, ma oramai, se non arriva nei luoghi chiave della produzione della cultura, del sapere e della conoscenza, e cioè negli snodi centrali dell’articolazione egemonia culturale (tipo la scuola, la politica, i media o il dibattito pubblico) non è certo per mancanza di studi o ricerche, ma per SCELTA. Dobbiamo avere bene in chiaro questo punto. Se non se ne parla, se se ne parla nel solito senso autoassolutorio o con gli stessi paradigmi e concetti di trent’anni fa e, soprattutto, se i legami tra passato coloniale-razziale, razzismo e migrazioni restano ancora sfuocati, è anche per scelta: è tempo di non concedere più nulla alla tradizionale «innocenza bianca»[27]. Alla luce del presente, poi, con un rimosso coloniale finalmente rimosso, e dall’interno di un nuova concezione del colonialismo, anche il discorso del mito dell’italiano brava gente appare quanto meno datato e andrebbe in qualche modo risignificato[28].


Ripensare la storia

Oramai, dunque, sappiamo tutto. Il problema è oggi un altro: «che cosa ci facciamo con tutto ciò che sappiamo?» L’enunciazione, molto suggestiva, è di Sven Lindqvist, storico svedese del colonialismo che, chissà perché, non viene quasi mai citato in Italia anche se i suoi testi principali sono stati tradotti da tempo[29]. Si tratta di due scritti storici non nel senso classico del termine e sicuramente assai creativi: entrambi propongono connessioni poco consuete tra eventi, teorie e fenomeni della storia moderna. Sei Morto. Il secolo delle bombe (2001) è una atipica genealogia dei bombardamenti aerei sulle popolazioni civili, in cui si scopre che il primo passaggio all’atto di questa sinistra tecnologia militare di guerra totale è stato compiuto dall’Italia durante la campagna in Libia del 1911.

Sterminate quelle bestie (1992) - da cui è tratta l’enunciazione - ci interpella direttamente: che cosa facciamo con tutto ciò che oramai sappiamo fin troppo bene? Che ci facciamo noi qui in Italia? A cosa deve servire? Uno stimolo in questo senso, può venire dal documentario del regista haitiano Raoul Peck tratto dal testo[30]. Scartiamo la prima risposta che ci viene in modo meccanico dal senso comune: bisogna conoscere la storia per non ripeterla. Un simile assioma pedagogico, assai diffuso nelle pratiche educative antirazziste, è non solo fallace, ma anche (auto)feticistico. È chiaro che l’antirazzismo e la decolonizzazione come pratiche teoriche e politiche di emancipazione, individuali e collettive, devono dare battaglia anche nel campo dell’istruzione e dell’educazione, della costruzione del discorso pubblico-mediatico, ma l’idea che la conoscenza della storia prevenga da una sua ripetizione è non solo un’ingenuità della peggiore pedagogia, ma soprattutto il residuo di una fantasia illuminista piuttosto elitaria, coloniale e anche autoassolutoria: si tratta di un’enunciazione che rovescia in modo consapevole sulle masse e sulle plebi – sugli «incolti», sui non illuminati, sugli «ignoranti» - le pulsioni e i comportamenti più retrogradi. Non che le masse vadano assolte, ovviamente, ma nemmeno le élite e i soggetti (e campi) di «supposto sapere» – per dirlo con le parole di Lacan. Il problema, detto altrimenti, non è conoscere la storia, un’enunciazione che, posta in questi termini, non può non emanare un positivismo del tutto anacronistico, bensì ripensare le categorie, i concetti e i principi narrativi attraverso cui raccontarla. Non si tratta quindi di aggiornare archivi e discipline, di aggiungervi pezzi mancanti o rimossi, di riallestire i vecchi musei per così dire, ma di sconsacrarli come elementi residuali di un «grande complesso epistemico coloniale moderno» – per rielaborare qui un noto concetto di Tony Bennett[31] – e quindi di mettere al lavoro nuovi modi, luoghi e logiche (postcoloniali/decoloniali) dell’immaginazione storica.

Dal mio punto di vista, rimossa la rimozione del passato coloniale, ciò che ci manca è una contro-narrazione che sia in grado di sfidare e contendere nell’arena pubblico-politica le narrazioni dominanti sulla storia e il passato (coloniale) della nazione. Quello che ci manca è tessere in un’unica trama la molteplicità di rappresentazioni sul passato coloniale emersa negli ultimi due decenni, ovvero costruire o mettere meglio a fuoco la loro intertestualità. A me pare oggi un momento particolarmente stimolante. Negli ultimi cinque anni vi è stato un importante fermento in questo senso. Basti pensare, per esempio, agli effetti del movimento Black Lives Matter nei nostri territori - anche se questo effetto di retroazione esterna può risultare problematico di per sé, un altro sintomo del rapporto ambivalente delle strutture del sentire locali con la sua storica questione coloniale-razziale – e a tutto ciò che ha originato: formazione di collettivi locali di BLM, movimenti per la rimozione di monumenti, interventi e dibattiti sulla colonialità della toponomastica e dei musei, dello Stato e delle sue istituzioni, collettivi per la decolonizzazione del sapere e delle università, ma soprattutto una presa di parola assai più visibile di quanto non fosse prima delle cosiddette seconde generazioni e della popolazione afroitaliana o afrodiscendente. Da qualche anno a questa parte si parla molto di più quanto il colonialismo e razzismo stiano dentro il mercato del lavoro, delle politiche migratorie, dello stesso sistema di accoglienza e anche di un certo tipo di umanitarismo, nei processi di gentrificazione urbana. In sintesi, ciò che Robinson ha denominato «capitalismo razziale» è divenuto molto più visibile anche nella storia e nella geografia sociale, economica e umana della penisola. Il rimosso coloniale è stato dunque rimosso: ora non abbiamo più scuse. Il sembiante dell’innocenza bianca è chiaramente crollato anche da noi.



Note [1] Punto Input, 3 dicembre 2021, con la partecipazione di Valeria Deplano, Matteo Dominioni, Miguel Mellino e Wu Ming 2. Si ringrazia Punto input per aver condiviso i materiali e Maria Carmela De Paola per la trascrizione. [2] A. Mbembe, Critique de la raison nègre, La Découverte, Paris 2013; Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia, Laterza, Roma 2019. [3] J. Ranciére, Racisme, une passion d’en Haut, «Mediapart», 14/9/2010. «Una quindicina di anni fa avevo proposto il termine di razzismo freddo per designare questo processo. Il razzismo con cui abbiamo oggi a che fare è un razzismo freddo, una costruzione intellettuale. È, prima di tutto, una creazione dello Stato. La natura stessa dello Stato è di essere uno Stato di polizia, un'istituzione che stabilisce e controlla le identità, i luoghi e gli spostamenti, un'istituzione in lotta permanente contro tutto ciò che sfonda le identità da lui stabilite, anche quando questo sfondamento delle logiche identitarie è costituito dall'azione dei soggetti politici». L’analisi «costruttivista» del razzismo proposta qui da Rancière, l’enfasi sulla sua dimensione «sociogenetica», per richiamare il noto termine di Fanon, appare non solo assai semplificatorice, poiché del tutto scissa dal legame materiale e simbolico tra dominio razziale e colonialismo, ma può essere anche considerata come ideal-tipica, per così dire, di un certo radicalismo bianco ed eurocentrico, cieco al colore e alla razza. Un semplice rovescio di quell’universalismo coloniale repubblicano liberal-borghese così diffuso nella tradizione intellettuale e culturale francese. [4] Mbembe, Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia, cit., pp. 56. [5] Si tratta di un argomento centrale dell’afropessimismo. Vedi, per esempio, Frank Wilderson: «la violenza contro lo schiavo è integrale alla produzione dello spazio psichico che chiamiamo vita sociale. La ripetitività della violenza contro lo schiavo non ha lo stesso genere di utilità della violenza contro il soggetto postcoloniale, poiché quest’ultima è attuata, almeno inizialmente, per assicurare e mantenere l’occupazione del territorio. Non ha la stessa utilità della violenza contro la classe operaia, che serve ad assicurare e mantenere l’estrazione del plusvalore e del profitto. Dobbiamo pensare in maniera più libidinale e più efficace. È qui che la cosa si fa controversa e problematica per molti. Quello che dice Patterson - e che persone come Jared Sexton e Saidiya Hartman a Columbia University hanno contribuito a estendere - è che abbiamo bisogno di pensare alla violenza al di fuori di quei termini di utilità politica ed economica che ci offrono gli altri paradigmi rivoluzionari. La violenza contro lo schiavo sostiene una sorta di stabilità psichica per tutti gli altri soggetti che non sono schiavi” (in C.S. Soon, Afropessimismo. Intervista a Frank B. Wilderson III, «Machina», 5 marzo 2021). [6] Mbembe, Nanorazzismo, cit, p. 55. [7] G. Deleuze - F. Guattari, Che cos’è la filosofia, Einaudi, Torino 1991. [8] Si veda, come un testo sintomatico di questo approccio, R. Betts, La decolonizzazione, Il Mulino, Bologna 2007: «Nel contesto di ricostruzione continentale e di riallineamento globale del dopoguerra, l’impero coloniale sembrava avere bisogno di sostantivi preceduti da un “re” o un “ri”: restaurazione del controllo, riforma delle precedenti politiche. Ma il tempo per i tentativi si dimostrò penosamente breve per coloro che nell’impero credevano» (p. 45). [9] V. Prashad, The Darker Nations. A people’s History of the Third World, New Press, London 2005; trad. it, Storia del Terzo mondo, Meltemi, Roma 2008. [10] «… la seconda guerra mondiale inaugurò una nuova fase della storia coloniale: l’aggressione militare su vasta scala. Fino ad allora, gli imperi coloniali erano stati conservati “in economia”, senza costi pesanti in termini di vite umane né da parte europea né da parte indigena» (Betts, La decolonizzazione, cit., p. 33). Questa affermazione di Betts, oltre a lasciare davvero di stucco, mostra all’opera un’altra variazione delle «filosofie della storia» moderne nel momento di narrare il colonialismo come stadio storico. [11] C. Schmitt, Il nomos della terra, Milano, Adelphi, 1991. Vedi anche Terra e Mare, Adelphi, Milano 2002. [12] Giddens, infatti, come buona parte delle auto-narrazioni europee dominanti elogia la «modernità riflessiva» del sistema interstatale europeo emerso nel XVII secolo senza alcun riferimento alla sua linfa necropolitica coloniale. Vedi A. Giddens, The Nation State and Violence, Polity Press, London 1985, o anche Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna 1992. [13] Dall’appropriazione progressiva del mondo da parte dell’Europa «…nacque un diritto internazionale cristiano-europeo, ossia una comunità di popoli cristiani d’Europa contrapposta al resto del mondo. Questi popoli costituirono una “famiglia delle nazioni”, un ordinamento interstatale. Il loro diritto internazionale si fondava sulla distinzione fra popoli popoli cristiani e popoli non cristiani, ovvero, un secolo più tardi, fra popoli civilizzati e popoli non civilizzati. Un popolo che non fosse civilizzato in questo senso non poteva essere membro di tale comunità giuridica internazionale, ed era non già soggetto, bensì solo oggetto di tale diritto, il che vuol dire che apparteneva, come colonia o protettorato ai possedimenti di uno dei popoli civilizzati (…) Il senso e il nocciolo del diritto internazionale cristiano-europeo, il suo ordinamento fondamentale, stava appunto nella spartizione della nuova terra. I popoli europei erano concordi su un fatto, quello di considerare il territorio non europeo del mondo come territorio coloniale, ossia come oggetto di conquista e di sfruttamento” (Schmitt, Terra e Mare, cit., p. 75-77). [14] A. Mbembe, Necropolitica (2003), ombre corte, Verona 2016. [15] «È persino questa, irrecusabile, la forma paradossale dell’evento: se un evento è possibile, se si inscrive in condizioni di possibilità, se non fa che esplicitare, svelare, rivelare, compiere ciò che era già possibile, allora non è più un evento. Affinché un evento abbia luogo, affinché sia possibile, è necessario che sia, in quanto evento, in quanto invenzione, la venuta dell’impossibile. Ecco una povera evidenza, un’evidenza che non è nientemeno che evidente. È questa evidenza che non avrà mai cessato di guidarci tra il possibile e l’impossibile. Ed è essa che ci avrà così frequentemente spinto a parlare di condizioni di impossibilità», in J. Derrida, Papier Machine. Le ruban de machine à écrire et autres réponses, Galilée, Paris 2001, p. 307. Per completare questo discorso, può essere anche importante ricordare che Derrida definiva la decostruzione «come la venuta dell’altro», vedi Della Grammatologia (1967), Jaca Book, Milano 2012. [16] C. Robinson, Black Marxism. The Making of the Black Radical Tradition, Zed Press, London 1983, si veda il Cap. V, pp. 101-120. [17] L. Lowe, The Intimacy of Four Continents, Duke University Press, Durham 2015. [18] S. Rolnik, Esferas de la insurrección. Apuntes para descolonizar el inconsciente, Tinta Limón Ediciones, Buenos Aires 2019. [19] M. Colucci, Storia dell’immigrazione straniera in Italia: dal 1945 a oggi, Carocci, Roma 2018. [20] E. Dorlin, Difendersi. Una filosofia della violenza, Fandango Libri, Roma 2020 [21] M. Mellino, Postcolonialism as a Discoursive Formation, in International Encyclopaedia of Anthropology, Wiley-Blackwell, New York 2018, pp. 101-111. [22] F. El-Tayeb, Colorblindness and Visible Minorities in the New Europe, in F. Lionnet, S.M. Sih (a cura di), The Creolization of Theory, Duke University Press, Durham 2011. [23] J.P. Sartre, Prefazione, in F. Fanon, I dannati della terra (1961), Edizioni di Comunità, Milano 2000, p. LIV. [24] A. Quijano, Colonialidad del Poder, Eurocentrismo y America Latina, in E. Lander (a cura di), La colonialidad del saber: eurocentrismo y ciencias sociales, Clacso, Buenos Aires 2003, pp. 201-242. [25] A. Del Boca, Italiani brava gente. Un mito duro a morire, Beat, Roma 2005. [26] R. Khanna, Dark Continents: Psychoanalysis and Colonialism, Duke University Press, Durham 2003. [27] G. Wekker, White Innocence: Paradoxes of Colonialism and Race, Duke University Press, Durham 2016. [28] F. Filippi, Noi però gli abbiamo fatto le strade, Bollati Boringhieri, Torino 2021. [29] S. Lindqvist, Sterminate quelle bestie, Ponte alle Grazie, Firenze 1992; Sei morto. Il secolo delle bombe, Ponte alle Grazie, Firenze 2001. [30] R. Peck, Exterminate all the Brutes, 2021. [31] T. Bennett, The Birth of the Museum, Routledge, London 1995.



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Miguel Mellino, antropologo, è docente di Studi postcoloniali all’Università di Napoli «l’Orientale».

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