Narrazioni, razzismo, migranti, paesaggi: quattro temi messi in fila per lasciare apparire i fantasmi del colonialismo italiano. Le tracce indelebili della violenza coloniale che non siamo più in grado di riconoscere ma continuano a segnare il modo in cui pensiamo a noi stessi, al nostro paese e agli altri, le norme che produciamo, l’antirazzismo che pratichiamo. Nato come riflessione in occasione della «tavola rotonda: L’Italia coloniale e postcoloniale», lo scorso dicembre a Bologna[1] (e per questo con un registro colloquiale), il testo offre spunti per interrogare l’attualità del colonialismo e l’urgenza politica di «ricordare» per ripensare il presente.
Pubblicare oggi questo testo, vuol dire inoltre ricordare domani Yekatit 12 (il 19 febbraio per gli etiopi), la rappresaglia e lo sterminio di migliaia di civili seguito all’attentato a Rodolfo Graziani del 1937. Ricordare, anche per comprendere il conflitto che da due anni devasta il Tigray: i lasciti e le responsabilità coloniali, e l’assordate silenzio dell’Italia di oggi.
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Narrazioni
L’attualità del colonialismo - ovvero il perdurare di alcuni suoi aspetti nel nostro presente - mi pare molto chiara se analizziamo quattro temi chiave.
Un primo tema sono le retoriche, potremmo dire le narrazioni, tutt’ora intatte, che l’esperienza coloniale ha prodotto, sperimentato e sedimentato nei discorsi. Studiare il colonialismo italiano ci permette di riconoscere queste retoriche, anche quando si mescolano ad altre, per mascherarsi e presentarsi sotto un’altra veste. Una veste antirazzista, in certi casi, o di apertura nei confronti della differenza e dell’Altro quando invece sono figlie di una stagione in cui si andava nella casa dell’altro per renderlo uguale a noi. Faccio un primo esempio: quando si parla di cittadinanza, per superare il dibattito su ius soli e ius sanguinis, si propone un’idea di cittadinanza basata sulla cultura, e questo sembra un discorso, diciamo così, più progressista rispetto a quello di chi dice: sei cittadino se e soltanto se, appena uscito dall’utero della madre, tocchi il sacro suolo della patria, oppure sei italiano nella misura in cui ti scorre nelle vene almeno una metà di sangue italiano. Ebbene, se uno va a studiare la storia del colonialismo italiano vede che un’idea di cittadinanza per merito - come in fondo è quella «per cultura» - era presente già nel dibattito coloniale. Ci si chiedeva se gli Ascari, soldati delle truppe coloniali, dovessero rimanere semplicemente sudditi o se invece si fossero meritati la cittadinanza per il loro impegno a difesa degli interessi della madre patria coloniale. La cittadinanza vista come qualcosa che ci si deve meritare è senza dubbio un’idea partorita, almeno in parte, dall’ubiqua retorica meritocratica di oggi, eppure esisteva già anche in un discorso perfettamente coloniale, e noi non la possiamo comprendere fino in fondo, nella sua falsa «alternativa», se non ne tracciamo la genesi in maniera corretta.
L’altro esempio che propongo, e che ci permette di capire l’attualità, è il dibattito che nasce in Italia, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, per l’introduzione de i codici eritrei, cioè i primi codici di leggi per regolare la vita in colonia. Il dibattito più acceso ruota intorno alle pene, perché alcuni dicono che quelle previste dal codice eritreo dovrebbero essere commisurate all’idea di pena che hanno i sudditi e poiché questi sono dei selvaggi, con un’idea primitiva della giurisprudenza, bisogna introdurre pene fisiche, come le frustate, anche se siamo il paese di Cesare Beccaria: dobbiamo utilizzare questo tipo di pene perché altrimenti i nostri sudditi «non la capiscono». Qualcuno alza la mano e dice: «scusate, non siamo andati lì a portare la civiltà? Allora com’è che invece di portare la civiltà, il diritto, noi ci adeguiamo alle usanze coloniali per scrivere un codice che regoli la vita in Eritrea?» Se andiamo a leggere questo dibattito, con le varie posizioni espresse, ricorda molto da vicino quello fatto ai tempi dell’intervento dell’Italia nelle cosiddette operazioni di guerra umanitaria, o di polizia internazionale, per esempio in Afghanistan, con l’obiettivo di introdurre legislazioni che riformassero le consuetudini locali, introducendo un regime di pari opportunità calato dall’alto e insegnato, in qualche modo, ai selvaggi di turno, in quel caso gli Afghani.
Confrontare il dibattito di allora con quello odierno ci permette di vedere con chiarezza che le varie posizioni sono tutte coloniali, sia quelle di chi ritiene che si debbano seguire le usanze locali e poi, in un secondo momento, pian piano «evolversi», sia quelle di chi invece sostiene che si deve «esportare la democrazia» in maniera più rapida e diretta. Entrambe le posizioni sono perfettamente dentro a una retorica coloniale. E lo stesso vale per molti altri discorsi del cosiddetto «antirazzismo istituzionale», presentati come antirazzisti, in superficie, ma coloniali nel profondo, alla radice.
Razzismo
Un secondo tema che rende attuale il colonialismo è quello della razza. Il razzismo in Italia non nasce certo con la cosiddetta «avventura coloniale», era radicato da prima, e non soltanto a livello ideologico, teorico, ma come dispositivo che permetteva un ritorno economico. Quando la Repubblica di Venezia, periodicamente, a cavallo del 500, decideva che gli ebrei andavano espulsi dalla città, su base razziale e religiosa, grazie a quei provvedimenti entrava in possesso dei loro beni, di quello che gli ebrei, costretti ad abbandonare Venezia, lasciavano in città: il razzismo aveva quindi un immediato ritorno economico. Ma con il colonialismo si assiste a un salto, non soltanto di grado ma anche di qualità. Anzitutto, perché c’è una bella differenza tra colpire una minoranza, per via della sua presunta appartenenza razziale, e colpire invece la maggior parte delle persone che abitano in un territorio con lo scopo di mantenerle sottomesse a una maggioranza, usando come pretesto non solo la diversità razziale, ma la superiorità morale e culturale di una razza sulle altre. Per cacciare gli ebrei da Venezia li si bollava come diversi, come assassini di Cristo, come perfidi giudei, strozzini e quant’altro; per imporre le proprie leggi e il proprio dominio sui sudditi coloniali, invece, li si rappresentava come appartenenti ad una razza non soltanto diversa, ma inferiore. Una razza rispetto alla quale era necessario mantenere una differenza di prestigio, traducendola in consuetudini, comportamenti e infine anche leggi. Una differenza quindi sistematica (cioè ribadita quotidianamente in tutti gli ambiti della vita) e sistemica (cioè parte necessaria e insopprimibile della nuova società coloniale). Non va dimenticato che le prime leggi razziali italiane furono approvate e sperimentate in colonia ben prima che nella madrepatria fascista, e già in epoca liberale. E non va dimenticato che questo razzismo sistemico e sistematico entra in produzione negli stessi anni in cui si «producono» l’Italia e gli italiani.
I primi esperimenti coloniali italiani avvengono praticamente negli stessi anni dell’Unità: ancora Roma non era stata conquistata, quando la Società Rubattino acquista la baia di Assab, in Eritrea. E nel 1911, allo scoppio della guerra italo-turca che porterà alla colonizzazione della Libia, in tanti sottolineano la ricorrenza del cinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, presentando l’espansione in Africa come una sorta di completamento del Risorgimento, grazie alla quale l’Italia diventa una nazione europea di pari rango a quelle che già vantavano un Impero. Qualche uomo politico, come Stanislao Mancini, esprime dei dubbi, sulle prime: «Ma come, ci siamo appena liberati dagli austriaci e già andiamo noi a fare gli austriaci di qualche altro popolo?». Ma in breve ci si rende conto che gli italiani, per «farsi», come auspicava D’Azeglio, hanno bisogno di superare un razzismo interno - quello dei soldati piemontesi nei confronti delle plebi meridionali, ad esempio - attraverso un razzismo esterno, la contrapposizione e sottomissione di una più radicale alterità, presentata come inferiore. Il colonialismo fornì anche quest’occasione e impastò dunque di quel razzismo sistematico e sistemico l’Italia e gli italiani. Non tenere conto di questo, oggi, significa non poter capire né l’una, né gli altri.
Migranti
Terzo motivo di attualità del colonialismo credo sia la presenza di quelle figure che, fino alla Seconda guerra mediale, abbiamo incontrato soltanto andando ad aggredire i loro territori e portando violenza a «casa loro». Oggi, invece, abbiamo in Italia tante persone che provengono direttamente - o hanno le loro origini - nelle ex colonie italiane, e una di esse, la Libia, costituisce una sorta di terribile «filtro» per l’immigrazione africana in Italia, con tanto di accordi tra i due paesi proprio intorno a questa sua funzione. Se oggi sbarchi, respingimenti e porti chiusi riguardano spesso somali, ed eritrei, e coinvolgono costantemente la Libia, non è per uno strano caso del destino, bensì uno degli effetti del nostro colonialismo e della sua prosecuzione, con altri mezzi e altre forme, nel Dopoguerra. Di nuovo, non sapere questo ci mette nelle condizioni di non capire il presente. È come se un francese, di fronte ad un algerino, non sapesse che l’Algeria è stata una colonia francese e la decolonizzazione dell’Algeria ha comportato una guerra e vicende che fanno parte della storia della Francia. Mohamed Aden Shire, uno dei primi studenti somali che negli anni Cinquanta venivano a studiare in Italia, poi ministro nel suo Paese, ha scritto un libro intitolato La Somalia non è un’isola dei Caraibi, perché quando studiava a Roma, teneva delle conferenze, in varie città, sul colonialismo italiano in Somalia e si trovava a dover rispondere alle domande più improbabili sulla collocazione geografica del suo paese d’origine. Ed era molto stupito perché per lui, per i Somali della sua generazione, l’Italia era comunque un punto di riferimento, una presenza ineludibile, e s’immaginava che lo stesso valesse a parti invertite, e che la Somalia fosse ben conosciuta dagli italiani, non solo in quanto ex-colonia, ma anche in virtù dei tanti rapporti che ancora legavano le due nazioni.
Rapporti che, anch’essi, sono incomprensibili senza conoscere la storia del colonialismo. Rapporti che sono, anch’essi, alla base dell’emigrazione verso il nostro paese di tanti loro abitanti - e dell’emigrazione tout court, in certi casi.
Ad esempio, di recente, il presidente del consiglio, allora Matteo Renzi, e il presidente della repubblica, Mattarella, andarono in Etiopia a perorare gli interessi italiani nella costruzione di una serie di dighe costruite da Salini Impregilo sul fiume Omo (che in alcuni atlanti ancora è indicato come Omo-Bottego, perché la sua foce fu individuata da Vittorio Bottego, con una spedizione geografico-militare di straordinaria violenza).
Durante questa visita ufficiale, Mattarella ha incontro gli ultimi arbegnuoc, i partigiani antifascisti etiopi, con le loro vecchie divise, con le loro vecchie medaglie, e ha stretto le loro mani nella piazza dello Yekatit 12, così chiamata per ricordare lo sterminio di migliaia di etiopi in seguito all’attentato a Graziani, il 19 febbraio (per gli etiopi yekatit 12) del 1937. Ecco, di nuovo, cosa può capire di questa notizia odierna, chi non conosce la storia del colonialismo italiano? Come può comprendere che la falsa sistemazione dei rimossi e delle censure coloniali viene messa a lavoro in maniera opportunista, per oliare rapporti che oggi sono commerciali, neocoloniali e, ancora una volta, imperialisti?
Paesaggi
Finisco con il quarto elemento di attualità: il nostro spazio urbano, le nostre città, i luoghi e i paesaggi che noi abitiamo e che influenzano la nostra esistenza, il modo in cui la immaginiamo e le possibilità di modificarla. Questo paesaggio è strapieno di residui, tracce dell’epoca coloniale. Tracce lasciate da fantasmi, con i quali bisognerebbe cominciare a fare i conti, a confrontarsi, a negoziare la loro presenza nelle nostre città. Fantasmi perché queste tracce ci sono, stanno lì, eppure non esistono, perché nessuno le riconosce. Fantasmi che risvegliamo, ma poi rifuggiamo. Fantasmi che invece dovremmo imparare a evocare, per capire cosa fare di tutte queste vie, monumenti, luoghi che con i loro nomi e le loro fattezze che richiamano una stagione di violenza, sopraffazione, dominio nei confronti di altre genti. Una violenza mai curata, mai risarcita. Cadaveri insepolti e lasciati a marcire, nella generale indifferenza.
Con Resistenze in Cirenaica, a Bologna in particolare, ma con una federazione delle Resistenze che ha snodi in varie città d’Italia, da diversi anni stiamo agendo, in pubblico, su questi odonimi e monumenti coloniali, stiamo agitando il poltergeist di questi luoghi, oggi attraversati anche dai nipoti di ex sudditi coloniali, cioè persone che possono offrirci un punto di vista rovesciato, una narrazione alternativa. Stiamo portando avanti un discorso di storia pubblica, se vogliamo, per portare alla luce che cosa si agita sotto l’asfalto, quante tonnellate di oblio giacciono lì sotto, di che cosa sono l’indizio quei nomi, quelle pietre che non sono soltanto pietre, sono appunto simboli e come tali influenzano il nostro abitare. Siamo giunti alla conclusione che la rimozione di questi nomi, di questi monumenti - a parte casi eclatanti e più nuovi come il mausoleo per Rodolfo Graziani in quel di Affile - non sia l’azione più efficace, proprio perché abbiamo a che fare con il rimosso coloniale, e se la negazione della negazione può essere un tipo di affermazione, la rimozione della rimozione non genera una presenza più consapevole, la cancella e basta.
Nella psicanalisi la rimozione è un meccanismo di difesa da parte dell’inconscio, per proteggere il soggetto che in qualche modo si vergogna, prova disagio per un ricordo, e quindi inconsciamente lo rimuove. Per questo motivo, io tendo a non parlare di rimosso coloniale in senso stretto. Perché secondo me, altro che inconscia!, la cancellazione del colonialismo dalla nostra coscienza collettiva è stata molto consapevole. Si è voluto mettere sotto il tappeto quella sporcizia, ma non certo per vergogna, tutto il contrario: lo si è fatto per evitare di vergognarsi, per non dover prendere nemmeno in considerazione quell’eventualità. Più che una rimozione, direi che c’è stata un’interdizione, una censura: non aprite quella porta! Non solleviamo il coperchio del colonialismo, lasciamo lì, con le sue scritte sopra, con le sue aquile romane e i suoi nomi di stragi ormai dimenticate. Teniamoci la favoletta degli «italiani brava gente» e non indaghiamo oltre, potrebbero venirne fuori scomode sorprese. Se poi qualcuno si prende quella briga, allora neghiamo tutto, buttiamola in vacca, come si dice, mostriamo le fotografie di un qualche ponte, di una qualche strada, e richiudiamo in fretta quel coperchio, che ha delle così belle immagini sopra, così esotiche e affascinanti!
Ecco perché, nella nostra pratica «di strada» evitiamo il più possibile di operare un’ulteriore rimozione, di questi simboli e di questi nomi. Invece di cancellarli, ci sembra più efficace provare a spiegarli, esplicitarli, rimetterli in gioco con una nuova prospettiva. Raccontare chi era il tizio celebrato sulla targa di una strada, magari perché ricevette la medaglia d’oro al valor militare reprimendo la resistenza etiope nel 1939, e immaginare cosa succederebbe se a Berlino ci fosse una strada intitolata a un nazista responsabile di una strage di partigiani e civili in Italia.
Aggiungere invece che rimuovere: un’ulteriore targa esplicativa, un QR-code che rimandi a un sito internet, un’immagine, un rituale d’espiazione, un escrache…
Trasformarele tracce del colonialismo italiano dimenticate in giro per le nostre città in altrettante occasioni per ricordare, riflettere, ripensare quegli spazi e il modo di abitarli.
Note
[1]Punto Input, 3 dicembre 2021, con la partecipazione di Valeria Deplano, Matteo Dominioni, Miguel Mellino e Wu Ming 2. Si ringrazia Punto input per aver condiviso i materiali e Maria Carmela De Paola per la trascrizione.
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Wu Ming 2, scrittore.
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