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Vogliamo-vo(g)liamo



Nel panorama del femminismo radicale degli anni Settanta in Italia, prende forma un percorso collettivo di artiste femministe che esordisce nel 1974, nel solco teorico-militante aperto dalla campagna internazionale Wages For Housework. È il Gruppo Femminista Immagine di Varese che nel rifiutare il ruolo sociale di mamma/moglie, fa della casa e dei suoi artefatti uno strumento di produzione artistico-politica per la lotta femminista. Le pentole dipinte con colori accessi sono chiuse con il filo spinato, il grembiule da cucina è inchiodato su una tela, le «pagliette per le pentole» servono a creare quadri astratti e anche la polvere depositata sui mobili diventa il supporto su cui tracciare simboli di lotta. È la rappresentazione – e la denuncia – della «casa fabbrica», della casalinga come «operaia della casa» e del «lavoro d’amore» che inchioda le donne alla riproduzione. L’Immagine artistica declina il metodo teorico-politico del femminismo marxista della rottura, e la rottura è qui soprattutto creativa ed esistenziale, oltre che politica e militante. È la rottura con «la cultura della calzetta» e con la creatività imbrigliata nel domestico ma anche con il concetto di arte, con il ruolo dell’artista e con il sistema delle gallerie e del mercato privato. L’arte è lotta, lotta femminista nella fattispecie: sensuale, ironica, sapiente, e la rottura passa anche per l’«ascetismo rosso» di una certa sinistra, femminismo compreso.

Il volume La mamma è uscita. Una storia di arte e femminismo di Milli Gandini e Mariuccia Secol (Prefazione di Manuela Gandini, Derive Approdi 2021) ricostruisce, attraverso una trama testuale di documenti e articoli del e sul Gruppo, scritti tra allora e oggi, un’esperienza che per tutto il corso degli anni Ottanta continua a riflettere criticamente sul ruolo delle donne nel mondo dell’arte. L’estratto che proponiamo è un manifesto del posizionamento femminista, militante e artistico del Gruppo sul finire del decennio dei Settanta, quando anche la campagna Salario al lavoro domestico ha concluso, in Italia, la sua esperienza, e i movimenti radicali, femminismo compreso, ridefiniscono, sotto i colpi di una violenta controffensiva istituzionale, il proprio orizzonte politico e di lotta. Di quella fase politica è anche un’efficace termometro.


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Dopo gli anni passati nella militanza, nella creatività e nell’indagine espressiva, abbiamo sentito il bisogno di un confronto molto più ampio rispetto a quello attuato sino a quel momento.

È nata così l’idea di sentire le voci del movimento impegnato nei vari settori e ci è parso che l’idea di ritrovarci in un luogo comune per dialogare fosse necessaria.

Così nel gennaio 1978 abbiamo organizzato con un gruppo di donne iscritte al sindacato Arti Visive di Milano, il primo convegno nazionale delle operatrici delle arti visive «Donna-Arte-Società» [14-15 gennaio 1978], tenutosi a Milano allo Spazio Fomentini, nell’omonima piazza, vicino alla chiesa di San Carpoforo nei pressi dell’Accademia di Brera.

Donne di tutta Italia sono venute a dialogare e a confrontarsi: erano ben settecento.

Come gruppo promotore abbiamo prodotto un documento con un titolo significativo, serio e leggero nello stesso tempo. Era il risultato dell’elaborazione della nostra esperienza. Il titolo del documento era Vogliamo, vo(g)liamo, eccolo:


«Tematiche come: violenza, aborto, sessualità, maternità, salute, servizi sociali, crisi, repressione possono far sembrare la creatività un argomento non prioritario a chi è abituato a dividere i bisogni tra vecchi, nuovi, radicali, falsi, indotti ecc. Per noi si trattava di un bisogno contemporaneo agli altri: poter essere creative significa liberazione.

Abbiamo sentito il bisogno di confrontarci sulla creatività in generale e sull’arte in particolare proprio per il nostro essere operatrici delle arti visive, ed essere quindi dentro a questo lavoro.

Abbiamo molta confusione: diciamo di fare questo lavoro, ma si può chiamare lavoro? Nessuno ci ha costrette (sembrerebbe) a farlo, nessuno ci paga per farlo, nessuno ha deciso che noi siamo artiste, la controparte non è facilmente identificabile, l’arte è un falso problema? È al di sopra delle parti? L’arte è morta? L’arte deve essere individuale o collettiva? L’arte è in mano al potere? L’arte è contro di noi? L’arte è da distruggere? Può esserci un’arte militante? Esprimerci in un’opera è potere o è surrogato di quel potere che non abbiamo nella vita? Ma che potere abbiamo per esprimerci?

A tutte queste domande e ad altre ancora stiamo tentando di dare risposte in cui riconoscerci, risposte modificabili attraverso esperienze personali e confronto con altre donne. Intanto ci siamo accorte che all’interno del movimento si formano gruppi sulla creatività, che sempre più le donne vogliono scrivere, far musica, dipingere, esprimersi cioè, con «l’inutile».

È sicuramente una ribellione a un sistema che impadronendosi della nostra creatività l’ha resa consenziente e complice della nostra stessa oppressione.

Creatività di consenso (se così si può chiamare) nella produzione e riproduzione della forza lavoro, nell’arredo della casa, nell’abbellimento del nostro aspetto esteriore, nel nostro vestiario, creatività nel far bastare il salario del marito, nel consolare, nell’amare e anche nel tradire il maschio, nella cura dei figli, improvvisandoci medico e psicologo, creatività persino nel furto ai grandi magazzini per oggetti destinati a riconfermarci nel ruolo.

Insomma una creatività coatta per svolgere il lavoro domestico che è la nostra principale occupazione/disoccupazione.

Un’occupazione non pagata che fa di noi all’esterno della casa, anche quando rifiutiamo il ruolo assegnatoci, uno stuolo di disoccupate, sottopagate, precarie, dilettanti, incapaci e non perché siamo stupide.

Con il femminismo, la nostra prima risposta (cioè quella del nostro gruppo) non troppo approfondita, ma spontanea, era stata per alcune la cessazione di ogni attività artistica, per altre il cessare di produrre opere che rispecchiassero la nostra ribellione per rivendicare il potere sulla vita, in un certo senso un’«arte militante». L’abbiamo chiamata «Creatività del rifiuto», rifiuto da una parte del ruolo di madre e moglie e dall’altra di ogni discorso di corrente artistica, delle gallerie, del mercato privato, di ogni opera che non fosse contenutistica della lotta.

Senza troppo studio, con un po’ di miopia e anche con una certa felicità abbiamo creduto di esprimerci, di scegliere. Abbiamo affermato con sicurezza che tutte le donne sono creative, che la donna possiede l’unica capacità di creare, che l’arte e l’artista sono un concetto e un ruolo da distruggere. Abbiamo pensato alla creatività collettiva, ai prezzi politici, ai canali alternativi.

E siamo incappate in quello che Lea Melandri definisce il «miserabilismo di sinistra», ci siamo cioè negate bisogni e desideri di spazio, di gioia, di cultura e di affermazione personale; ci siamo poste regole austere proprio con noi stesse, abbiamo scoperto che i canali alternativi sono i canali della miseria, che i prezzi politici non risolvono né i nostri problemi di sopravvivenza né quelli di chi eventualmente acquista un’opera; che la creatività delle donne non esce fuori finché non si annulla l’incapacità di elaborare un’esistenza intellettuale autonoma dal maschile, finché non ci liberiamo della «cultura della calzetta».

Noi abbiamo visto attraverso l’esperienza di una nostra compagna (Mariuccia Secol), che opera in un atelier di pittura in un ospedale psichiatrico, come la stessa sorte di casalinghe, di sottomesse, di non autonome, ci accomuni alle radici alla follia delle psichiatrizzate

Donne ricoverate che, indirizzate dai medici all’atelier di pittura, al contrario degli uomini, non riescono a esprimersi con il colore e col segno, non ci provano nemmeno, continuano a fare la calzetta, unico umile segno in cui si riconoscono, in cui credono come immanenza: io sono questo e basta, la calza la so fare, la uso, la usano i miei parenti, la regalo, la vendo. Si fermano all’utile, al concetto che altri hanno determinato utile per noi.

È stato dopo queste amare esperienze che ci siamo accorte di essere costrette all’angolo, in difesa, nel ghetto anche con quest’arte femminista, ci siamo accorte di autoumiliarci, di aver subito retaggi dell’austerità dei compagni, di riprodurre, proprio con la nostra creatività militante, la cultura della calzetta nel senso dell’utile. Negli spazi-gioco consentiti ci lasciavano muovere, ci venivano a guardare, ne parlavano anche i giornali: fenomeni da baraccone.

Dopo aver sputato sugli astrattismi, sulle ricerche pittoriche e poetiche, sullo sperimentalismo, sulla gioia del colore e della forma, dopo aver perentoriamente affermato che dovevamo rimanere strettamente attaccate ai contenuti senza voli, abbiamo avuto voglia di volare. Volare e ricercare di fiore in fiore, e che questo è liberazione e realizzazione di sé.

Ancora una volta rifiuto di un’etichetta, di una costrizione, della nostra incapacità di sottomettere la nostra diversità.

Ci piace citare ancora Lea Melandri: «Una barbarie intelligente, una sensualità ironica, un’ingenuità sapiente forse non esistono ancora ma c’è già motivo di pensare che siano possibili. Per questa piccola speranza vale la pena di combattere i tristi, i noiosi, i bisognologhi, i miserabilismi: l’ascetismo rosso».

Vale la pena, aggiungiamo, di assaporare il piacere dell’arte per l’arte: non è mai stata la nostra, la modificheremo o la distruggeremo, intanto non vogliamo privarcene.

Non vogliamo però proporci una dissociazione: da una parte l’artista e dall’altra la donna come alcune compagne artiste prima e femministe poi o viceversa, ma mai contemporaneamente.

Una volta ci hanno accusato di strumentalizzazione del movimento perché avevamo abbinato «creatività e femminismo» in una mostra dibattito. Per noi sono state esperienze importanti e se oggi rifiutiamo l’etichetta di arte femminista e militante è per le ragioni che abbiamo detto e non perché ci sentiamo colpevoli verso il movimento.

Ognuna di noi affronterà il suo creare con tutta sé stessa se possibile, e probabilmente usciranno opere asciutte e senza voli, contenutistiche di una condizione non tanto di artista oppressa, ma dell’impossibilità stessa di essere artista.

Infatti molti affermano che la libertà personale dell’artista non ha alcun influsso diretto sulla qualità estetica delle sue creazioni ma per noi il nodo è a monte. Dobbiamo prima essere, ritenerci e essere ritenute artiste. Sì, noi vogliamo diventare artiste.

Ma volendo diventare e essere artiste, non intendiamo ricoprire il ruolo tradizionale di colui che traduce per gli altri la realtà in un linguaggio più o meno poetico, più o meno universale, e neppure il ruolo più nuovo di stimolatore e animatore per una demagogica «partecipazione sociale» che denunciamo come ennesimo imbroglio. Vogliamo essere individui che riescano a esprimersi intellettualmente e sensualmente per il piacere di farlo, per ricercare e sperimentare secondo le nostre necessità, per comunicare le nostre esistenze e chissà cos’altro ancora.

Dice Kate Millet: «Ci illudiamo che al mondo ci sia una quantità limitata di carta, di arte, di mete da raggiungere, di conoscenze. Ma ecco il problema: la conoscenza è veramente limitata ed è il sistema a limitarla».

Adattandoci al mondo esterno, firmeremo individualmente le nostre opere anche se sappiamo che non si cresce da sole e che tutte contribuiscono alla tua espressione, troviamo giusto usarci rispettando le diversità e l’individualità; affermarsi, emergere è un bisogno, un desiderio che dobbiamo realizzare per cancellare l’anonimato di sempre; ma discutendo, sviscerando tra noi le inevitabili rivalità, le aggressività, la privatizzazione delle idee.

Sì, noi vogliamo diventare famose.

Con il femminismo è iniziato dentro di noi il processo di liberazione intellettuale e sessuale che sta alla base del nostro cambiamento e molte volte ci sentiamo disperate di non poter esprimere tale mutamento, rimaniamo cioè nella miseria della dipendenza economica che ci fa retrocedere, mentire, tralasciare, morire.

Sentiamo l’urgenza di uscire all’esterno, di confrontarci con le istituzioni, di affrontarle, di inserirci e non è facile. Tutti ci incitano a farlo e poi di fatto ce lo impediscono. Per cui tra i tanti dubbi, abbiamo almeno la certezza che per diventare creative, artiste, dobbiamo distruggere i condizionamenti dentro e fuori di noi e che l’autonomia economica è un passo importante e fondamentale.

Non vogliamo essere portatrici di bisogni arretrati parlando di soldi in un momento in cui la sinistra maschile sostiene che la lotta per il salario non paga più, noi, non come giudici-organizzatori dei bisogni della classe, ma come soggetti di questi bisogni, ne parliamo. Rivendichiamo un salario per fare sempre meno lavoro domestico, per avere libri, viaggi, informazioni e mezzi, per non fare un terzo lavoro sottopagato e precario, per non essere costrette a inventarci atelier privati per bambini dove svolgere sempre un ruolo di madre-maestra.

Ma non ci fermiamo qui: vogliamo diventare delle professioniste nel senso di appropriazione di tutti i mezzi del professionismo. Rifiutiamo di usare esclusivamente materiali poveri, vogliamo poter usare dalle foglie ai computer, rifiutiamo di pagare cinquantamila lire di affitto al giorno nelle gallerie più scassate, vogliamo gratis, e meglio se le gallerie più prestigiose ci pagano; non vogliamo distruggere i musei, per il momento vogliamo entrarci, non vogliamo vendere demagogicamente ai poveri, ma ai ricchi e al prezzo più alto, non facciamo differenza tra la committenza pubblica e quella privata, per ora ambedue ci hanno ignorato. Chiediamo spazi lavorativi a giornali e riviste, alle Tv nazionali e private per scenografie, pubblicità e grafica non offensive per la donna, chiediamo che la legge del 2 per mille sia attuata soprattutto per noi, da sempre escluse, chiediamo che i comuni e le regioni non si ritengano a posto dando spazio nel migliore dei casi a una mostra di donne all’anno, che le potenti organizzatrici di mostre di donne che adesso hanno tanta fortuna e richiamo di pubblico grazie alla presenza del movimento femminista non si fermino ai nomi già famosi.

Infine la critica: non diciamo che la critica è parassitaria, lo è stata e lo è come tante specializzazioni, chiediamo che nella critica e nell’informazione si tenga conto del momento storico che le donne stanno attraversando, della ricerca che sta sotto a ogni espressione di donna, anche se non è la migliore, se non è graffiante, o se lo è troppo, se non spazia, se non è universale.

Ci vuole attenzione, non siamo naives o dilettanti, siamo persone impegnate a uscire fuori, faticosamente, giocosamente e anche con l’ingenuità del gioco, ma consapevoli, pronte a spazzar via ciò che riteniamo ci opprima, a volere e a prenderci di volta in volta ciò che riteniamo ci spetti.

L’appello è indirizzato ai grandi nomi, a quelli che fanno opinione, ai cosiddetti storici. Fino a quando ci potranno ignorare?

Le affermazioni del nostro bisogno di essere artiste, di inserirci nelle istituzioni, di diventare famose, sono l’emancipazione, non la liberazione; ci siamo tanto dibattute e adesso la proponiamo come piattaforma da cui partire; senza emancipazione si può solo subire, impazzire, morire, con l’emancipazione si può anche subire, impazzire, morire, ma si può anche tentare di vivere, di parlare, di viaggiare, di telefonare, di leggere, di dipingere, di liberarci.

Forse è un passaggio obbligato».

Firmiamo anche questo documento individualmente, coi nomi di ognuna di noi, del Gruppo Femminista Immagine di Varese: Milli Gandini, Mariuccia Secol, Silvia Cibaldi, Mirella Tognola, Maria Teresa Fata, Mariagrazia Sironi.

Per decisione di tutte le convenute al convegno si è deciso di accettare la presenza maschile (giornalisti, critici, ecc…) ma senza diritto di parola.

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