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Vaporscape. Tempo, cyberspazio, antropocene





L’Antropocene sarebbe stato lo stesso senza la rivoluzione digitale? Il cyberspazio, la rete, che ruolo giocano? In che modo l’immaginario dell’Antropocene ha a che fare con il cyberspazio privato, quello condiviso, quello generato dal complesso di reti e device di miliardi di persone? Una ricognizione spaziotemporale fra silenzio e immaginari.


* * *


L’esperienza del silenzio è disturbante.

L’esperienza della musica anche.

Nei momenti di solitudine, il silenzio è frastornante, non puoi negarlo. Cerco di sfuggirne sempre specie quando sono in un momento di forte negatività.

Credo di essere affetto da amusia.

C’era un tempo in cui il cyberspazio era l’unica utopia generazionale. E mentre mi arrovellavo a scrivere una tesi inutile camminavo per una Modena depressa illuminata da un faro viandante che non vuole vedere. Le vie. I portici. Cielo bianco senza scampo. Ville e giardini. Giardini vecchi e giardini nuovi. Giardini morti. Il duomo. Le icone dei partigiani. Poi lo studio, la grotta-laboratorio. L’antro. C’è tutto. C’è tutto ma non ci sono delle casse decenti. Anzi. Non ci sono proprio casse, output audio di nessun genere se non quelle incorporate al pc. Che sono spente. Mutate. Strano. Sei venuto con delle cuffie tu. Ecco.

C’era un tempo in cui la rete era l’unica utopia generazionale. E mentre mi arrovellavo a scrivere un progetto di dottorato inutile camminavo per una Palermo accartocciata e splendente, una sottile depressione via via inspessita, un vuoto di vita davanti. Inizia il mio inabissarmi. Una decompressione inversa. C’è bisogno di inondare le orecchie e la testa di voci, podcast, streamer, live, youtuber, per non sprofondare sempre di più.

Possiamo leggere il cyberspazio come uno spazio parallelo, surdimensionale, a quello geografico. Alcuni studiosi hanno invece parlato di geocyberspazio come l’effettivo spazio in cui si dipanano ormai le nostre vite. E okay.

Non ascolto vera musica forse da sette anni.

L’Antropocene sarebbe stato lo stesso senza la rivoluzione digitale? Il cyberspazio, la rete, che ruolo giocano? In che modo l’immaginario dell’Antropocene ha a che fare con il cyberspazio privato, quello condiviso, quello generato dal complesso di reti e device di miliardi di persone? L’utopia libertaria cyberspaziale, quella delle intelligenze collettive e della libertà di informazione, è crashata definitivamente o si è semplicemente arenata su una costa dove germoglia ancora qualche speranza?

Stai camminando sopra un pavimento bianco, rarefatto. Non ci sono le fughe tra i mattoni. Stai camminando sul niente, bianco. Appesi, su pareti bianche, neanche una macchia, ci sono delle cornici, dentro le cornici i meme. Oppure un fermo immagine. Devi premere al centro dell’immagine e potrai goderti Renzi che parla Inglese. Oppure un grosso pulsante Play: toccalo col dito ed ecco la nota audio trafugata dal gruppo delle mamme della 2° B, diventata virale.

Stai camminando in questo museo interattivo, un museo di cose inutili, inutili ma belle. Ci si muove da soli o insieme. Guarda questo meme, senti questo audio, dicono gli amici. Il web è un posto meraviglioso, dicono.

È inevitabile, però, non pensare a quanto tempo e quanta abilità abbiamo speso per costruire il grande museo. Potevamo fare altro, invece abbiamo fatto questo. Il museo è in realtà una discarica?

Il web è una livella: stessa connessione a internet, accesso agli stessi contenuti, stessa libertà di espressione. Certo è che con questi presupposti qualcosa in più la potevamo fare. Eppure forse una comunità virtuale che sia unita e coerente si sta creando, solo che ancora non riusciamo a vederla nella sua interezza. Forse qualcuno sta crescendo grazie alle opinioni espresse da qualcun altro, trovate e lette sul web, e noi non lo sappiamo.

Nel frattempo stiamo nel museo a pensare al genio che ci vuole, al talento che ci vuole per fare tutto ciò. Un’ala grande, bella grande, sarebbe dedicata alla musica vaporwave. Sfoggio di quel genio e di quel talento: «guarda cosa ti combino solo con un software, guarda in che dimensione ti proietto».

Prendi un brano di musica leggera, magari un pezzo disco o bossanova, lavori sui battiti, li rallenti. Cambi la tonalità, solitamente verso il basso. Fai passare i suoni dentro filtri per alterare un po’ i timbri. Il risultato è una musica anestetica, smussata, soffice. È la musica del passato suonata con strumenti del futuro. Quindi può anche turbarti. È la colonna sonora di un sogno che sta procedendo piuttosto bene, sì, ma occhi aperti perché dietro l’angolo c’è il solito clown con un’accetta in mano e non ha buone intenzioni.

Youtube. Contenitore, biblioteca, archivio, sfogo, palcoscenico, veicolo, strada, tv, cinema, radio, scuola, mezzo, vettore, vetrina, portale, rivoluzione. Youtube oggi è un gigantesco junkyard. Entri e si estende senza sosta, segui un sentiero e l’algoritmo ti porta a zonzo. Alle volte al punto di partenza. C’è tutto, compresi gli scarti. Gli scarti hanno fatto il successo di Youtube, all’inizio. Le chicche, i video amatoriali, frammenti di riprese chissà di chi, chissà di quando e dove, girati introvabili di chissà quale era ora digitalizzati e resi eterni. Le chicche e gli scarti, i resti. Ma non è da intendere solo con ciò che doveva essere buttato, è ciò che rimane invece. Ciò che resta fuori dalla grande produzione e distribuzione delle major discografiche o cinematografiche o televisive o editoriali e così via. Se ci pensate, se la creazione, l’atto creativo, è esigenza nonché prerogativa del genere umano tutto, pensate cosa potreste trovare lì, su Youtube. Continuando così arriviamo a considerare che in realtà gli scarti sono più dei prodotti, molti di più (quanti esseri umani, per esempio, con una connessione a internet e un device modesto sanno suonare la chitarra e possono riprendersi e caricare un video? Quanti invece hanno un contratto con una casa discografica, dei dischi pubblicati e distribuiti a livello mondiale? La proporzione è impietosa). Nessuna intelligenza collettiva, nessuna rivoluzione culturale, nessun salto di specie. Youtube non ha portato a nulla di tutto ciò. Vedete attorno a voi una rivoluzione in atto? Un nuovo organismo politico libertario come paventato dall’utopia dei primi informatici? Una nuova forma di sinergia intellettuale e artistica globale che si coordina al fine di perpetrare il bene sociale attraverso il libero sviluppo e la libera condivisione della conoscenza? No. Youtube resta uno junkyard. Enorme. È un cyberspazio ricorsivamente infinito. Trovate qualsiasi cosa su Youtube, purché abbia un suono e un’immagine (anche fissa) e non ne infranga le norme, potete caricare quello che volete, potete vedere quello che volete. Soprattutto, potete imbattervi in ciò che non volevate vedere, in ciò di cui ignoravate l’esistenza. È stato curioso osservare l’evoluzione dell’algoritmo di Youtube, oggi molto più affilato, preciso, e per questo forse meno interessante. Ma ci si può ancora perdere. Chi frequenta Youtube sa anzi, ha imparato, a perdersi. A farsi portare dall’algoritmo lì dove non aveva immaginato di trovarsi. Per scoprire robe nuove, altri scarti, altri resti. Nel mio caso, altra musica. Nello junkyard – Youtube tempo e spazio della musica, le epoche – gli anni – e i luoghi – le geografie – a cui brani, album, ep, demo, incisioni, registrazioni, appartengono, sono distribuite in maniera caotica, con il solo algoritmo che a seconda della tua esplorazione ti guida o meno. In uno junkyard puoi provare a cercare la pila delle carcasse di Cadillac, ma, qualora esista perché qualcuno ha cercato di ammassare lì tutto quello che somiglia alla carrozzeria di vecchie Cadillac, in mezzo ci trovi anche tutt’altro, accanto, sopra o sotto. Ma anche lo junkyard ha la sua estetica, la sua forma, il suo paesaggio è riconoscibile nella sua eterogeneità, nel suo essere deserto in quanto oceano di scarti e resti. Qualcuno leggeva nello junkyard una forma di Wilderness. Io leggo nello junkyard-Youtube l’emblema della fine dell’utopia della tecnologia digitale e cyberspaziale. Come dire il transumanesimo è solo l’ennesima illusione escapista. È l’Antropocene che dobbiamo attraversare, nessuna fuga biotecnologica, nessuna intelligenza collettiva, nessuna escatologia mistica o rivoluzione ambientalista. Essere nell’evento-antropocene è anche questo: prendere atto che un’utopia totalmente antropocentrica (la rivoluzione informatica e digitale, l’era dell’informazione) non conduce a nessuna arca per attraversare il diluvio. E anche in questo, nel suo degradarsi a mera estensione, seppur libera, anzi, liberissima e smart, a contenitore-tv-2.0, ciò che era utopia antropocenica diventa antropocene reale. Più complesso, più spaventevole, più disturbante, più spaesante, meno pensabile, ma non meno umano, non meno terrestre, non meno immaginabile. Rimaniamo su Youtube, perché l’Antropocene non è solo nel suo essere un contenitore di scarti e neanche nel suo essere un altrettanto utile contenitore di videolezioni e tutorial su qualsiasi cosa (che in un’ottica di utopica intelligenza collettiva post-umana o di un’utopica nuova consapevolezza sociale non giocano nessuna partita). L’Antropocene, sappiamo, non è l’apocalisse e neanche il post-apocalittico. L’Antropocene è tracciare mappe dell’altrove, immaginare scenari possibili, cacciare spettri, fondare cosmogonie per superare vivi il grande inverno. Antropocene è sia il collasso dello Spazio che del Tempo, ma è nel crollo, diceva qualcuno, che si generano spazi imprevisti, è nel crollo che si impara a pensare il Tempo e lo Spazio in modo differente. Nessuna soluzione usa e getta però, nessuna escatologia predestinata o escapismo tecnomagico. Il punto non è esplorare lo junkyard sperando di trovare al suo interno più remoto un alieno superpotente che ci dia la tecnologia per pulire l’aria e gli oceani, non è esplorare lo junkyard con la convinzione che siamo destinati a trovare una grotta incontaminata sotto un rottame, un eden sotterraneo di praterie e cascate ove ricominciare con la nostra specie nell’attesa che il mondo si ripulisca da sé, non è neanche sperare di trovare un’arma nascosta dai potenti in grado di fornirci energie pulita, illimitata, riproducibile all’infinito e gratis. Il punto è prendere atto che nello junkyard si sono formati degli organismi viventi e comprendere che lo junkyard si può abitare, perché già abitato. Questo organismo è la musica vaporwave e i suoi derivati. È un’esistenza criogenica la sua, si evolve in retrospettiva, nato in uno spazio-tempo antintuitivo, splittato. Perché il cyberspazio è anche un cybertempo. Non è una questione meramente di quanto ci metto a scaricare un dato file, a collegarmi con una data persona o luogo. È una questione di esperienza in sé, come dello spazio, anche del tempo. È come il Tempo entra nel tempo del cyberspazio e come ne esce. La vaporwave prende la luce o l’oscurità dell’Antropocene come cosmogonia e come evento culturale, e restituisce una zona grigia fine a sé stessa, autoreferenziale ma anche autopoietica. La nostalgia per un’epoca mai vissuta è qualcosa che nell’Antropocene manifesto si traduce nella nostalgia per un’epoca, gli anni ’80 principalmente (alle volte anche anni ’90 ma mai oltre nel prima e nel dopo), oggi nota ai più come gli anni della spensieratezza consumistica, un decennio di eccessi che hanno prodotto costumi sgargianti e immaginari bui. L’immaginario anni ’80, digerito, agognato e disprezzato, viene rigurgitato a livello estetico e sonoro. Sono grumi di brani, giri, anche solo brevi frasi, ritagliati e dilatati al massimo fino a renderli irriconoscibili. Il musicista vaporwave prende così il passato, lo ritaglia, e lo rende irriconoscibile rallentando il tempo. Il futuro della musica, sembrano dire, è il passato dilaniato, fatto a pezzi, poi dilatato, filtrato, rimpastato. Poi delay, riverberi, beat ripetitivi.

Ascolto solo vaporwave, da dieci anni. Non riesco ad ascoltare altro.

Il silenzio è oggi una pratica impossibile. Quasi bannata. Il silenzio oggi è tabù. Quand’è stata l’ultima volta in cui siete stati in silenzio per un giorno intero? No tv, no pc, no smartphone, no radio, no social, no streaming. Cosa c’entra questo con la crisi dell’immaginario?

Fare tanto con poco è una delle regole dietro la vaporwave. Non è la prima volta che una cosa del genere accade in musica. Erik Satie aveva teorizzato una musique d’ameublement, una musica che non ha bisogno di essere ascoltata e che si confonde con l’arredamento. Ripetitiva, fa parte dell’ambiente ma non ne è la protagonista. John Cage ridimensionò la responsabilità del compositore dal fare all’accettare e all’organizzare. L’azienda Muzak si propose di comporre e vendere elevator music per riempire lo spazio sonoro di uffici e centri commerciali a partire dagli anni ’20 e ’30 del Novecento: si trattava di asettici arrangiamenti easy listening di classici della pop music del momento. L’idea piacque a Brian Eno, il quale provò a dare un’anima alla Muzak e la chiamò ambient music. Mark Hollis dei Talk Talk disse di non produrre suoni se non hai una buona ragione per farlo. Esigenze artistiche e in qualche caso commerciali. Con quali esigenze arriviamo alla vaporwave, al 2010?

Non mi piace il modo in cui la musica altera il mio umore, il mio pensare.

La vaporwave è la musica che ascolti quando non ascolti musica.

La vaporwave ha vari sottogeneri. Dreamtone, slushwave, quelli che preferisco. Una delle anime principali è la mallsoft. Poi dreampunk, vapordrone, churchwave, space ambient. Andate ad ascoltarla e capirete «la musica che ascolti quando non ascolto musica».

La pratica del silenzio è in realtà pratica di ascolto di sé stessi. Per questo ti destabilizza.

Mi fa orrore il vuoto.

Normale.

La vaporwave esiste in questa dimensione spettrale, è una musica che non è musica, è la musica, il brusio, di fondo del nostro quotidiano antropocenico occidentale e urbano, ove il silenzio è a conti fatti irrealizzabile. La vaporwave è anche un genere nuovo, germinato da Youtube. È più un sentire, una sensibilità del Tempo e dello Spazio, prima di essere del tempo sonoro e dello spazio sonoro, del tempo e dello spazio culturale.

La vaporwave ha sviluppato un’estetica sonora riconoscibile – anche visuale, ma non ne parleremo – e c’è chi dice che come genere sia già estinto. Non è così perché lavori ne continuano a uscire solo che gli stilemi si sono evoluti, ciò che era una sensibilità è diventato un linguaggio.

Tutte le arti stanno rispondendo all’Antropocene, l’evento-antropocene e la cosmogonia-antropocene. Mi chiedo cosa faccia la musica. Non basta scrivere dei testi che parlino di emergenza climatica per poter dire: quella lì è musica dell’Antropocene. Esistono film dell’Antropocene, romanzi, arti figurative. Dove sono i suoni dell’Antropocene?

Se la nostra realtà è geocyberspaziale, vuol dire che anche il cyberspazio è geografico in qualche modo. Qual è il rapporto fra musica e geografia? Se il cyberspazio è esperito come un luogo, culturalmente e cognitivamente, se la nostra realtà spaziale è geocyberspaziale, qual è la sua musica? Insomma, l’Antropocene come mondo-tempo, come immaginario della Terra e sogno del Tempo, che musica ha? Che musica fa?

C’è chi ha letto nella vaporwave il trionfo della nostalgia come male di fine millennio ove schiere di giovani nostalgici e inetti languivano paralizzati di fronte i loro schermi, paradisi digitali e deserti reali, mondi virtuali, escapismo in technicolor, inazione, involuzione, rifiuto del mondo, esci fuori a giocare, a quando una ragazza. Ciò che ha segnato i nati negli anni ’90 non è invece che come un massiccio monolite al centro della stanza (rubo questa metafora a Meschiari, non me ne voglia), un ingombrante, assillante, irrisolto e-ora. L’immaginario di quegli anni della tv davanti alla quale molti di noi sono stati piazzati, cartoni animati, videogiochi appunto, film, racconti, miti, icone e poi i loro, i sogni dei genitori, nutriti a immobilismo e comodità, sogni coltivati nella bambagia e infranti poi per noia, affogati in decenni di abbondanza di tutto, consumismo del cuore e della mente, annichilimento e dolciumi. Sì, la nostalgia è una malattia a volte, ma non è questo il caso. Si tratta più di melanconia invece, un avvertire, un sentire, un sentimento del tempo appunto, quello cioè che doveva essere il nostro tempo, per come ci è stato raccontato, per come lo abbiamo immaginato, è tornato indietro, ripiegato su sé stesso, accartocciato, in reverse senza annullarsi mai del tutto come un limite che tende a -∞ di immagini e suoni e melodie e paesaggi sonori non nostri ma impressi a caldo e poi dimenticati e poi comparsi di nuovo quando le pieghe del ricordo si disperdono. L’udito non è selettivo, non è come la vista, non puoi scegliere di non ascoltare e ciò che di suono si lega all’esperito resta poi come eco nella costruzione di nuovi suoni. La vaporwave non è celebrazione di una nostalgia che rifiuta il qui e ora, è bensì un canto di lutto, una celebrazione, un’epopea del crollo di una civiltà che ci era stata promessa come la migliore possibile e che non abbiamo neanche avuto il lusso di rifiutare. La vaporwave riflette questa frantumazione del Tempo come linea retta trionfante verso il futuro e il progresso. La sperimentazione, che dà poi vita ai sottogeneri spesso più creativi e autentici, parte proprio dalla manipolazione del tempo della musica in senso storico ed in senso fisiologico. Se i sottogeneri sono le strade più fruttuose è proprio per la peculiarità della vaporwave, un genere, un fenomeno, che sembra autoconcludersi nel momento in cui nasce. La vaporwave è nata al passato: sembra nata nel passato, appartenere al passato, ammiccare al passato, influenzare il passato. A chi parla la vaporwave? Non ci sono dei testi, non ha interessi a riferirsi al presente. Nella vaporwave classica le poche parti cantate sono samples, estratti e ritagli di strofe, ritornelli, a volte solo uno o due versi di brani vecchi. Questi samples vengono sfilacciati con filtri ed effetti vari ma soprattutto ne viene alterato il tempo. Rallentata, la voce ne risulta distorta, diventa un suono, un coro ossessivo in cui non si distinguono più le parole, il significato si esaurisce nella melodia, alle volte sfocia nel rumore. Come il mito di eco e narciso in rewind, controintuitivamente il suono delle parole prende corpo più viene rallentata la voce. Musica, suono e voce nel perdere il loro legame originario (il brano da cui il sample viene preso), che è semantico e melodico, ne ritrovano un altro, primigenio, umorale, viscerale, che trova in una melodia distorta, irriconoscibile, ombrosa, ctonica, un significato nuovo quasi pre-linguistico. Alla voce viene sottratta la lingua per ricostituire un linguaggio abissale. La voce si fa puro suono, pura melodia. Tutta la potenza infinita del digitale per trasformare la voce, la cui natura è ultimamente analogica, in una melodia sonora, cavernosa, che rievoca dimensioni esperienziali perdute. Il software realizza così il collasso dei ritmi e delle produzioni anni ’80, alle volte grottesche quasi nel loro essere barocche. Filtri su filtri su effetti, qualsiasi programma basta. La vaporwave, che prende sangue dalle vene della musica ambient e lo-fi, è un genere nato estinto, uno spettro che viene da un futuro archeologico e da un passato futuristico, che si è incarnato per abitare il clash del nostro presente con le visioni del futuro sognate dal passato.

Forse però questa musica è un tentativo di scappare dal letale confronto con il passato. Una via di fuga dal citazionismo continuo. Allora tanto vale dichiararlo, il citazionismo. Si fa musica con i resti, con una ricetta di recupero per una musica di rassegnazione. È una medaglia di bronzo che ci consola dal non essere riusciti a fare di meglio, almeno non ancora. Dal passato peschiamo per rendere il presente sopportabile, meno amaro, il quale altrimenti ci schiaccerebbe.

Se non è semplice capire a chi si rivolge la vaporwave, possiamo provare allora a chiederci cosa vuole dire. La vaporwave costruisce paesaggi sonori memoriali, ove la memoria non è strettamente la rievocazione di qualcosa di accaduto, bensì un sentimento del tempo, la percezione dello scarto fra tempo interiore, tempo esterno e Tempo tramite la risemantizzazione di scarti e resti di suoni, musiche, melodie, sottofondi, sfondi, rumori in cui ci si è imbattuti chissà quando, che si sono attraversati chissà quando, inconsapevoli. È memoria di sé nel mondo del Tempo, è la rimembranza del Tempo attraverso noi stessi.

Il materiale sonoro è fatto di scarti e resti dell’immenso junkyard che è Youtube. La vaporwave è una creatura di YouTube che oggi ormai popola anche le altre piattaforme di streaming musicale. Sono rarissime le apparizioni di artisti vaporwave fuori dal cyberspazio. Oggi la vaporwave si fa anche senza samples, si producono e si riproducono quei suoni lì ex-novo, soprattutto nei sottogeneri. Oggi la vaporwave si è esaurita, così dicono, e io mi chiedo quando invece sia mai stata esauriente, a chi si è rivolta, dicendo cosa e come? Sappiamo solo tracciare dei luoghi probabili, il cyberspazio, Youtube, la rete, un tempo anagrafico, circa il 2010, e un tempo biografico, gli ultimi dieci anni. Che visione di futuro ha costruito la vaporwave anche nella sua dimensione estetica?

La musica vaporwave accresce gli spazi in cui per un attimo possiamo respirare, aggiunge un’ala al museo, un cortile alla discarica, e ci fa sperare un po’. Il futuro è così incerto che la vaporwave ne crea uno che certamente non esisterà.

La vaporwave ci dice proprio questo. La vaporwave svela il fallimento della retorica «impara dal passato glorioso», indicando invece una via possibile per orientarsi fra gli scarti e i resti dello junkyard che è il nostro presente, proprio a causa di quel passato. Questa è l’essenza antropocenica della vaporwave, non un insegnamento sul cosa fare ma sul come sia possibile far reagire l’immaginario, come attivare un worldbuilding personale fra scarti, resti, scorie e minacce per affrontare il collasso. La vaporwave ci mostra che abitare il geocyberspazio del presente e del futuro è possibile ed è possibile sopravvivere solo rinegoziando le nostra idea Tempo e Spazio. La vaporwave è una figlia dell’Antropocene. È proprio nel crollo, dicevamo, che si creano spazi di speranza. Le uniche parole, come detriti di significato che bruciando in caduta, o in volo, nell’atmosfera ci indicano la via, che accompagnano i migliori e più recenti album vaporwave sono i loro titoli e sono quelle che chiuderanno queste pagine. Building a better world, New World disciples. E così sia.




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Giuseppe Sorce (1991) vive e lavora a Palermo, è docente nelle scuole secondarie. Si laurea in Lettere moderne a Palermo con una tesi in antropologia culturale sul rapporto uomo-computer, linea di ricerca che seguirà con la tesi magistrale all’Università di Bologna sul cyberspazio e l’epistemologia della geografia. Si occupa di tecnologia, narratologia, Antropocene e immaginario geografico. Ha scritto per minima&moralia, Machina, La grande estinzione e collabora con la rivista Dialoghi Mediterranei.


Giuseppe Tancredi (1991) vive e lavora a Palermo, dove è tutor e insegnante. Si è diplomato in Musica Elettronica presso il Conservatorio di Palermo con una tesi sul paesaggio sonoro urbano, e specializzato in Psicologia della Musica presso University of Sheffield con una tesi sperimentale sulla musica come strumento di marketing.

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