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Di animali scomparsi e altri mondi





«È esistito un tempo delle origini nel quale animali e umani erano identici» forse qui sta il perché del fascino che hanno su di noi, che ci ostiniamo a umanizzarli in pet inoffensivi mentre avvertiamo che il percorso utile a noi è a senso inverso.


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Il colore del mare dice l’autunno con fosforescenza. Alghe microscopiche e copepodi si ritirano fin quasi a scomparire. Mentre venti freddi rabbrividiscono la superficie, sempre più rari gamberetti e flagellati continuano ad abitare le acque del mondo di sopra. Tutti gli altri se ne vanno altrove, a latitudini più tiepide, oppure trovano riparo nel mondo di sotto, scendono nelle acque profonde, abissi quasi intatti, nei quali ci si muove grazie a sonar e sofisticati sistemi di comunicazione.

L’automobile procede nel bagliore; aromi di salsedine sul parabrezza, gli pneumatici schizzano minuscole erosioni di rocce sedimentarie, frammenti di conchiglie, antichi ripari di molluschi. I fanali investono insetti, moscerini e le ultime zanzare stordite che si appiccicano alla carrozzeria. Scanso la carcassa di un piccione morto sulla carreggiata, pranzo di gabbiani reali e mugnaiacci, e procedo lungo il bordo. A sinistra i binari della ferrovia, la National 7, il Parc de Vaugrenier, le Terre Altissime. Dall’altra parte il grande blu.

È un iniziale scoramento, una vertigine naturale quella che prende un osservatore che si trovi ad abitare questo angolo di mondo, che segna un confine a strapiombo nel quale le montagne, iniziate a migliaia di chilometri di distanza, a Vienna, s’interrompono di colpo nel Mediterraneo. Oltre seimila metri di dislivello dalla cima più alta del Mercantour fino agli abissi del mare più profondo. E questo liquido cangiante, ora salato ora dolce, mai fermo, ora più caldo ora più freddo, superficie notturna cosparsa di vita e vita che si rintana negli abissi all’arrivo della luce, questa linea dell’orizzonte che frigge e muta colore al mutare delle stagioni, sembra riprendersi a piccoli pezzi rocce e sabbia.

Questa bocca, cavità mediterranea che ci ingoia: tutto ritorna al mare.

Quando la tempesta scoppia su in alto e i venti gelati del nord incontrano il calore mediterraneo, la foudre esplode rischiarando le notti sul monte Bego e richiamando alla mente antichi riti rimasti scolpiti sulle pietre nelle terre alte. E allora tutto comincia a scendere veloce e il mare raccoglie alberi, bestie e uomini.

Durante la tempesta mute di lupi ripartono nell’aria elettrica e vagano per mesi attraversando i boschi, perdendosi tra i sentieri sepolti dal fango, scendono sulla strada asfaltata e rimontano svelti quando l’asfalto viene inghiottito dal fiume. Cervi e camosci, fradici di pioggia, risalgono i pendii al riparo tra le rocce, mentre nei fiumi, trote, barbi e anguille si conficcano nella sabbia. Scoiattoli, accecati dall’agitarsi delle foglie dei rami ancora carichi della fine dell’estate, abbandonano le provviste e fuggono nello stridore. Al buio, le linee telefoniche divelte dai tronchi, ombre di uomini lasciano le loro case, altri ci si intanano e aspettano che la tormenta cessi il suo turbinare. I morti del cimitero di Tenda rimontano la terra e partono verso il mare.

Sulla spiaggia della Gravette giace sul fianco un cinghiale, il pelo irsuto, nerissimo, le zampe a mollo nell’acqua. Tronchi e rami sono dappertutto e continuano ad arrivare portati da onde che sembrano non finire mai. Taniche di plastica galleggiano al largo formando minuscoli isolotti colorati, mentre alcune boe hanno ceduto alla furia del mare e sono arrivate fino alla spiaggia. A l’Ilette un piccolo di camoscio è trascinato dalla corrente fino a riva. Un cane a spasso sulla spiaggia lo esamina con attenzione, gli gira intorno veloce fiutandolo con foga fino a che un uomo non lo richiama a sé e, per un attimo, il cane resta fermo, come attratto da un mistero conosciuto, indeciso se seguire l’umano di tutti i giorni o restare ad annusare l’odore del bosco annegato nel mare.

Cosa annusava il cane? Chi annusava? Quanti altri animali avrà inalato attraverso il pelo irsuto del camoscio annegato sulla spiaggia? Quanti animali non umani si sarebbero decomposti in quella che, nel giro di poco tempo, sarebbe diventata una carcassa? Dove sono finiti tutti gli altri? Quale direzione nella tempesta?

In un saggio che compare all’interno di un libro edito da Il Saggiatore, John Berger si chiede, sin dal titolo, con il suo consueto genio scrittorio, perché guardiamo gli animali. La risposta prende le mosse, inevitabilmente, dalla frattura individuata da Lévi-Strauss, da quel ciclo maledetto dal quale l’animale umano non è più riuscito a tornare indietro. Una separazione che si lascia alle spalle altri modi e altri tempi della relazione animale non umano e umano, come il fatto che gli animali, per lungo tempo, sono stati oggetto di venerazione, portatori di poteri che arrivavano al punto da far sì che fossero gli umani stessi a sentirsi incapaci di comunicare con gli altri animali. La separazione individuata da Lévi-Strauss, tuttavia, è relativa agli ultimi quattro secoli di storia, ed è ben diversa da quella che popola, possiamo dire da sempre, miti e racconti di migliaia di popoli. I miti intorno alla separazione tra umano e animale, infatti, sono antichissimi e si ritrovano in migliaia di popoli diversi e a diverse latitudini. Jean-Loïc Le Quellec e Bernard Sergent ne hanno studiati e raccolti moltissimi nel Dictionnaire critique de mythologie e possiamo osservare che quello che li accomuna è il fatto che, ogni volta, è esistito un tempo delle origini nel quale animali e umani erano identici, e poi, in modalità diverse e a causa di avvenimenti particolari si sono separati. E i miti nascono proprio per narrare questa separazione. Così, per esempio, in un mito Šerente, gli animali erano uomini primitivi, presso i Tlingit fu un corvo-demiurgo che trasformò dei pescatori che lo minacciavano in una serie di animali, sulla base dell’abito che portavano. In Asia e nel Sud-Est, presso i Ngaju, si ritrova una coppia originaria vegetale che originò diversi figli, tra i quali i più grandi sono gli antenati di maiali, cani, galline, spiriti e l’ultimo, degli uomini. In Australia invece, i primi esseri erano mezzo uomini e mezzo animali.

Sul tema delle origini degli animali, invece, esistono molti miti che li situano come creature ctonie, abitanti il mondo di sotto. «In Africa, i Čwana fanno derivare uomini e animali dal mondo inferiore, da un buco scavato nella superficie terrestre. Lo stesso tema è attestato presso i Celti, poiché il mito di Nera mostra dei branchi di animali fantastici usciti dalla caverna di Cruachu»[1]. Questi miti delle origini ctonie sarebbero una possibile spiegazione degli animali dipinti nelle caverne del Paleolitico superiore nella zona franco-cantabrica. Perché sono animali quelli che venivano disegnati nelle caverne del Paleolitico. Animali e nient’altro. Non paesaggi, non animali dentro a paesaggi, non animali e umani, ma animali e basta. L’uomo era legato all’animale non da un semplice rapporto di dipendenza che andava dal cibo, alle pelli per i vestiti, all’animale da caccia, ma la relazione era totemica, l’uomo venerava l’animale percependone la distanza, una distanza incolmabile attraversata dall’abisso del linguaggio.

L’animale era vicino e lontano allo stesso tempo, ma, in ogni caso, sostiene Berger, era presente: «in otto segni zodiacali su dodici comparivano degli animali. I greci rappresentavano ognuna delle dodici ore del giorno con un animale. Gli indù pensavano che un elefante reggesse la terra sul dorso e che una tartaruga sostenesse l’elefante [...] Gli esempi sono infiniti. Ovunque gli animali offrivano spiegazioni o, più precisamente, presentavano il proprio nome o il proprio carattere a una qualità che, come tutte le qualità, era, nella sua essenza, misteriosa» [2].

In questo contesto l’antropomorfizzazione, una fase considerata successiva all’antropomorfismo, termine assai polisemico, ha avuto un ruolo centrale. Se già l’antropomorfismo non era una forma di naturalismo, ma piuttosto un modo per stabilire una diretta continuità tra l’uomo e la divinità, anche l’antropomorfizzazione, ovvero l’attribuzione della forma umana all’animale o alle forze della natura, rileva di questa continuità. Una continuità marcata, allo stesso, tempo, dalla distanza. Al contrario di forme veriste, troviamo forme che vogliono rappresentare l’irrappresentabile, ovvero quella distanza che separa il divino dal mondo dall’umano. Gli animali diventavano metafore viventi e modelli di comportamento e a ciascuno corrispondeva una caratteristica come il coraggio, la forza, l’astuzia.

Ma oggi che cosa guardiamo? Oggi che abitiamo in case e appartamenti sigillati al fuori, oggi che al massimo mangiamo animali, li commerciamo, ma li abbiamo ufficiosamente banditi dalle nostre vite urbane più o meno cittadine, con poche differenze anche nelle zone di campagna, estensioni meno dense di abitati umani, o piane industriali, discariche nucleari. Oggi che, dopo averli resi macchine, oggetti da studio, reperti esposti e ordinati in vetrinette numerate, o rinchiusi vivi in quegli spazi che hanno preso il nome di zoo[3], che ancora oggi vantano milioni di visitatori; oggi al massimo possiamo dire, con Berger, di essere circondati da pet, animali da compagnia che releghiamo nei nostri spazi, educhiamo secondo le nostre regole e cibiamo con cibi preparati dalle industrie.

Al netto di rewilding [4] più o meno studiati ed ecologie profonde comunque essenziali, prendere atto di questa sparizione è forse l’unica vera occasione che abbiamo per evitare di restare accartocciati in momenti di compassione temporanea che ci portano a disperarci, seppur giustamente, per l’uccisione, tragica, di un’orsa o di un tricheco, senza che però si riesca mai a traslare l’attenzione a sofferenze altrettanto prossime e animalumane.

Un romanzo tradotto di recente in Italia per l’editore Black Coffee, Ruthie Fear di Maxim Loskutoff, è un buon esempio di cosa significhi imparare a disabitare un mondo che è finito e, allo stesso tempo, è un ottimo esempio di quanto la letteratura sia ancora in grado di intercettare e creare narrazioni essenziali, immagini-rifugio, visioni future ad uso presente. Loskutoff riesce a raccontare la distruzione di un intero territorio, la Bitterrot Valley, in Montana, e a creare un personaggio di rara potenza, Ruthie Fear appunto, la protagonista del romanzo. «A soli cinque anni Ruthie percepiva la vastità dell’universo. In esso si sentiva un puntino. Immaginava di attraversare il cosmo sulle tracce di quel predatore, senza paura né fame, superando strani mondi e nebulose torreggianti di gas verdi e viola larghe milioni di miglia» [5].

Ruthie Fear vive in simbiosi con gli animali, si muove in un territorio che conosce a memoria e intreccia relazioni sociali con personaggi complessi, che vivono perlopiù di espedienti, ma che, tutto sommato, stanno in equilibrio e vengono accolti da un luogo che li protegge. Tuttavia, già da bambina, Ruthie avverte una presenza misteriosa e inquietante, e questo oscuro avvertimento le si ripresenterà una volta diventata adulta, un’adulta che fatica a vivere nel mondo degli uomini. Il luogo che era stato la sua casa, un territorio inviolato e rimasto ai margini del vivere contemporaneo viene sconvolto dal mondo degli affari che lo trasformerà in un luogo di produzione e consumo. La catastrofe ecologica incombe, ma Ruthie Fear decide di non sottrarsi a un destino segnato e resta nella valle insieme a tutti gli altri abitanti. La paura che porta cucita nel cognome sembra essere anche il motore del suo coraggio, ma un coraggio che non è quello della lotta o della vittoria, bensì quello, ben più complesso, della resa. Ruthie Fear non si sottrae alla fine, e, in questo modo, nell’attesa, trova un nuovo inizio. Il romanzo di Loskutoff pare dirci che, nella fine, c’è sempre un nuovo inizio, ma non lo fa attraverso un lieto fine o il finale che tutti vorremmo, lo fa recuperando antichi spiriti guida, lupi dal manto nero come il carbone e un ragazza che ricorda l’importanza del coraggio di essere fedeli a tutto ciò che si è cominciato spontaneamente [6], come scriveva Etty Hillesum, un’altra giovane donna che ha praticato il coraggio della resa.

Insieme alla sparizione degli animali non umani c’è un’altra sparizione che incombe: quella dei luoghi. Ou suis-je? si chiede il filosofo francese Bruno Latour in un piccolo libro uscito in epoca pandemica (tradotto in italiano per Einaudi con il titolo Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia). Dove si trova il puntino nero che procede sullo schermo del navigatore mentre l’automobile avanza nel sole? Il puntino si sposta in minuscoli scatti, scivola in avanti senza sforzo apparente, mentre guardo la strada dritta che costeggia la rena e, a rapide occhiate, guardo il puntino nero muoversi, mi inseguo e, insieme, mi ritrovo grazie a una serie di satelliti che localizzano la mia posizione su una carta predefinita. È questo il territorio che attraversiamo? Quello cartografato delle reti GPS? «I satelliti offrono la precisione nella geodesia, informano sui contorni delle linee, segnalano eventuali evoluzioni, rilevano la metamorfosi dei territori. Tuttavia, sono carenti di narrazione, nell’assemblaggio di storie raccontate, in molteplicità di persone e di narratori che permettono alla carta di essere una sintesi, di essere unica e molteplice allo stesso tempo»[7].

La domanda di Latour faceva seguito a un primo quesito altrettanto significativo, Où atterrir? titolo di un libro (tradotto in italiano per Raffaello Cortina con il titolo Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica) nel quale il filosofo esplicitava la necessità di rimettere i piedi per terra, di ritrovare, bene o male che fosse, quello spazio vitale che (ancora) abitiamo, la zone critique: un sottile strato tra la Terra e l’atmosfera nel quale le piante continuano a produrre ossigeno ed è racchiusa la vita. Per ritrovare casa occorre, secondo Latour, ritrovare innanzitutto uno spirito di osservazione e analisi che abbiamo perso. Occorre sedersi in cerchio e domandarsi che cosa importa, da che cosa dipendiamo per poter vivere, che cosa dobbiamo salvare per poter continuare a vivere. Occorre compilare moderni chaiers des doléances ad uso comune.

Perché il mondo in espansione nel quale viviamo da oltre quattro secoli ha oltrepassato le sue dimensioni comuni per trasformarsi in un mondo scalabile, come lo definisce molto bene Anna Tsing in un breve e densissimo saggio che studia il capitalismo delle filiere ed è anche il presupposto delle sue ricerche sui funghi matsutake e sulle proliferazioni. In questo studio intitolato Della non-scalabilità, pubblicato in italiano all’interno della raccolta Un mondo logistico. Sguardi critici su lavoro, migrazioni, politica e globalizzazione a cura di Irene Peano e Niccolò Cuppini, Tsing indaga le dimensioni che il mondo ha assunto a partire dall’impresa coloniale, utilizzando il termine scalabilità, che proviene dal lessico degli affari e indica «l’abilità di un’azienda di espandersi senza cambiare la natura di ciò che fa»[8]. Analizzando la storia delle piantagioni di canna da zucchero, che gli europei cominciarono a piantare nei Caraibi e poi estesero a tutte le colonie cacciando le popolazioni locali e utilizzando schaivi provenienti principalmente dall’Africa, Tsing mostra che «la modernità è, tra le altre cose, il trionfo del prodigio tecnico sulla natura»[9], ma una natura che viene epurata delle sue relazioni sociali e delle pluralità. «La piantagione mostra come: occorre creare una terra nullius, una natura senza pretese di legami. I nodi originari, umani e non, devono essere annientati; rimodellare il paesaggio è un modo di liberarsene»[10].

La storia degli ultimi cinque secoli, fino a tutto il XX secolo ha proceduto in questo modo, attraverso espansioni, paesaggio non-sociali, nonsoels (nonsocial landscape elements), precisioni tecnologiche, eliminando dai libri contabili storie di sterminio e schiavitù. Ma Tsing ci mostra anche quanto questa storia sia contingente, legata a pratiche e momenti precisi e non sia affatto caratteristica connaturata del mondo. E infatti esistono pratiche di non-scalabilità come quelle della produzione dei funghi matsutake, che «non possono vivere al di fuori di relazioni trasformative con altre specie, si rifiutano di diventare nonsoel»[11] e resistono dunque a un processo di espansione. Pratiche che le stesse economie di mercato del XXI secolo hanno intercettato prima di altri e trasformato già in nuove modalità di dominio attraverso le reti delle logistica, del supply-chain (filiere globali) e dei subappalti. Per evitare di lasciare al commercio internazionale il monopolio di pratiche di non-scalabilità, ora che la scalabilità ha lasciato dietro di sé cumuli di rovine, e che l’espansione è andata fuori controllo, è il momento, ora, di progettare nuovi mondi, far risuonare l’eco delle diversità e ricostruire dove possibile, uscendo dall’egemonia delle precisione. La narrazione che ha accompagnato il mondo della scalabilità, quella narrazione che identificava espansione e progresso è già finita, e invece di accanirci a sputare sul cadavere potremmo accanirci con foga nel raccontarne altre, nell’immaginarle innanzitutto.

Mentre decine di gabbiani ingobbiti dal vento restano immobili disseminati sulla spiaggia, l’automobile procede sulla linea di incontro e di frattura.

Abitare il bordo di questa vertigine, di questa frattura recente, percorrerlo con lo sguardo, approcciarlo con i piedi, camminarlo avanti e indietro da est a ovest e ritorno, in direzione obbligata, in bilico tra la cima e l’abisso, nel ricordo immaginario di una terra perduta. Cercare l’isola con lo sguardo, con smania, voltare la schiena al mare e risalire, fuggire l’abisso di una terra lontanissima e ricercarla con dolore. È una frontiera naturale quella che camminiamo, un ecotono nel quale il mare si mescola all’erosione delle terre altissime, le terre franano e le montagne tornano a farsi isola, luogo di ritrovo, di incominciamento: «l’isola era un sasso nel vuoto / la foresta un ricordo / il mondo di prima era finito / ma il pesce mangiava l’insetto / l’uccello mangiava il pesce / il cervo moriva per il lupo / il lupo moriva per il verme / e i sogni sognavano i sogni»[12].



Note [1] J. L. Le Quellec e Bernard Sergent, Dictionnaire critique de mythologie, CNRS édition, Paris 2017, p. 234. [2] J. Berger, Perché guardiamo gli animali. Dodici inviti a riscoprire l’uomo attraverso le altre specie viventi, Il Saggiatore, Milano 2016. [3] Zoo è l’abbreviazione di zoological gardens. La parola divenne di uso comune dopo una celebre canzone di un varietà londinese dal titolo Walking in the zoo, Walking in the Zoo | Detailed Pedia. [4] Sul rewilding si veda l’importante lavoro di G. Monbiot, Selvaggi. Il rewilding della terra, del mare e della vita umana, Piano B edizioni, 2018. [5] Maxim Loskutoff, Ruthie Fear, Black Coffee, 2022, p.15. [6] «Essere fedeli a tutto ciò che si è cominciato spontaneamente, a volte fin troppo spontaneamente. Essere fedeli a ogni sentimento, a ogni pensiero che ha cominciato a germogliare. Essere fedeli nel senso più largo del termine, fedeli a sé stessi, a Dio, ai propri momenti migliori.» E. Hillesum, Diario 1941 – 1943, Adelphi, Milano 2018, p.222. [7] Liberamente tradotto da: F. Aït-Touati, A. Arènes, Axelle Grégoire, Terra Forma. Manuel de cartographies potentielles, Éditions B42, Paris 2019, p. 6. [8] A. L. Tsing, Della non-scalabilità, in Un mondo logistico. Sguardi critici su lavoro, migrazioni, politica e globalizzazione, a cura di N. Cuppini e I. Peano, Ledizioni LediPublishing, Milano 2019, p.102. [9] Ivi, p.111. [10] Ibidem. [11] Ivi, p.115. [12] M. Meschari e R. Lombardi, C’era la taiga c’era un incendio, Logos edizioni, Modena 2022, p.45.


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Elisa Veronesi, Laureata in Italianistica (Università di Bologna) è lettrice di italiano presso l'Université Côte d'Azur. Dal 2019 vive e lavora in Francia dove è insegnante e formatrice di italiano in diversi centri di formazione e alla Società Dante Alighieri Comité de Nice. Fa parte della redazione di Ibridamenti, ha collaborato con Simposio Italiano e scrive per Altritaliani e La Grande Estinzione. Un suo racconto è apparso su YAWP-Giornale di Letterature e Filosofie

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